Follow the money: banche, armi e diritti umani

  |   By  |  0 Comments

Follow the money

 

La frase di “Gola profonda” in Tutti gli uomini del presidente è drammaticamente vera. Seguite da dove vengono i soldi per finanziare ed esportare armi e capirete molte cose dei conflitti in corso sul pianeta. 

Uno dei pochi strumenti a disposizione per tentare di seguire questi flussi di denaro verso il sistema produttivo militare è la Relazione del Governo al Parlamento “sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” prevista dalla L.185/90. Una relazione voluminosa (quasi 1.700 pagine, comprese le schede), complessa e con alcuni tratti di opacità. Tuttavia importante per chi vuole farsi un’idea di come si alimentino conflitti e violazioni dei diritti umani.

 

L’Egitto è il principale paese importatore di armi italiane

La Relazione sull’anno 2020 dice alcune cose interessanti al riguardo.

Il paese importatore di armi italiane che fa la parte del leone è l’Egitto di Al Sisi, non proprio un campione dei diritti umani: con 991,2 milioni di euro di commesse è in testa alla classifica e supera del doppio il secondo paese, gli Stati Uniti d’America (456,4 milioni). Si tratta di circa il 25% di tutte le esportazioni di armi italiane nel mondo (pari a 4,647 miliardi di euro).

L’Egitto diventa cliente privilegiato dell’Italia nel 2019, compiendo un balzo dai 69 milioni del 2018 a 871,7 milioni, quando: Al Sisi aveva già dimostrato il suo disprezzo per i diritti umani; Giulio Regeni era già stato ucciso e il regime egiziano aveva dimostrato la scarsa volontà di collaborare con la giustizia italiana. Patrick Zaki sarà incarcerato nel febbraio 2020.

 

Il caso egiziano non è isolato

Nell’elenco dei paesi clienti dell’industria bellica italiana ne troviamo diversi  problematici sotto il profilo dei principi della L.185/90, che vieta l’esportazione verso paesi implicati nella violazione dei diritti umani e in conflitto. L’Arabia Saudita (144,4 milioni di esportazioni), il Qatar (212,2 milioni), gli Emirati Arabi Uniti (117,6 milioni), la Turchia (34,6 milioni), la Cina (35 milioni).

Questo comporta una pesante considerazione sulla politica estera italiana. Infatti, scrive il Governo nella Relazione che

i trasferimenti di materiali di armamento devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e regolamentate dallo Stato.

Queste transazioni di armi sono quindi autorizzate dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento del Ministero degli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. Di conseguenza, il sostegno militare a questi regimi, che in altre sedi il Governo italiano non esita a condannare e stigmatizzare, è parte integrante della politica estera italiana.

 

Il conflitto di interessi del Governo italiano

Il Governo italiano (Ministero Esteri) che autorizza le esportazioni è l’azionista di riferimento (Ministero Economia e Finanze) delle prime due aziende beneficiarie delle autorizzazioni: Leonardo (31,58%) e Fincantieri (25,27%). Una condizione di privilegio per queste aziende che le rende dominanti sul mercato; e che, alla fine dell’anno finanziario, staccano significative cedole sugli utili agli azionisti, di cui il maggiore è di nuovo lo Stato. 

Coerenza con la politica estera e oggettivo interesse ad ampliare il mercato degli armamenti da parte dello Stato. E, ovviamente, le armi si vendono meglio a chi intende usarle, in un modo o nell’altro. Così Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar (quest’ultimo fino al 2017) hanno usato le armi italiane nella devastante guerra, mai dichiarata, dello Yemen. Fino alla revoca delle autorizzazioni decisa, finalmente, dal Governo Conte nel gennaio 2021. 

 

I risultati dell’azionariato critico di Fondazione Finanza Etica

Accanto a questa decisione del Governo, Fondazione Finanza Etica ha registrato un risultato importante con l’attività di azionariato critico su Rheinmetall, la casa madre tedesca di RWM, protagonista indiscussa delle transazioni di bombe verso il teatro di conflitto yemenita.

Dal 2017 Fondazione Finanza Etica partecipa all’assemblea degli azionisti di Rheinmetall insieme a Bank für Kirche und Caritas, la banca della chiesa cattolica tedesca.  All’impresa si è sempre chiesto più trasparenza sulle commesse verso i paesi coinvolti nel conflitto yemenita, realizzate tramite la controllata italiana RWM. Le risposte sono state sempre evasive, fino a raggiungere spesso il rifiuto a rispondere. Il motivo? Non volere divulgare dati sui propri clienti.

Un risultato confortante è venuto dal Comitato Etico del Fondo Pensioni Norvegese (il più grande fondo pensioni del mondo) e dal Parlamento norvegese.  Nel 2020 abbiamo scritto al Comitato Etico del Fondo pensione (che detiene il 2,57% di azioni di Rheinmetall), chiedendo di suggerire di disinvestire dalla società. Il Comitato Etico si è rivolto all’azionista di riferimento del Fondo, lo Stato norvegese e l’8 giugno il Parlamento ha approvato il nuovo criterio di esclusione per l’investimento in armi. È un primo passo che probabilmente porterà il Fondo pensione a disinvestire da Rheinmetall. Forse, dunque, qualcosa si sta muovendo e il piccolo David talvolta può stendere (o almeno creare qualche problema) al gigante Golia.

 

Seguire il denaro non è sempre possibile o facile

Nella Relazione del Governo al Parlamento è possibile sapere quanta percentuale e finanziamenti della quota complessiva  di transazioni autorizzate vanno ai diversi Paesi clienti:  4,647 miliardi di euro nel 2020, in calo del 10,18% rispetto all’anno precedente. Anche quali sistemi d’arma o componentistica l’impresa ha prodotto e venduto. Così come quante transazioni sono state autorizzate e per quali importi a ogni singola impresa. Non è possibile invece sapere a quale paese cliente sono andate le armi vendute. Il che rende davvero difficile capire chi ha venduto cosa a chi.

Rete Pace e Disarmo, con la quale Fondazione collabora nell’azionariato critico su Leonardo e Rheinmetall, riesce a ricostruire alcune di queste tracce, ma con grande difficoltà. È in corso anche un engagement con il Governo perché su questo e altri aspetti dell’attuazione della L.185/90 vi sia un diverso approccio, più trasparente, ed è stata avanzata anche l’ipotesi di una modifica della legge.

Intanto, però, continuiamo a esportare soprattutto nell’area nordafricana e mediorientale (38,57%), una delle aree del mondo a maggior incidenza di conflitti endemici e dove governi democratici che rispettano i diritti umani sono più rari dei pinguini all’equatore.

 

Cosa succede con i nostri soldi una volta depositati in banca?

L’adagio follow the money vale anche per le problematiche dei diritti umani. 

Quali imprese finanziano? In quali paesi? Siamo sicuri che con i nostri soldi non si vadano a finanziare stati, imprese o istituzioni finanziarie che violano i diritti umani?

Se fate parte della crescente categoria di persone a cui il fatto che la vostra banca sia implicata in casi di violazioni di diritti umani fa venire i bordoni, potreste trovarvi nella spiacevole situazione che la vostra banca lo sia, a vostra insaputa.

Non credo che l’impiegato allo sportello quando aprite il conto corrente o quando comprate dei fondi di investimento vi avverta: 

“Guardi signore, la nostra banca è indifferente al tema dei diritti umani: il nostro obiettivo è esclusivamente quello di garantire i suoi soldi e assicurarle una rendita significativa. E, si sa, se si va troppo per il sottile si rischia di mancare l’obiettivo”.

Più verosimilmente l’impiegato vi dirà: “guardi signore, noi abbiamo fondi d’investimento e altri strumenti finanziari green e social. Abbiamo questi rating che ci fa la tale società internazionale. Non investiamo in imprese che operano in settori esclusi dai trattati internazionali ratificati dall’Italia”.

Ma si dimenticherà di dirvi che, per esempio, l’Italia non ha ratificato il recente trattato sulla messa al bando delle armi nucleari, perché ne ospitiamo nel nostro paese. Imprese che forse producono componentistica per questi sistema d’arma è probabile che ci siano, quindi, in questi fondi green e social.

 

I fondi sostenibili investono in armi

Oppure vi dirà “i nostri fondi sono coerenti con la recente normativa europea sulla finanza sostenibile”. Altra parola magica: sostenibilità. Oggi tutto è promosso e venduto come sostenibile: dallo yogurt alle assicurazioni, dalle auto all’acqua minerale. Ma se tutto è sostenibile, cosa è insostenibile?

Fondazione Finanza Etica, nel suo recente Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa è andata a indagare su alcuni dei fondi delle maggiori società di gestione del risparmio italiane: Generali, Gruppo Amundi e Intesa-San Paolo.

 

I fondi sostenibili sotto la nostra lente di ingrandimento

Amundi presenta 896 fondi, di cui 408 definiti sostenibili secondo gli articolo 8 e 9 del Regolamento UE. L’altra metà non segue alcun criterio di sostenibilità. Ma anche i fondi sostenibili sono piuttosto critici. “Amundi MSCI World Climate Paris Aligned PAB”, un fondo climatico che investe in imprese allineate agli obiettivi di Parigi, investe anche in: Bae Systems, impresa britannica del settore armamenti che fa parte della lista di produttori di armi nucleari del rapporto Don’t Bank on the Bomb”;.TC Energy, impresa canadese che possiede gasdotti e oleodotti, tra cui il controverso oleodotto Keystone XL. questo oleodotto dovrebbe trasportare negli Stati Uniti anche petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta (Canada), ed è stato recentemente bloccato dall’amministrazione Biden.

Mentre Generali se la cava molto meglio sotto questo profilo, Intesa-San Paolo presenta diversi problemi. Abbiamo analizzato Eurizon, la più importante delle società di gestione del risparmio del gruppo. I fondi sostenibili secondo la normativa europea sarebbero il 19%, 123 su 640. Prendiamo il caso del fondo ESG “Equity North America LTE”: investe, fra le altre, in imprese USA del settore difesa tra cui Raytheon Technologies, Lockheed Martin, Textron e Northrop Grumman. queste sono incluse nella lista dei produttori di armi nucleari di PAX/ICAN; così come nelle imprese canadesi TC Energy e Suncor Energy (sabbie bituminose).

Naturalmente la valutazione è molto complessa e possono esservi molte motivazioni, anche plausibili, per queste scelte, ma la nostra domanda è:

“l’investitore sa ed è d’accordo nell’investire in questi fondi, che ritiene legittimamente scevri da problematiche inerenti gli armamenti e i combustibili fossili? O invece è convinto di investire in imprese non include in questi settori?”.

Non vale l’eventuale giustificazione che se si escludessero completamente questi settori di investimento non si potrebbero confezionare fondi d’investimento. Vi sono infatti fondi che escludono a priori questo tipo di imprese e, peraltro, vanno benissimo. Anzi, investire o impiegare i risparmi in imprese “problematiche” oggi non produce grandi ricavi, anzi presenta rischi reputazionali e di performance significativi.

 

Banche e diritti umani

Il coinvolgimento delle banche in vicende di violazione dei diritti umani è un fatto niente affatto infrequente e implica rischi reputazionali ed economici importanti.

Sempre nel Rapporto sulla Finanza Etica  Sostenibile in Europa abbiamo ricompreso una ricerca realizzata  dal centro “REMARC – Responsible Management Research Center” dell’Università di Pisa su Banking on human rights”. Il lavoro è coordinato dalla professoressa Elisa Giuliani con il contributo di Fondazione Finanza Etica, grazie all’erogazione liberale ricevuta nel 2018 da Etica Sgr.

L’obiettivo principale del progetto era quello di elaborare un indicatore per misurare gli impatti sui diritti umani del Settore Bancario e Assicurativo. La ricerca si è basata su evidenze relative al loro coinvolgimento diretto o indiretto in abusi di diritti umani, definiti, in linea con i Principi Guida su Impresa e Diritti Umani (UNGP), sulla base della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite del 1948 e dai successivi patti e trattati. Le fonti dei dati, tutti riscontrati, sono diverse e molte si riferiscono a ONG come Business and Human Rights Resource Center.

È stato possibile codificare violazioni dei diritti umani legate all’attività di impresa, soprattutto in relazione all’industria manifatturiera ed estrattiva. Da questa codifica è stata elaborata una analisi quantitiva, stabilendo un indicatore per 170 banche e assicurazioni in 27 Paesi, osservate nel periodo 2000-2015. Esso misura il grado di coinvolgimento relativo di una banca in violazioni di diritti umani su una scala che varia da 0 (minimo) a 100 (massimo).

 

Il 26% delle banche osservate è associata ad abusi di diritti umani

Il dato grezzo delle violazioni osservate per ogni anno mostra chiaramente la crescita dei casi di violazione nel tempo. Nel periodo 2000-2015, 47 delle 178 banche osservate (il 26%) è associata ad abusi di diritti umani. Questo trend di crescita si riferisce però solo al dato osservato, non necessariamente al dato reale, e può essere dovuto a una crescente attenzione da parte dei media o al crescente monitoraggio in materia di impresa e diritti umani. A differenza di altri dati economici e sociali, nel caso delle violazioni di diritti umani connesse all’attività di impresa (compresa quella bancaria), non esistono statistiche ufficiali né strumenti di raccolta e validazione del dato in forma sistematica. Quindi è assai probabile che  il fenomeno osservato nella ricerca sia sottostimato rispetto a quello reale. Le violazioni di diritti umani connesse alle attività del settore bancario-assicurativo potrebbero essere ancora più sottostimate rispetto ad altri settori, poiché le banche sono generalmente meno monitorate delle imprese manifatturiere ed estrattive. Nel campione analizzato sono state osservate un totale di 180 violazioni-anno, un dato che include, ripetendoli, i casi di violazioni continuative che persistono per diversi anni.

 

Tracciare i soldi vuol dire domandarsi come vengono utilizzati e, come abbiamo visto, guerre, violazioni dei diritti umani, commercio e produzione di sistemi d’arma sono intrinsecamente legati a questo flusso di denaro. Non serve solo a sapere cosa succede, ma anche a definire una filiera di responsabilità, dalla quale noi risparmiatori non siamo alla fine esclusi. Possiamo scegliere, ma per farlo occorre un sistema più trasparente. Sarebbe questa una delle rivoluzioni più significative della nostra epoca.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Questo articolo è uscito nella decima edizione 2021 dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, realizzato dall’Associazione 46° Parallelo.