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Fratture del contemporaneo – Open call

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NFT crypto art

Fondazione Finanza Etica, in occasione dell’incontro pubblico “Blockchain e la sfida della sostenibilità” organizza una esposizione virtuale di Crypto-art, opere d’arte digitali sotto forma di NFT.

Una giuria di esperti, coordinata da Fondazione Finanza Etica, selezionerà 18 progetti sul tema “Fratture del contemporaneo: guerra, covid e cambiamento climatico”. Gli artisti esposti avranno la possibilità di presentare le ultime tendenze del contemporaneo attraverso le proprie opere.

L’esposizione sarà ospitata all’interno di uno spazio espositivo virtuale e sarà visibile sulla piattaforma Kunstmatrix a partire dal 12 aprile.

Possono partecipare studenti e artisti, professionisti e non, che abbiano compiuto il 18° anno di età al momento dell’iscrizione, di qualsiasi nazionalità purché residenti in Italia.

La partecipazione all’esposizione è gratuita.

È possibile candidare una delle seguenti forme artistiche:

  • pittura
  • disegno
  • grafica
  • fotografia
  • digital art
  • street art
  • videoarte

Le iscrizioni sono aperte dal 21/03/2022 alle 23:59 del 03/04/2022 secondo le modalità descritte nel bando.

 

>>SCARICA IL BANDO<<
per i dettagli e per candidarti

Seminario: Blockchain e la sfida della sostenibilità

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Firenze | 12 aprile | ore 16 | Biblioteca delle Oblate

Il mondo della finanza ha subìto, negli ultimi quindici anni, una delle innovazioni più radicali che si possono annoverare e che ha già fatto storia. Le criptomonete e la tecnologia blockchain sono una di quelle innovazioni che rientrano nella categoria di “distruzione creativa” del capitalismo; un movimento di trasformazione con enormi potenzialità, ma che espone la società a rischi nuovi.
Per questo la blockchain e i crypto-assets sono al centro dell’attenzione dei governi, della società civile, dei grandi gruppi industriali e finanziari, dell’accademia e del mondo dell’arte.

Fondazione Finanza Etica vi invita a partecipare all’incontro del 12 aprile.
Un dialogo tra i principali esperti nazionali del settore, per riflettere sui principali interrogativi che la finanza etica si pone in relazione a questo fenomeno trasformativo:

  • Quali sono i trend innovativi che si stanno maggiormente sviluppando in ambito Blockchain?
  • Quali settori sono maggiormente investiti da queste nuove tecnologie?
  • Cosa sono gli NFT e come cambiano il mondo dell’arte?
  • È possibile regolamentare i crypto-assets? Come si sta muovendo il legislatore?
  • Che ruolo può avere la finanza etica nell’orientare lo sviluppo del settore?
  • Blockchain ed energia: un binomio sostenibile?

 

Relatori

 

Andrea Baranes

Componente del Consiglio di Amministrazione e del Comitato Esecutivo di Banca Etica dal 2016 e membro del board del network europeo Finance Watch. Autore di libri su finanza ed economia, è esperto di mercati finanziari e relazioni internazionali.

Filippo Zatti

Professore associato di Diritto dell’economia, è coordinatore scientifico dell’unità di ricerca BABEL – Blockchains and Artificial Intelligence for Business, Economics and Law presso il Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa dell’Università degli Studi di Firenze. È docente di Diritto della banca e del mercato finanziario e di Economic Law presso la Scuola di Economia e Management del medesimo Ateneo.

Chiara Canali

Critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Ideatrice e promotrice di eventi e iniziative dedicate alle nuove tendenze dell’arte contemporanea, dai New Media alla Street Art. Docente presso l’Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia.

Tamara Belardi

Tech-lawyer, svolge attività di consulenza legale e formazione per le imprese. È membro della commissione di esperti di alto livello in materia di Blockchain technology e DLT del Ministero dello Sviluppo Economico.

Julius van Sambeck

Managing Director di Ethius Invest Switzerland, società di gestione patrimoniale indipendente, con sede a Lucerna, dedicata agli investimenti socialmente responsabili. La società, attiva nel dialogo con le aziende sui temi ambientali, sociali e di governance, è membro di SfC-Shareholders for Change.

Modera Andrea Barolini, direttore della testata Valori.it

 

Modalità di partecipazione

La partecipazione è gratuita previa iscrizione >>QUI<<. Sarà possibile partecipare all’evento in presenza o seguire la diretta in live streaming su piattaforma Zoom.
Per la partecipazione online, il link di accesso al live streaming sarà inviato il giorno prima dell’evento.

 

Esposizione virtuale di Crypto-art

In occasione dell’incontro sarà organizzata una esposizione virtuale di Crypto-art, opere d’arte digitali sotto forma di NFT.

Una giuria di esperti, coordinata da Fondazione Finanza Etica, selezionerà 18 progetti sul tema “Fratture del contemporaneo: guerra, covid e cambiamento climatico”.

L’esposizione sarà ospitata all’interno di uno spazio espositivo virtuale e sarà visibile sulla piattaforma Kunstmatrix a partire dal 12 aprile.

 

Luogo

Biblioteca delle Oblate
Via dell’ Oriuolo, 24, 50122
Firenze FI

Contatti

Fondazione Finanza Etica
+39 055 4936073
formazione.fondazione@bancaetica.org

 

 

L’Italia non ripudia la guerra

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armi guerra

Le spese militari al 2% del PIL

La diretta conseguenza del discorso di guerra pronunciato da Draghi il 1° marzo al Senato è stata l’approvazione il 16 marzo dell’Ordine del giorno alla Camera dei Deputati. Il Governo così si impegna all’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2% del PIL. L’atto di indirizzo è stato proposto dalla Lega, sottoscritto dai deputati di Pd, Iv, M5S e FdI. Oltre, quindi, il perimetro della maggioranza: è stato votato infatti da 391 deputati su 421. I 19 voti contrari sono di Fratoianni e Stumpo, gruppo LeU; anche se LeU si è astenuto. A questi si aggiungono, tra i componenti del Gruppo Misto: 6 di Alternativa; 1 dei Radicali; 3 di Potere al Popolo; 2 dei Verdi Europei; 1 di Forza Italia; 1 dei 5 Stelle; 2 non iscritti a componenti. Su tutto il resto una coltre grigia di conformismo, come si confà ai tempi di guerra. Il dettaglio dei nomi dei votanti si trova qui.

L’Osservatorio MileX ha chiarito come questa indicazione di raggiungere la spesa del 2% del PIL derivi da un accordo del 2006 fra i Ministri della Difesa dei paesi Nato; accordo confermato, nel 2014, in Galles dal vertice dei Capi di Stato e di Governo. In quel vertice si era specificato che il 20% della spesa doveva essere dedicata a nuovi sistemi d’arma.

 

Che tipo di decisione è stata presa?

Con questo voto in Parlamento si compie un salto di qualità rispetto alle decisioni maturate fra il 2006 e il 2014. In primo luogo si dà una motivazione specifica di tipo militare per questa crescita della spesa. Con la guerra in Ucraina, peraltro,  l’opinione pubblica è più disponibile a un incremento di spesa, calcolato nell’ordine di 13 miliardi l’anno. Allo stesso tempo, però, questa decisione si allontana da vere motivazioni di sicurezza. L’incremento (variabile) della spesa pubblica è vincolato a un parametro che comprende la produzione di ricchezza privata (PIL); questo però avviene indipendentemente da una valutazione delle effettive esigenze della spesa militare.

Si afferma che l’aggressione russa all’Ucraina ha compattato l’Europa, spingendola finalmente a costruire una difesa comune. Ma, paradossalmente, si parte dal fondo di questo progetto. Viene stabilito infatti un aumento di spesa militare di uno dei paesi della Ue senza che questa abbia neppure abbozzato un progetto concreto di difesa comune, tanto meno un progetto approvato dagli Stati membri. Si tratta, nella sostanza, di un regalo generoso a scatola chiusa alle industrie del settore militare. 

 

Se vuoi la pace, prepara la pace

La sentenza latina si vis pacem, para bellum trova dunque qui la sua celebrazione. L’aumento delle armi prodotte e in circolazione è la migliore garanzia che prima o poi queste armi da qualcuno verranno effettivamente usate.

Peraltro, ciò è contrario all’accordo Minsk II del 2015 tra Francia, Germania, Russia e Ucraina, per stabilizzare il Donbass. Fra i vari punti, infatti, l’accordo prevedeva la completa demilitarizzazione dell’area; il disarmo e la smobilitazione delle milizie filo-russe; il ritiro dei combattenti volontari russi; la limitazione delle truppe ucraine nell’area.

 

Le industrie belliche ottime clienti della banche

Invece questa scelta alimenta un circuito economico sempre più innervato sulla produzione bellica. Di cui, oltre alle industrie produttrici, beneficeranno gli istituti finanziari. E sappiamo bene che le industrie sono ottime clienti delle banche, perché offrono garanzia di solvibilità, essendo finanziate dallo Stato. Non solo: nei casi di Leonardo e Fincantieri sono anche partecipate, dallo Stato. Solo per inciso, fra i gioielli di Fincantieri troviamo Submarine S1000, prodotto in partnership con la russa Central Design Bureau for Marine Engeneering “RUBIN”. 

13 miliardi in più all’anno nel bilancio della Difesa sono una manna anche per le banche e gli istituti finanziari di cui l’industria militare è prezioso cliente. Non di tutti, però.

 

La finanza etica rifiuta ogni finanziamento alla produzione e al commercio di armamenti

Il Gruppo Banca Etica esclude dal proprio universo finanziabile e investibile l’industria della difesa. I fondi di Etica Sgr non investono in titoli di debito russi, bielorussi o ucraini; anche nell’azionario, la Sgr non investe nelle aziende russe e bielorusse. Il processo di selezione rigorosamente passa un doppio screening per individuare i Paesi più virtuosi dal punto di vista socio-ambientale e le aziende più attente alla sostenibilità e al benessere collettivo.

Nella nostra accezione di sostenibilità il tema del rispetto dei diritti umani e civili è importante tanto quanto quello del rispetto dell’ambiente; per questo i paesi come quelli attualmente in conflitto sono fuori dall’universo investibile.

 

La sostenibilità della finanza che include gli armamenti

Non è un fatto scontato: società e banche che si dicono “sostenibili” non si fanno grandi problemi, infatti, a includere gli armamenti nelle loro attività tipiche. Fondazione Finanza Etica da anni svolge azionariato critico verso l’italiana Leonardo e la tedesca Rheinmetall. In assemblea denunciamo l’incongruità dell’eccessivo sbilancio verso il settore militare ai danni di quello civile; oltre al coinvolgimento in transazioni di armi verso paesi belligeranti (Arabia Saudita) o in aperta violazione dei diritti umani (Egitto)

Gli amministratori delegati delle due aziende hanno di recente spiegato il loro concetto di sostenibilità e testimoniato il cambiamento del clima. Alessandro Profuno (Leonardo) spiega che “la difesa è un elemento della sostenibilità e deve essere riconosciuta come tale. Senza sicurezza non si può avere sostenibilità” (Il Sole 24 Ore, 11.3.2022). Armin Pappenger (Rheinmetall) dichiara che “alcuni mesi fa la gente voleva metterci al bando, per dire che questa industria è molto cattiva e dannosa. Adesso il mondo è totalmente diverso” (il Fatto Quotidiano, 14.3.2022).

Non sarà così difficile trovare istituti finanziari che, definendosi sostenibili e responsabili, non si faranno scrupoli a finanziare queste aziende. E, forse, con un po’ di buona volontà e molta attività di lobby, magari anche il settore della difesa potrà rientrare nella tassonomia sociale e ambientale della Ue, così come vi è entrata la produzione di energia dal nucleare e dal gas.

Ecco, forse anche da questo si può comprendere la differenza che esiste fra la finanza etica e la finanza sostenibile

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Pace e ambiente. I valori del nostro azionariato critico

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Nella guerra in Ucraina cadranno anche la pace e l’ambiente, parte integrante del primo rapporto sull’azionariato critico della Fondazione

Fra le tante disgrazie che la guerra in Ucraina lascerà sul terreno, oltre ai morti civili ucraini, ce ne sono due che vogliamo sottolineare e che hanno a che fare con il nostro azionariato critico, di cui qui presentiamo il nostro primo rapporto per il 2021.

La prima è la ripresa in grande stile della produzione e del commercio degli armamenti.

Vuoi per armare chi si difende o per rafforzare chi attacca, chi si ingrassa comunque sono i produttori di armi e le
banche che li finanziano.

Questa però è una enorme disgrazia perché, per quanto possa far crescere i dividendi che gli azionisti delle industrie degli armamenti incassano alla fine dell’anno e gli impieghi delle banche che le finanziano, le armi costruite e esportate sono fatte per essere usate, prima o poi.

 

L’Azionariato critico sui produttori di armi

Noi incontriamo nel nostro azionariato critico alcuni di loro. Leonardo SpA, la maggiore impresa italiana per volumi produttivi ed esportazioni, presenta ogni anno rendiconti finanziari ragguardevoli e buoni dividendi. Chi incassa? In primo luogo il Governo italiano ,che detiene il 30,2% delle azioni; il 48,8% sono investitori istituzionali, quindi chissà, forse senza saperlo anche chi ci legge e  acquista fondi, tranne quelli di Etica Sgr, si può trovare nel proprio portafoglio azioni di Leonardo.

Nel nostro azionariato critico con Leonardo da sempre mettiamo l’accento sulla necessità di aumentare il peso della produzione civile rispetto a quella militare. Come si può vedere nel nostro report nella sezione Domande e risposte, spesso queste ultime assai evasive. Ma come potrete leggere, è la spesa militare che continua ad aumentare, raggiungendo nel 2021 il 73% del fatturato.

Anche con Rheinmetall il nostro azionariato critico ha sortito un risultato interessante. Rheinmetall, ricordiamo, è l’impresa tedesca proprietaria della RWM italiana produttrice delle bombe vendute all’Arabia Saudita e da queste usate in Yemen.


Dato che il management non risponde, da anni, alle nostre richieste, ci siamo rivolti al Comitato etico del Fondo Sovrano Norvegese, il più grande fondo pensioni del mondo: a loro abbiamo chiesto una policy che portasse al disinvestimento da imprese come Rheinmetall. Il Parlamento norvegese, maggiore azionista del Fondo, ha effettivamente deliberato in tal senso e quindi è lecito attendersi un disinvestimento del 2,69% del Fondo da Rheinmetall.

 

Raddoppiare gli sforzi sulle rinnovabili

La seconda disgrazia che deriverà dalla guerra in Ucraina è che, data la dipendenza dell’Europa dal gas russo, sarà legittimata la ripresa dell’estrazione di idrocarburi, da un lato, e dei progetti sul nucleare, dall’altro.

È una risposta emotiva, sbagliata e illogica perché caso mai questa crisi dimostrerebbe piuttosto la necessità di raddoppiare gli sforzi sulle energie rinnovabili. Che peraltro sarebbero disponibili ben prima e a minor impatto anche economico.

Ma è la risposta che certamente ci possiamo aspettare da Eni che, dopo aver puntato tutto nella sua strategia sull’idrogeno blu ottenuto dal gas naturale, potrà tornare alla scelta degli idrocarburi. Del resto nel suo Piano Strategico, che abbiamo più volte sottoposto a critica durante l’engagement con Eni, l’azienda aveva già annunciato di continuare a produrre idrocarburi nel triennio 2021-2024 con un aumento medio annuo del 4%. Come poi possa arrivare a un
net zero di emissioni di CO2 per il 2050, come sostenuto nel Piano di lungo termine, resta per noi un mistero. Certo non attraverso la cattura della CO2 e le compensazioni (piani di forestazione, o meglio, di non deforestazione),  tecnologie e attività di dubbia efficacia e misurabilità.

 

Pace e ambiente sono due valori che informano di sé il nostro azionariato critico: un modo per tradurre valori e ideali alti in concrete prassi finanziarie e gestionali di imprese che avrebbero così l’occasione di passare alla storia come imprese dal movente sociale, costituzionale direi, e non come i Dogs of war dei Pink Floyd.

Cani da guerra e uomini d’odio
Senza causa, non facciamo discriminazioni
La scoperta è da rinnegare
La nostra moneta è carne e ossa
L’inferno aperto e messo in vendita
Riunitevi e contrattate
Per il denaro duro, mentiremo e inganneremo
Nemmeno i nostri padroni sanno la rete che tessiamo

 

SCARICA IL REPORT QUI

 

Simone Siliani

Direttore Fondazione Finanza Etica

 

 

 

 

 

 

 

 

credit immagine: Banksy, Bambino che infila un fiore nella canna del fucile di un soldato, 2007. stencil su muro. Betlemme.

Avviare un’impresa. Se sei donna è ancora più difficile

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impresa

Il progetto “Giovanni donne: che impresa!”

 

Nel 2021 Fondazione Finanza Etica ha sostenuto, grazie il fondo utili di Etica Sgr, due progetti di sostegno all’imprenditorialità femminile contro la violenza di genere.

Giovani donne: che impresa!” ha accompagnato un gruppo di donne che hanno sofferto in ambito lavorativo le conseguenze di questa pandemia . 

La fase pandemica che stiamo vivendo, il brusco calo dell’occupazione femminile fotografato anche dall’Istat e la difficoltà a riattivare strade di uscita da questa crisi ha importanti risvolti di genere che hanno avuto e continueranno ad avere ricadute pensantissime sulle donne. Molte donne sono spinte dalla motivazione di mettersi in proprio, avviare un’attività che sia tutta loro; spesso però si apre una impresa senza avere realmente contezza di tutti i passi che servono perché sia duratura. 

“Giovani donne che impresa!” ha cercato di fornire un aiuto concreto sul piano del rafforzamento interiore e per capire meglio chi si è e quali sono i propri obiettivi; al fine di dare sostenibilità al loro progetto.

Presso il Centro Donna di Roma, gestito da Pangea, è stata realizzata  una attività di supporto, informazione e formazione rivolta al reinserimento nel mondo del lavoro attraverso l’avvio all’impresa, la creazione di autoimpiego e con la possibilità di accedere al microcredito.

 

L’intervista

Abbiamo fatto due chiacchiere con Simona Lanzoni, vice presidente di Pangea, e Gaia Orzi, coordinatrice e referente del progetto.

 

Da quali esigenze è nato il vostro progetto?

Per dare delle risposte concrete alle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro per le giovani donne. Il periodo di pandemia ha acuito ancora di più questo problema. I dati citati dalla viceministra Cecilia Guerra sulla perdita del lavoro femminile sono spaventosi!

Si punta ancora troppo poco concretamente sulle potenzialità delle giovani donne in Italia che ..ancora non sono fuggite all’estero.

È fondamentale sostenere la leadership femminile con strumenti volti sia all’apertura di microimprese che nella ricerca del lavoro. Sono da considerare anche altre categorie fragili: le donne vittime di violenza, per esempio; o coloro che hanno altri tipi di vissuto migratorio, che hanno spesso qualche difficoltà in più da superare per inserirsi.

Viviamo in un mondo in cui ti dicono che ci sono una marea di strumenti per accedere al credito. Però nessuno spiega che non si nasce imprenditrici. E che non basta una buona idea per aprire una impresa che duri oltre i primi due anni!

Ci vuole capacità e tenacia, ma anche strumenti per strutturare il proprio lavoro e affrontarlo giorno dopo giorno.

Noi forniamo questi strumenti.

Mettiamo anche in guardia sul fatto che essere donne imprenditrici vuol dire fare i conti con discriminazioni e ostacoli affrontati in modo diverso dagli uomini. Un esempio tra tutti: la garanzia per avere accesso al credito; oppure come conciliare i tempi di cura della famiglia con la gestione del lavoro.

Per questo il progetto nasce dal desiderio di offrire alle donne un percorso gratuito di supporto e formazione all’avvio di impresa. Proponiamo strumenti che favoriscano l’inserimento lavorativo e che aiutino le donne a costruire o rafforzare la propria autonomia economico-finanziaria e capacità decisionale; anche per permettere loro di affrontare le sfide che le attendono.

 

Quali sono gli obiettivi di progetto?

L’obiettivo del progetto è quello di raggiungere le donne tra i 23 e i 40/45 anni che vogliono posizionarsi o riposizionarsi nel mondo del lavoro o della microimpresa. Il corso è gratuito per essere più inclusive possibili.

L’insieme delle lezioni e incontri con professioniste e professionisti ha il fine di fornire strumenti concreti per la costruzione dell’idea imprenditoriale. In parallelo si lavora sulla motivazione che spinge a prendere una tale strada, un percorso più “intimo” che valorizza le competenze personali e fa prendere consapevolezza di cosa vuol dire essere imprenditrice di se stessa, a prescindere dalla decisione di mettersi in gioco nel mondo del lavoro.

 

Come si è strutturato?

Il percorso si è strutturato in una serie di incontri che si sono svolti da settembre a dicembre 2021 e che hanno visto la partecipazione di 9 persone docenti esterne e 18 donne tra i 23 e i 45 anni.

Gli incontri si sono svolti in presenza a Roma presso il Centro Donna di Fondazione Pangea. La struttura degli incontri è variata molto a seconda dell’argomento e dell’insegnante, passando da classici incontri frontali a incontri estremamente dinamici con attività e giochi di gruppo. 

In questo momento, stiamo continuando a tenere vivo il gruppo con l’organizzazione di altri incontri informali per rimanere aggiornate sui percorsi delle partecipanti e proseguire l’attività di sostegno individuale, anche in vista di eventuali richieste di accesso al microcredito. Inoltre, questi incontri saranno un’occasione per far incontrare le partecipanti con alcune alcune donne che hanno seguito le edizioni precedenti del Corso, affinché possano raccontare la loro esperienza. 

 

Le partecipanti sono state selezionate mediante una call. Come è stata la risposta a questa proposta formativa? avete riscontrato interesse?

È andata molto bene! 

In seguito alla pubblicizzazione del Corso abbiamo ricevuto numerose candidature, tre volte superiori al numero dei venti posti che potevamo coprire. Con tutte le candidate abbiamo svolto colloqui per conoscerci a vicenda, conoscere la loro idea di impresa e spiegare la struttura del Corso, sia da un punto di vista strettamente pratico e organizzativo sia da un punto di vista di impostazione e obiettivi.

Siamo soddisfatte, perché solo 2 persone su 20 non hanno seguito il corso fino alla fine del suo percorso, con un tasso di abbandono quindi molto basso.

 

L’esperienza del percorso: quali sono i punti di forza che avete riscontrato, quali le cose da migliorare.

La formazione che offre Pangea, il mix di diverse lezioni sia sui temi che nelle modalità hanno una maggiore efficacia quando sono condotte dal vivo. Infatti, malgrado la pandemia ci abbia costretto tutti e tutte a interfacciarci online, per il corso Giovani Donne Che Impresa funziona meglio la formazione in presenza. Ciò perché il confronto diretto con i e le docenti, durante i giochi di ruolo, e la forte relazione di scambio e confronto tra le partecipanti, non ha paragoni fatta in presenza con quello che si produce online.

I punti di forza sono la qualità e l’originalità dell’offerta formativa, che automaticamente attiva l’atmosfera che il Corso riesce a creare durante gli incontri, sia tra docenti e partecipanti sia tra le partecipanti. Spesso sono legami e contatti che vengono mantenuti oltre il termine del Corso. Il capitale sociale che viene generato è il vero surplus.

 

Quali i prossimi passi?

Al fianco degli incontri con i docenti esterni stiamo organizzando altri incontri informali per rimanere aggiornate sui percorsi delle partecipanti e proseguire l’attività di sostegno individuale, anche in vista di eventuali richieste di accesso al microcredito. Inoltre, stiamo facendo incontrare le partecipanti con figure interessanti per ampliare e approfondire le conoscenze sui temi del mondo dell’impresa e per ascoltare l’esperienza di alcune donne, oggi micro imprenditrici, che hanno seguito le edizioni precedenti del Corso e possono raccontare la loro esperienza.

 

Vorremmo concludere chiedendo un consiglio, a noi e, più in generale, ai soggetti che erogano fondi e liberalità. Quali sono gli elementi principali da tenere presente, rispetto a questo target specifico?

Non si nasce imprenditrici e non basta una idea, lo abbiamo detto anche prima. A oggi il sistema italiano per l’avvio d’impresa è focalizzato completamente sui servizi finanziari al credito, microcredito incluso.

Serve un cambio di stagione. Di fatto serve una seria strategia di investimenti sui servizi non finanziari all’accompagnamento all’avvio di impresa, che permettono di erogare anche formazione / accompagnamento individuale e di gruppo, verso una presa di coscienza di cosa vuol dire avviare una microimpresa, mettere le basi per l’avvio di una impresa o rendersi conto, prima di indebitarsi, che è meglio soprassedere e orientarsi nel cercare lavoro dipendente.

Ecco perché è necessario iniziare a ragionare in termini di percorso di accompagnamento all’avvio di impresa e non solo di semplice sostegno economico, che trova il tempo di una idea e dietro l’angolo dopo meno di due anni fallisce.

Giovani Donne che Impresa vuole essere, seppure nel suo piccolo, una micro risposta a questo bisogno. c’è sete di sapere su come si avvia un’ impresa , non diamolo per scontato!

 

 

Per fare una CSA ci vogliono partecipazione, solidarietà e fiducia

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CSA

Una ricerca, in corso di realizzazione e sostenuta da Fondazione Finanza Etica, indaga l’esperienza delle CSA – Comunità di Supporto all’Agricoltura. I risultati del Progetto NUMES.

 

Le Comunità a Supporto dell’Agricoltura (CSA) sono un’esperienza di economia solidale. Sono comunità che, seguendo i principi di autorganizzazione non gerarchica e di solidarietà, autoproducono cibo sano, locale e sostenibile. Si tratta di progetti vivi e attivi in diverse parti del territorio Italiano e rappresentano un fenomeno in rapido aumento.

Il Progetto NUMES parte dall’assunto che in un contesto economico come l’attuale, in cui l’emergenza economica, sociale e civile sta rendendo sempre più evidenti ed esasperando le crisi, l’economia solidale possa essere uno strumento di contrasto a questa crisi, diffondendo un approccio rivolto al rispetto e al sostegno reciproco.

Per questo ha iniziato a indagare le Comunità di Supporto dell’Agricoltura, perché riconosce nelle CSA una pratica virtuosa non solo sul piano economico e ambientale, ma anche su quello della giustizia sociale e del rispetto del diritto al cibo e alla sovranità alimentare.

 

I risultati della ricerca del Progetto NUMES

Ne parliamo con Alessandra Piccoli e Adanella Rossi, coordinatrici della ricerca. Alessandra Piccoli è ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bolzano, Adanella Rossi è professoressa associata al Dipartimento di agricoltura, cibo e ambiente dell’Università di Pisa.

Adanella, qual è il punto di vista metodologico della ricerca?

Abbiamo realizzato una ricerca partecipativa. Non ci interessava solo approfondire il tema della CSA, conoscerle meglio, ma soprattutto coinvolgere le Comunità partecipanti della ricerca, perché non si sentissero solo un oggetto di studio, ma un soggetto propositivo.

Quante sono le comunità e come le avete coinvolte?

All’indagine hanno partecipato dodici Comunità, censite attraverso la Rete Nazionale Italiana delle CSA. Abbiamo inviato due questionari online, uno destinato a un referente per ogni Comunità e uno a tutti i soci che partecipano alla CSA. Ai questionari sono state affiancate dodici interviste a completamento della raccolta di informazioni.

Siete in grado di anticipare qualche risultato?

Sì, perché il progetto è decisamente a buon punto. Abbiamo concluso questa fase della ricerca, che ha evidenziato come le CSA operino prevalentemente in ambito urbano e periurbano e come la totalità delle CSA analizzate sono costituite da persone che vivono in questo ambito. In coerenza con le motivazioni di fondo, dunque, queste Comunità si sviluppano in un ambiente più urbano che rurale.

Qual è la storia di queste esperienze di economia solidale? Sono un fenomeno recente? 

La prima realtà italiana risale al 2010 e poi, goccia a goccia, ne segue un’altra nel 2012 e una terza nel 2013. Tuttavia, la maggioranza delle CSA italiane censite è nata tra il 2017 e il 2018.

È interessante anche capire da chi è venuta la spinta. Alessandra, questa spinta è partita dal mondo agricolo, cioè dai produttori, o ha risposto soprattutto a una esigenza dei “consumatori”?

A prendere l’iniziativa in sei casi su dodici sono stati gli agricoltori, ci dice la ricerca; dei restanti, 4 casi sono costituiti da un gruppo di consumatori e in due casi si è trattato di una iniziativa congiunta, parte di un percorso di economia solidale più ampio, all’interno di un Distretto di Economia Solidale, cioè reti locali che collegano le realtà di economia solidale di un territorio, e quindi Gas, produttori e fornitori, associazioni, in circuiti di idee, informazioni, prodotti e servizi.

Mi dicevi che avete fatto una mappatura delle parole chiave che, nell’opinione dei referenti, definiscono queste Comunità.

La prima parola è partecipazione e, a seguire, solidarietàfiducia. Sono questi gli elementi fondamentali dell’esperienza. Per chi ha promosso la nascita delle CSA risulta molto importante la solidarietà reciproca, meno il garantire accesso al cibo locale e biologico.

Cioè?

In molti casi la nascita della CSA è legata all’evoluzione di uno o più GAS, o comunque di quel modello, con il desiderio di arrivare a un rapporto più stretto, responsabile e di maggior supporto nei confronti di chi coltiva. La forma organizzativa di queste Comunità è sostanzialmente quella della cooperativa o dell’associazione di promozione sociale.

Che dimensioni hanno le singole Comunità?

Il numero di soci/famiglie varia fortemente, come anche quello degli agricoltori, che dipende dal numero delle famiglie. Ci sono CSA di piccole dimensioni, composte da 10-20 soci, fino alle più numerose, che ne contano tra 150 e 200.

Adanella, ci descrivi i principi economici su cui si strutturano?

Il costo annuale di una fornitura per 10-12 mesi l’anno si aggira tra i 400 e gli 800 euro, con costi minori per le CSA che non consegnano costantemente. Il valore economico prodotto dalle Comunità varia, conseguentemente, in modo significativo: da poche migliaia a centinaia di migliaia di euro.

Un elemento peculiare di solidarietà tra i soci è la cosiddetta “asta a offerta libera”: i costi complessivi di produzione, valutati sul bilancio preventivo, sono ripartiti tra i soci a partire da un’offerta libera dei singoli. In questo modo si consente di partecipare secondo le proprie effettive possibilità economiche. Questa modalità è applicata da 4 su 12 CSA indagate.

Sarebbe interessante un approfondimento sul modello di governance. Quali sono gli elementi che emergono dalla vostra ricerca?

In coerenza con l’importanza attribuita alla partecipazione, alle attività della Comunità partecipano anche i soci, a titolo di volontariato. I ruoli sono diversi: da quelli strettamente legati alle attività di campo (coltivazione, raccolta) a quelli legati alla logistica (preparazione delle cassette, distribuzione) a quelli di carattere gestionale (amministrazione, comunicazione). L’impegno è molto variabile, da poche ore all’anno a molte ore ogni settimana, secondo disponibilità e piacere.

In generale, la governance delle CSA è inclusiva, democratica e basata su metodi consensuali. L’organizzazione delle attività è fondata sull’adesione volontaria a gruppi di lavoro e solo raramente gestita da un direttivo nominato o eletto.

Quali sono le relazioni con le comunità e i territorio?

L’interazione con l’esterno è variabile. In generale, sono Comunità che sentono di non avere un ruolo politico forte, sebbene lo riconoscano in potenza. Si riconoscono, invece, come attori in ambito agricolo, alimentare e sociale.

E per quanto riguarda i consumatori? Alessandra, da cosa sono mossi, quali i loro bisogni?

Le motivazione sono legate ad avere prodotti biologici, locali ed etici, ma anche una generica condivisione del progetto e il desiderio di sostenere un modello agricolo biologico, ecologico e solidale. La maggioranza di chi ha risposto al sondaggio svolge un ruolo attivo nella sua organizzazione, come volontario.

Tra i bisogni evidenziati, mi sembra importante sottolineare come la partecipazione a queste pratiche di Comunità abbia fatto crescere significativamente la loro consapevolezza riguardo sia alle pratiche agricole alimentari sia, e ancora di più, alla dimensione sociale e relazione della filiera agro-alimentare.

Vorremmo capire qualcosa sul campione socio-demografico. Sono scelte per persone abbienti? I giovani sono coinvolti?

La maggioranza delle famiglie aderenti è composta da 2-4 persone. Se è vero che il 54% si dichiara in condizioni economiche soddisfacenti, il 30% dice di essere in condizioni modeste, a riprova che non è un modello elitario. Sono invece minoritari i giovani, sia single che in coppia, con o senza bambini: il 65% dei rispondenti è composto da persone mature.

Quali conclusioni avete tratto, in sintesi?

La solidarietà verso gli agricoltori e tra consumatori emerge come un cardine del modello, che si affianca alla ricerca di cibo sano, locale ed ecologico. Le difficoltà nel mantenere stabile l’equilibrio economico e dare, quindi, sostenibilità all’innovatività del rapporto si affiancano alle sfide della dimensione sociale che, seppur fondamentale, richiede tempo e cura.

L’agricoltura supportata dalla comunità è, in Italia come altrove, una sfida, spesso consapevolmente politica, al sistema di mercato e alle sue logiche.

Quanto sia in grado di consolidarsi e offrire una reale alternative lo dimostrerà negli anni a venire.

 

Gli autori e le autrici del Progetto NUMES

Il progetto è coordinato dall’Area Nord-Est di Banca Etica e promosso dalla cooperativa Arvaia, in collaborazione con la Rete Italiana delle CSA, le associazioni Defeal e Ortazzo e l’azienda agricola Podere alla casetta. Il supporto scientifico è a cura delle Università di Bolzano, Pisa e Urbino.

 

Il progetto Portatori di Valore

Fondazione Finanza Etica gestisce un fondo liberalità assegnatole da Banca Etica e costituito da una percentuale degli utili dell’anno precedente, che prevede che una parte del fondo sia destinato al sostegno di progetti proposti dai Portatori di Valore o con loro direttamente co-progettati.

Il Progetto NUMES è stato presentato dall’Area Centro insieme ai Soci Lavoratori di Banca Etica.

I cosiddetti Portatori di Valore di Banca Etica sono costituiti dai seguenti stakeholder:

– le 5 aree territoriali (centro, nord-est, nord-ovest, sud e Spagna), che nascono dalla volontà della Banca di dare voce alle istanze locali e, contestualmente, sviluppare un’azione più radicata e coordinata sul territorio;

– i soci del Tavolo di Riferimento, costituito dalle seguenti realtà, alcune delle quali hanno contribuito a fondare la Banca: Acli, Agesci, Arci, Associazione Botteghe del Commercio Equo e Solidale, Aiab, Cgm (Consorzio Gino Mattarelli), Cisl, Cooperativa Oltremare, Cooperazione Terzo Mondo (Ctm-Altromercato), Fiba Cisl, Emmaus Italia Gruppo Abele, Mag2 Finance Milano, Mag Venezia, Mani Tese, Overseas, Uisp;

– lavoratori e lavoratrici del gruppo bancario Banca Etica e della Fondazione Finanza Etica, Fundación Finanzas Éticas, soci di Banca Etica.

 

Gli altri progetti sostenuti per la valorizzazione delle aree interne

L’Area Centro, insieme ai Soci Lavoratori, ha presentato il progetto COM-RES, ricerca-azione sulle aree interne resilienti. L’Area Nord-Ovest il progetto “Seminare comunità“, per la creazione di nuove comunità a presidio dei territori montani.

 

 

 

 

 

Donne e finanza

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donne e finanza

La nuova scheda “Capire la Finanza” di Fondazione Finanza Etica

 

Di cosa parla questa scheda su “Donne e finanza”?

 

Di soffitti di cristallo. Nelle più grandi società quotate in borsa a livello internazionale, le donne rappresentano il 49% della forza lavoro in entrata. E il 5% nelle figure apicali. Si laureano più donne che uomini. Le rettrici sono 5 su 84 atenei; le professoresse ordinarie il 24%.

soffitti di cristallo

 

Di barriere all’ingresso. Gli istituti di credito creano molte più barriere alla partenza per le imprese femminili rispetto a quelle maschili, causando un forte freno alla loro crescita. Il credito bancario rappresenta solo l’11% delle fonti di finanziamento delle imprese femminili, a fronte di un elevato ricorso al capitale proprio/familiare. Le banche chiedono garanzie di terzi al 54% delle imprese femminili, rispetto al 39% delle imprese maschili.

 

Di stereotipi. Da una indagine Swg per CNA nazionale del 2019, il 12% del campione intervistato ritiene che il trattamento riservato dalla banca alle donne sia “molto peggiore” rispetto a quello con la controparte maschile. Le ragioni, secondo le persone intervistate, derivano dai pregiudizi culturali secondo cui le donne “potrebbero avere figli” (37% delle risposte), “sono meno affidabili degli uomini” (27%), “mettono il lavoro al secondo posto rispetto alla famiglia” (19%) e in ultimo viene indicata una presunta scarsa attitudine all’imprenditorialità.

Di come il mondo della finanza sembra non essere, ancora, un posto per le donne. In Italia la rappresentanza femminile nei CdA degli istituti di credito è del 21,7%. Bisogna aspettare il 2021 per vedere la prima donna italiana al governo di una grande banca sistemica, Elena Patrizia Goitini, AD di Bnl Bnp Paribas.

Di formazione. L’Italia risulta agli ultimi posti per competenze finanziarie da anni in qualsiasi ricerca comparativa, a livello europeo o mondiale, sia stata realizzata. In una delle più note, la ricerca di Standard&Poor del 2004, l’Italia raggiungeva il punteggio di 37 (su un massimo di 100), in linea più con i Paesi emergenti che con le economie avanzate. Questi dati sono ancora più gravi se si mettono in confronto con l’ultima indagine PISA relativa al 2018. Nell’analisi delle competenze finanziarie degli adolescenti (15 anni), l’Italia si colloca al 13° posto su 20 Paesi. Se si considera “l’esperienza finanziaria” dei 15enni, l’Italia è all’ultimo posto, con un punteggio del 36,1% a fronte di una media Ocse del 51,5%. Se, in media Ocse, le ragazze hanno un punteggio del 2% più basso rispetto ai ragazzi, in Italia questo gap di genere arriva fino al 15%.

formazione

 

Di disparità nel mondo del lavoro. In Italia a dicembre 2020 ci sono stati 101mila occupati in meno rispetto al mese precedente, di cui 99mila donne, e l’anno 2020 ha chiuso con una perdita di 444mila posti di lavoro, di cui 312 mila donne e 132 uomini. Le donne guadagnano in media il 20% meno degli uomini e il carico familiare e di assistenza non retribuito è, nel 74% dei casi, sulle spalle delle donne; il 26,5% delle donne è sovra-istruito per il tipo di impiego svolto e per il 40% è concentrato in tre ambiti lavorativi: commercio, sanità e assistenza sociale, istruzione.

disparità mondo lavoro

 

Della violenza economica di genere. In una società, come quella italiana, in cui le disparità di accesso al mercato del lavoro e il gap salariale sono così elevati e il lavoro di cura famigliare è tutto sulle spalle delle donne, non stupisce che il 26,4% delle donne ha subito violenza psicologica o economica dal partner attuale e il 46,1% da parte di un ex partner. In una società, peraltro, fortemente patriarcale in cui, ancora, i soldi sono percepiti come “cose da uomini”.

Di come nessuno è perfetto. Anche nel mondo delle banche etiche e alternative Europee c’è ancora molta strada da fare: solo due donne presidenti su sedici, solo una donna presidente di consiglio di amministrazione. Così nel Terzo settore, su 80mila imprese cooperative presenti, solo 19mila sono gestite da donne, pari al 23,75%; al di sotto del 27,5% che rappresenta la media di donne con un ruolo dirigenziale in Italia.

Di politica, necessariamente. Il Global Gender Gap Report conferma, per l’Italia, le tendenze riscontrate a livello mondiale. Il maggior punto di fragilità risiede nella insufficiente rappresentanza femminile nelle sedi politiche. Secondo il rapporto, il divario di genere nel mondo della politica è stato colmato al 31,3%: infatti, solo il 36% del parlamento italiano è composto da donne, mentre 16 dei 24 membri del consiglio dei ministri sono uomini.

Di cosa si sta mettendo in campo. Il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR) italiano presenta, in coerenza con la Strategia europea, una Strategia Nazionale per la parità di genere 2021-2026. Il suo obiettivo è la risalita di cinque punti entro il 2026 nella classifica del Gender Equality Index, da 63,5 a 68,5 (sopra l’attuale media UE di 67,9). Nel PNRR è stato introdotto il tema del gender mainstreaming, che consiste nella possibilità, da parte dei decisori politici ed economici, di interpretare il genere come elemento trasversale di tutte le politiche pubbliche. Il PNRR prevede l’investimento di 6,66 miliardi di euro in un sistema di certificazione della parità di genere, ancora tutto da mettere in atto, ma che, se riuscisse a entrare come strumento di valutazione nelle pubbliche amministrazioni, potrebbe consentire l’introduzione di effettive innovazioni dal punto di vista delle premialità e condizionalità nell’applicazione dei progetti finanziati dal PNRR.

Solo cattive notizie?

Abbiamo intervistato otto donne: Marcella Corsi, Anna Fasano, Claudia Fiaschi, Vera Gheno, Simona Lanzoni, Monica Pratesi, Claudia Segre e Anita Wymann. Ci hanno risposto con entusiasmo, ogni tanto con amarezza, mai con rassegnazione. Sono tutte delle grandi tessitrici di progetti, idee, relazioni, possibilità, innovazioni. Non per loro stesse, ma per la comunità in cui vivono e lavorano. Ciascuna a suo modo.
Noi vi consigliamo di leggere la scheda partendo da quelle voci. Anche per guardare con un po’ di ottimismo al futuro.

 

La scheda  “Donne e finanza” si può leggere e scaricare QUI.

 

Marcella Corsi è Professoressa ordinaria di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Statistiche
di Sapienza Università di Roma, Coordinatrice di Minerva – Laboratorio di studi su diversità e disuguaglianze di genere; è tra le fondatrici del web-magazine inGenere. Anna Fasano è presidente di Banca Etica. Claudia Fiaschi è stata a lungo portavoce del Forum del Terzo Settore. Vera Gheno è una sociolinguista; accademica, saggista e traduttrice italiana, ha lavorato per oltre vent’anni all’Accademia della Crusca; si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, con particolare attenzione al sessismo e all’inclusività nella lingua italiana. Simona Lanzoni è vice-presidente di Pangea Onlus e, dal 2012 al 2014, vice-presidente di RITMI, Network Italiano per la Microfinanza. Monica Pratesi, è ordinaria di Statistica al Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa, dal 2016 al 2020 presidente della Società Italiana di Statistica, consigliera Istat. Claudia Segre, economista, è presidente di Global Thinking Foundation. Anita Wymann è  presidente di Alternative Bank Schweiz (CH), banca orientata alla sostenibilità, membro di FEBEA e di GABV – Global Alliance for Banking on Values.

Resilienza: la forza delle aree interne

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resilienza resilienti aree interne

Il valore della resilienza

 

resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. […] 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.

Vocabolario Treccani

 

Abituati a chiamarlo con il suo acronimo, magari non ci pensiamo, ma il PNRR è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Nel Primo capitolo, dedicato agli obiettivi generali e alla struttura del Piano, si dice che “Per quanto riguarda salute e resilienza economica, sociale e istituzionale, gli Stati membri devono rafforzare la propria capacità di risposta a shock economici, sociali e ambientali e a cambiamenti”.

Quando Fondazione Finanza Etica, nel 2020, ha definito le linee di indirizzo rivolte ai Portatori di Valore per accedere alle liberalità erogate dalla Fondazione, era stata evidenziata una preferenza verso progetti che includano interventi e iniziative relative agli effetti sociali, economici, finanziari dovuti alla pandemia, volti ad alleviare gli effetti negativi della stessa, ma soprattutto ad approfondire riflessioni e sperimentare interventi di medio-lungo periodo, che abbiano carattere di permanenza e di sistema, anche a livello territoriale, e che possano diventare strumento di benchmark per altri territori.

 

Il progetto COM-RES sulle aree interne resilienti

I Portatori di Valori dell’Area Centro, insieme ai Soci Lavoratori, hanno presentato il progetto “COM-RES – Le Comunità Resilienti ai Tempi del Covid-19”.

COM-Res analizza pratiche e modelli di innovazione sociale, economica e ambientale, trasversali ai vari settori socio-economici ed emerse soprattutto in seguito all’emergenza pandemica, con caratteristiche di resilienza e di potenziale replicabilità. La ricerca studia in particolare le realtà presenti nelle cd. Aree interne, rurali, periferiche e marginali in Italia e Spagna. L’obiettivo è decodificarne gli elementi di resilienza affinché questi elementi diventino patrimonio comune per la loro condivisione, al fine di costruire una nuova consapevolezza per il benessere collettivo delle comunità.

Fondazione Finanza Etica, nel suo ruolo di soggetto erogatore e di connessione tra i vari progetti, inizia nel 2022 un percorso di racconto e condivisione di queste esperienze, a partire dal progetto Com-Res, sia qui sul sito che attraverso i canali social, verso l’evento finale di sintesi che si svolgerà a giugno 2022 ad Ascoli Piceno.

“Tra le risultanze raccolte finora dal progetto, colpiscono particolarmente le molteplici declinazioni di resilienza espresse dalle realtà mappate, che prendono forma in iniziative, attività, organizzazioni eterogenee, nonostante elementi ricorrenti: primo tra tutti l’efficacia di approcci collaborativi ed ecosistemici. Elemento che ci conferma l’importanza della messa in rete di tali realtà che il Festival finale intende promuovere”

Maria Gloria Cesarini, referente progettazione del capofila Bottega del Terzo Settore

 

Attivato su impulso di Banca Etica, il progetto è coordinato dall’Associazione Bottega del Terzo Settore e realizzato col supporto di un’ampia rete di partner – Riabitare l’Italia, Fondazione Carisap, Ashoka Italia, Fondazione Unipol CRU, Università dell’Aquila, Comune di Ascoli Piceno, BIM Tronto, GAL Piceno, Unione Montana Tronto e Valfluvione.

 

Il progetto Portatori di Valore

Fondazione Finanza Etica gestisce un fondo liberalità assegnatole da Banca Etica e costituito da una percentuale degli utili dell’anno precedente, che prevede che una parte del fondo sia destinato al sostegno di progetti proposti dai Portatori di Valore o con loro direttamente co-progettati.

I cosiddetti Portatori di Valore di Banca Etica sono costituiti dai seguenti stakeholder:

– le 5 aree territoriali (centro, nord-est, nord-ovest, sud e Spagna), che nascono dalla volontà della Banca di dare voce alle istanze locali e, contestualmente, sviluppare un’azione più radicata e coordinata sul territorio;

– i soci del Tavolo di Riferimento, costituito dalle seguenti realtà, alcune delle quali hanno contribuito a fondare la Banca: Acli, Agesci, Arci, Associazione Botteghe del Commercio Equo e Solidale, Aiab, Cgm (Consorzio Gino Mattarelli), Cisl, Cooperativa Oltremare, Cooperazione Terzo Mondo (Ctm-Altromercato), Fiba Cisl, Emmaus Italia Gruppo Abele, Mag2 Finance Milano, Mag Venezia, Mani Tese, Overseas, Uisp;

– lavoratori e lavoratrici del gruppo bancario Banca Etica e della Fondazione Finanza Etica, Fundación Finanzas Éticas, soci di Banca Etica.

 

 

Follow the money: banche, armi e diritti umani

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Follow the money

 

La frase di “Gola profonda” in Tutti gli uomini del presidente è drammaticamente vera. Seguite da dove vengono i soldi per finanziare ed esportare armi e capirete molte cose dei conflitti in corso sul pianeta. 

Uno dei pochi strumenti a disposizione per tentare di seguire questi flussi di denaro verso il sistema produttivo militare è la Relazione del Governo al Parlamento “sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” prevista dalla L.185/90. Una relazione voluminosa (quasi 1.700 pagine, comprese le schede), complessa e con alcuni tratti di opacità. Tuttavia importante per chi vuole farsi un’idea di come si alimentino conflitti e violazioni dei diritti umani.

 

L’Egitto è il principale paese importatore di armi italiane

La Relazione sull’anno 2020 dice alcune cose interessanti al riguardo.

Il paese importatore di armi italiane che fa la parte del leone è l’Egitto di Al Sisi, non proprio un campione dei diritti umani: con 991,2 milioni di euro di commesse è in testa alla classifica e supera del doppio il secondo paese, gli Stati Uniti d’America (456,4 milioni). Si tratta di circa il 25% di tutte le esportazioni di armi italiane nel mondo (pari a 4,647 miliardi di euro).

L’Egitto diventa cliente privilegiato dell’Italia nel 2019, compiendo un balzo dai 69 milioni del 2018 a 871,7 milioni, quando: Al Sisi aveva già dimostrato il suo disprezzo per i diritti umani; Giulio Regeni era già stato ucciso e il regime egiziano aveva dimostrato la scarsa volontà di collaborare con la giustizia italiana. Patrick Zaki sarà incarcerato nel febbraio 2020.

 

Il caso egiziano non è isolato

Nell’elenco dei paesi clienti dell’industria bellica italiana ne troviamo diversi  problematici sotto il profilo dei principi della L.185/90, che vieta l’esportazione verso paesi implicati nella violazione dei diritti umani e in conflitto. L’Arabia Saudita (144,4 milioni di esportazioni), il Qatar (212,2 milioni), gli Emirati Arabi Uniti (117,6 milioni), la Turchia (34,6 milioni), la Cina (35 milioni).

Questo comporta una pesante considerazione sulla politica estera italiana. Infatti, scrive il Governo nella Relazione che

i trasferimenti di materiali di armamento devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e regolamentate dallo Stato.

Queste transazioni di armi sono quindi autorizzate dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento del Ministero degli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. Di conseguenza, il sostegno militare a questi regimi, che in altre sedi il Governo italiano non esita a condannare e stigmatizzare, è parte integrante della politica estera italiana.

 

Il conflitto di interessi del Governo italiano

Il Governo italiano (Ministero Esteri) che autorizza le esportazioni è l’azionista di riferimento (Ministero Economia e Finanze) delle prime due aziende beneficiarie delle autorizzazioni: Leonardo (31,58%) e Fincantieri (25,27%). Una condizione di privilegio per queste aziende che le rende dominanti sul mercato; e che, alla fine dell’anno finanziario, staccano significative cedole sugli utili agli azionisti, di cui il maggiore è di nuovo lo Stato. 

Coerenza con la politica estera e oggettivo interesse ad ampliare il mercato degli armamenti da parte dello Stato. E, ovviamente, le armi si vendono meglio a chi intende usarle, in un modo o nell’altro. Così Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar (quest’ultimo fino al 2017) hanno usato le armi italiane nella devastante guerra, mai dichiarata, dello Yemen. Fino alla revoca delle autorizzazioni decisa, finalmente, dal Governo Conte nel gennaio 2021. 

 

I risultati dell’azionariato critico di Fondazione Finanza Etica

Accanto a questa decisione del Governo, Fondazione Finanza Etica ha registrato un risultato importante con l’attività di azionariato critico su Rheinmetall, la casa madre tedesca di RWM, protagonista indiscussa delle transazioni di bombe verso il teatro di conflitto yemenita.

Dal 2017 Fondazione Finanza Etica partecipa all’assemblea degli azionisti di Rheinmetall insieme a Bank für Kirche und Caritas, la banca della chiesa cattolica tedesca.  All’impresa si è sempre chiesto più trasparenza sulle commesse verso i paesi coinvolti nel conflitto yemenita, realizzate tramite la controllata italiana RWM. Le risposte sono state sempre evasive, fino a raggiungere spesso il rifiuto a rispondere. Il motivo? Non volere divulgare dati sui propri clienti.

Un risultato confortante è venuto dal Comitato Etico del Fondo Pensioni Norvegese (il più grande fondo pensioni del mondo) e dal Parlamento norvegese.  Nel 2020 abbiamo scritto al Comitato Etico del Fondo pensione (che detiene il 2,57% di azioni di Rheinmetall), chiedendo di suggerire di disinvestire dalla società. Il Comitato Etico si è rivolto all’azionista di riferimento del Fondo, lo Stato norvegese e l’8 giugno il Parlamento ha approvato il nuovo criterio di esclusione per l’investimento in armi. È un primo passo che probabilmente porterà il Fondo pensione a disinvestire da Rheinmetall. Forse, dunque, qualcosa si sta muovendo e il piccolo David talvolta può stendere (o almeno creare qualche problema) al gigante Golia.

 

Seguire il denaro non è sempre possibile o facile

Nella Relazione del Governo al Parlamento è possibile sapere quanta percentuale e finanziamenti della quota complessiva  di transazioni autorizzate vanno ai diversi Paesi clienti:  4,647 miliardi di euro nel 2020, in calo del 10,18% rispetto all’anno precedente. Anche quali sistemi d’arma o componentistica l’impresa ha prodotto e venduto. Così come quante transazioni sono state autorizzate e per quali importi a ogni singola impresa. Non è possibile invece sapere a quale paese cliente sono andate le armi vendute. Il che rende davvero difficile capire chi ha venduto cosa a chi.

Rete Pace e Disarmo, con la quale Fondazione collabora nell’azionariato critico su Leonardo e Rheinmetall, riesce a ricostruire alcune di queste tracce, ma con grande difficoltà. È in corso anche un engagement con il Governo perché su questo e altri aspetti dell’attuazione della L.185/90 vi sia un diverso approccio, più trasparente, ed è stata avanzata anche l’ipotesi di una modifica della legge.

Intanto, però, continuiamo a esportare soprattutto nell’area nordafricana e mediorientale (38,57%), una delle aree del mondo a maggior incidenza di conflitti endemici e dove governi democratici che rispettano i diritti umani sono più rari dei pinguini all’equatore.

 

Cosa succede con i nostri soldi una volta depositati in banca?

L’adagio follow the money vale anche per le problematiche dei diritti umani. 

Quali imprese finanziano? In quali paesi? Siamo sicuri che con i nostri soldi non si vadano a finanziare stati, imprese o istituzioni finanziarie che violano i diritti umani?

Se fate parte della crescente categoria di persone a cui il fatto che la vostra banca sia implicata in casi di violazioni di diritti umani fa venire i bordoni, potreste trovarvi nella spiacevole situazione che la vostra banca lo sia, a vostra insaputa.

Non credo che l’impiegato allo sportello quando aprite il conto corrente o quando comprate dei fondi di investimento vi avverta: 

“Guardi signore, la nostra banca è indifferente al tema dei diritti umani: il nostro obiettivo è esclusivamente quello di garantire i suoi soldi e assicurarle una rendita significativa. E, si sa, se si va troppo per il sottile si rischia di mancare l’obiettivo”.

Più verosimilmente l’impiegato vi dirà: “guardi signore, noi abbiamo fondi d’investimento e altri strumenti finanziari green e social. Abbiamo questi rating che ci fa la tale società internazionale. Non investiamo in imprese che operano in settori esclusi dai trattati internazionali ratificati dall’Italia”.

Ma si dimenticherà di dirvi che, per esempio, l’Italia non ha ratificato il recente trattato sulla messa al bando delle armi nucleari, perché ne ospitiamo nel nostro paese. Imprese che forse producono componentistica per questi sistema d’arma è probabile che ci siano, quindi, in questi fondi green e social.

 

I fondi sostenibili investono in armi

Oppure vi dirà “i nostri fondi sono coerenti con la recente normativa europea sulla finanza sostenibile”. Altra parola magica: sostenibilità. Oggi tutto è promosso e venduto come sostenibile: dallo yogurt alle assicurazioni, dalle auto all’acqua minerale. Ma se tutto è sostenibile, cosa è insostenibile?

Fondazione Finanza Etica, nel suo recente Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa è andata a indagare su alcuni dei fondi delle maggiori società di gestione del risparmio italiane: Generali, Gruppo Amundi e Intesa-San Paolo.

 

I fondi sostenibili sotto la nostra lente di ingrandimento

Amundi presenta 896 fondi, di cui 408 definiti sostenibili secondo gli articolo 8 e 9 del Regolamento UE. L’altra metà non segue alcun criterio di sostenibilità. Ma anche i fondi sostenibili sono piuttosto critici. “Amundi MSCI World Climate Paris Aligned PAB”, un fondo climatico che investe in imprese allineate agli obiettivi di Parigi, investe anche in: Bae Systems, impresa britannica del settore armamenti che fa parte della lista di produttori di armi nucleari del rapporto Don’t Bank on the Bomb”;.TC Energy, impresa canadese che possiede gasdotti e oleodotti, tra cui il controverso oleodotto Keystone XL. questo oleodotto dovrebbe trasportare negli Stati Uniti anche petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta (Canada), ed è stato recentemente bloccato dall’amministrazione Biden.

Mentre Generali se la cava molto meglio sotto questo profilo, Intesa-San Paolo presenta diversi problemi. Abbiamo analizzato Eurizon, la più importante delle società di gestione del risparmio del gruppo. I fondi sostenibili secondo la normativa europea sarebbero il 19%, 123 su 640. Prendiamo il caso del fondo ESG “Equity North America LTE”: investe, fra le altre, in imprese USA del settore difesa tra cui Raytheon Technologies, Lockheed Martin, Textron e Northrop Grumman. queste sono incluse nella lista dei produttori di armi nucleari di PAX/ICAN; così come nelle imprese canadesi TC Energy e Suncor Energy (sabbie bituminose).

Naturalmente la valutazione è molto complessa e possono esservi molte motivazioni, anche plausibili, per queste scelte, ma la nostra domanda è:

“l’investitore sa ed è d’accordo nell’investire in questi fondi, che ritiene legittimamente scevri da problematiche inerenti gli armamenti e i combustibili fossili? O invece è convinto di investire in imprese non include in questi settori?”.

Non vale l’eventuale giustificazione che se si escludessero completamente questi settori di investimento non si potrebbero confezionare fondi d’investimento. Vi sono infatti fondi che escludono a priori questo tipo di imprese e, peraltro, vanno benissimo. Anzi, investire o impiegare i risparmi in imprese “problematiche” oggi non produce grandi ricavi, anzi presenta rischi reputazionali e di performance significativi.

 

Banche e diritti umani

Il coinvolgimento delle banche in vicende di violazione dei diritti umani è un fatto niente affatto infrequente e implica rischi reputazionali ed economici importanti.

Sempre nel Rapporto sulla Finanza Etica  Sostenibile in Europa abbiamo ricompreso una ricerca realizzata  dal centro “REMARC – Responsible Management Research Center” dell’Università di Pisa su Banking on human rights”. Il lavoro è coordinato dalla professoressa Elisa Giuliani con il contributo di Fondazione Finanza Etica, grazie all’erogazione liberale ricevuta nel 2018 da Etica Sgr.

L’obiettivo principale del progetto era quello di elaborare un indicatore per misurare gli impatti sui diritti umani del Settore Bancario e Assicurativo. La ricerca si è basata su evidenze relative al loro coinvolgimento diretto o indiretto in abusi di diritti umani, definiti, in linea con i Principi Guida su Impresa e Diritti Umani (UNGP), sulla base della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite del 1948 e dai successivi patti e trattati. Le fonti dei dati, tutti riscontrati, sono diverse e molte si riferiscono a ONG come Business and Human Rights Resource Center.

È stato possibile codificare violazioni dei diritti umani legate all’attività di impresa, soprattutto in relazione all’industria manifatturiera ed estrattiva. Da questa codifica è stata elaborata una analisi quantitiva, stabilendo un indicatore per 170 banche e assicurazioni in 27 Paesi, osservate nel periodo 2000-2015. Esso misura il grado di coinvolgimento relativo di una banca in violazioni di diritti umani su una scala che varia da 0 (minimo) a 100 (massimo).

 

Il 26% delle banche osservate è associata ad abusi di diritti umani

Il dato grezzo delle violazioni osservate per ogni anno mostra chiaramente la crescita dei casi di violazione nel tempo. Nel periodo 2000-2015, 47 delle 178 banche osservate (il 26%) è associata ad abusi di diritti umani. Questo trend di crescita si riferisce però solo al dato osservato, non necessariamente al dato reale, e può essere dovuto a una crescente attenzione da parte dei media o al crescente monitoraggio in materia di impresa e diritti umani. A differenza di altri dati economici e sociali, nel caso delle violazioni di diritti umani connesse all’attività di impresa (compresa quella bancaria), non esistono statistiche ufficiali né strumenti di raccolta e validazione del dato in forma sistematica. Quindi è assai probabile che  il fenomeno osservato nella ricerca sia sottostimato rispetto a quello reale. Le violazioni di diritti umani connesse alle attività del settore bancario-assicurativo potrebbero essere ancora più sottostimate rispetto ad altri settori, poiché le banche sono generalmente meno monitorate delle imprese manifatturiere ed estrattive. Nel campione analizzato sono state osservate un totale di 180 violazioni-anno, un dato che include, ripetendoli, i casi di violazioni continuative che persistono per diversi anni.

 

Tracciare i soldi vuol dire domandarsi come vengono utilizzati e, come abbiamo visto, guerre, violazioni dei diritti umani, commercio e produzione di sistemi d’arma sono intrinsecamente legati a questo flusso di denaro. Non serve solo a sapere cosa succede, ma anche a definire una filiera di responsabilità, dalla quale noi risparmiatori non siamo alla fine esclusi. Possiamo scegliere, ma per farlo occorre un sistema più trasparente. Sarebbe questa una delle rivoluzioni più significative della nostra epoca.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Questo articolo è uscito nella decima edizione 2021 dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, realizzato dall’Associazione 46° Parallelo.