Terzo Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa

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3 Rapporto Finanza Etica e Sostenibile in Europa

Il Terzo Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa mostra numeri alla mano, come un diverso modello sia non solo possibile, ma già concretamente praticato.

 

È stato pubblicato il Terzo Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa. Come per le precedenti edizioni, il rapporto fornisce una panoramica sulle banche etiche e sostenibili sia in termini assoluti sia in confronto con le altre banche.

Il rapporto di quest’anno presenta diverse novità. Il confronto non è stato fatto unicamente rispetto alle banche di maggiori dimensioni (quelle cosiddette too big to fail) ma all’insieme del sistema bancario europeo. Il taglio è poi ancora più europeo, con un focus su diversi Paesi. Sono inoltre delle novità gli approfondimenti sulle paghe dei manager e sull’attività di azionariato critico in Europa.

Come per le precedenti edizioni, il rapporto evidenzia delle differenze sostanziali tra le banche etiche e sostenibili e le altre.

Le prime hanno un rapporto tra prestiti erogati e totale dell’attivo pari al 76%, a fronte di un 39,8% della media europea. Pur in maniera approssimativa e con le dovute cautele, un indicatore di quanto una banca eroghi credito per l’economia e la creazione di posti di lavoro. Una tale differenza di valori non evidenzia una prestazione diversa, ma un modello e un approccio diversi.

A fronte di questa maggiore capacità di sostenere l’economia, le banche etiche nell’ultimo decennio hanno anche avuto un rendimento migliore della media europea. Il ROE (indicatore del rendimento del capitale) è stato del 3,57% per le prime, della metà (1,79%) per le seconde.

Confronto tra Banche Etiche europee e sistema bancario

 

Il mondo della finanza etica e sostenibile si dimostra quindi migliore non “solo” dal punto di vista degli impatti ambientali o sociali o della trasparenza, ma in maniera altrettante evidente riguardo la performance economica.

Una conferma viene anche dalla crescita del settore. Attivi, depositi e patrimonio netto delle banche etiche e sostenibili sono cresciuti a ritmi intorno al 10% nell’ultimo decennio, mentre il sistema bancario nel suo insieme viveva una stagnazione. Gli attivi per le banche etiche sono infatti cresciuti del 9,9% l’anno mentre la media del settore marca un -0,3%, mentre i crediti hanno superato il 10% di crescita annua per le prime a fronte di uno 0,4% per le seconde.

 

Il Terzo Rapporto sulla finanza etica e sostenibile analizza poi nella seconda parte le paghe dei manager. Anche qui, non parliamo di semplici differenze, ma di approcci radicalmente diversi.

Equità nelle retribuzioni

 

Quasi tutte le banche etiche e sostenibili prevedono rapporti tra la paga massima e quella minima e/o quella media al loro interno. Al contrario, in molte banche tradizionali non è raro vedere alti dirigenti con retribuzioni che sono decine, se non centinaia di volte quelle dei loro dipendenti. Retribuzioni dei top manager legate inoltre alla crescita del valore delle azioni nel brevissimo termine e non a obiettivi di lungo periodo.

 

In ultimo, il Rapporto esamina le iniziative di azionariato attivo e critico. Si tratta di utilizzare i diritti legati al proprio un investimento azionario – a partire da quello di voto e di intervento durante l’assemblea – per porre alcune questioni di natura sociale o ambientale e spingere l’impresa a comportamenti più virtuosi.

Sono diversi i successi che vengono presentati nel Rapporto, mostrando in qualche modo come il potere della finanza possa essere incanalato per spingere verso una maggiore sostenibilità l’insieme del sistema economico.

Un modello di successo, da molti punti di vista, quindi.

 

Proprio in ragione di tale successo, e prima ancora grazie alla crescente attenzione del pubblico e dei risparmiatori verso i temi ambientali e sociali, oggi sia le istituzioni sia lo stesso sistema bancario si stanno accorgendo della finanza etica e sostenibile. L’UE ha avviato un percorso per definirla e promuoverla. Per chi da decenni, come Banca Etica in Italia, lavora esclusivamente in questo ambito, tale nuova spinta rappresenta un’opportunità ma anche un rischio.

Lo testimonia l’approccio europeo, dove la sostenibilità è letta quasi esclusivamente in chiave ambientale. La questione dei cambiamenti climatici è tanto importante quanto urgente, ma rappresenta solo una delle dimensioni della sostenibilità. Mancano quasi totalmente nel lavoro europeo le dimensioni sociali e di governance; ovvero due delle tre gambe del tradizionale approccio ESG – Environment, Social, Governance alla sostenibilità.

In maniera forse ancora più incredibile, parlando di finanza e guardando ai recenti disastri, dalla bolla dei subprime in poi, nell’approccio europeo manca completamente il tema della speculazione. Nulla sull’utilizzo distorto di derivati o altri strumenti complessi, nulla sui paradisi fiscali. Nulla persino sugli obiettivi di brevissimo termini del sistema finanziario, uno dei principali motori che spinge le imprese a trascurare i propri impatti ambientali e sociali pur di massimizzare i profitti a breve, inseguendo l’appetito insaziabile degli speculatori.

Tali rischi sono ancora più evidenti se guardiamo alle iniziative promosse dallo stesso sistema bancario e finanziario. Oggi quasi tutti i gruppi di maggiori dimensioni sbandierano la propria sostenibilità. Se però andiamo a vedere il merito di tali iniziative, ci accorgiamo che troppo spesso appaiono più di marketing, se non greenwashing. Una “lavata di verde” per ripulire la propria reputazione senza incidere sul business.

Un dato tra i tanti per confermare tali preoccupazioni. Nei pochi anni dalla firma dell’Accordo di Parigi a oggi, i grandi gruppi bancari hanno finanziato per 1.400 miliardi di dollari i combustibili fossili. Molte di queste banche erano in prima fila al Forum economico di Davos e in altri contesti a stracciarsi le vesti – a parole – sull’emergenza clima. Il pianeta, ben prima del movimento della finanza etica, non può permettersi una simile “bolla” della sostenibilità.

Il mondo della finanza etica e sostenibile mostra al contrario, numeri alla mano, come un diverso modello sia non solo possibile, ma già concretamente praticato da milioni di persone in tutto il mondo. Se i numeri sono ancora piccoli rispetto a quelli della finanza globale, molto dipende dalle nostre scelte e da una riflessione sull’uso dei nostri soldi.

I nostri risparmi sono una goccia nel mare, ma l’insieme di queste gocce crea il sistema finanziario. I maggiori investitori sui mercati internazionali sono banche, fondi pensione, fondi di investimento, assicurazioni. Tutti soggetti che si alimentano con i nostri soldi.

Sappiamo dove finiscono e come vengono utilizzati? Una volta incanalati nel sistema bancario e finanziario, i nostri risparmi creano posti di lavoro o alimentano delocalizzazioni e precarietà? Quale impatto hanno sull’ambiente e il clima? Sono un moltiplicatore per sviluppare l’economia di un territorio o finiscono in qualche paradiso fiscale sottraendosi al fisco e indebolendo l’economia?

Con le nostre scelte rischiamo di essere complici inconsapevoli del sistema di cui siamo vittime. O al contrario possiamo scegliere di sottrarre i nostri risparmi a un modello speculativo e ambientalmente insostenibile per promuoverne uno in cui la finanza torna a essere uno strumento al servizio della società e del pianeta. Il Terzo Rapporto sulla finanza etica e sostenibile in Europa ci aiuta a capire come farlo e perché.

Andrea Baranes, vice-presidente Banca Etica

 

Azionariato critico, ENI e lo Stato

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Cosa possono fare gli azionisti critici in Italia?

Azionariato critico, ENI e lo Stato. Quale il ruolo del pubblico? La Costituzione dovrebbe fare da guida.

 

Se avessimo una tessera ad honorem dell’azionariato critico, questa oggi andrebbe a Luigi Zingales per la sua intervista uscita il 23 febbraio su L’Espresso. Come ex membro del CdA chiama in causa le responsabilità morali e politiche del Governo, azionista di riferimento di ENI.

In particolare nella mancata reazione di fronte alle vicende giudiziarie in cui l’azienda e i suoi vertici sono coinvolti. Si tratta dell’accusa di corruzione internazionale in Nigeria in riferimento al blocco petrolifero Opl 245.

In vista del rinnovo delle nomine dello Stato nelle società controllate, Zingales pone questioni pesanti e di metodo che ci sentiamo di sottoscrivere interamente. A partire dalla necessità che il Governo indichi delle linee guida da seguire nelle società controllate.

In realtà sono cose che andiamo dicendo da anni nella nostra attività di azionariato critico; e che valgono non solo per Eni, ma per tutte le società a controllo pubblico. Nel nostro caso l’azionariato critico è svolto in Eni, Enel, Leonardo, società nelle quali l’azionista di riferimento è lo Stato. Oltre che in Acea, dove l’azionista di riferimento è il Comune di Roma.

Con Zingales concordiamo sul fatto che lo Stato ha diversi profili di responsabilità in Eni. Per esempio il mancato controllo sulle omesse e ritardate dichiarazioni dell’ad Descalzi relative alla normativa sulle parti correlate. Questa omissione attiene agli interessi economici della moglie in una società che prestava servizi a Eni Congo.

Così come la mancata richiesta di chiarimenti e dimissioni al momento del rinvio a giudizio di Descalzi sul caso di corruzione internazionale in Nigeria; esponendo così il paese a un rischio reputazionale enorme.

Ma, in fondo, questo caso pone il tema fondamentale del ruolo dello Stato in queste società. E, per noi, anche del ruolo che ogni azionista può e deve svolgere in esse. In questa riflessione ci guida il dettato costituzionale.

L’art.41 della nostra Carta fondamentale dichiara che “L’iniziativa economica privata è libera“. Ma anche“non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Cosa vuol dire, in concreto?

Che i cittadini che investono il loro risparmio nelle aziende quotate si rendono protagonisti e forse responsabili di vigilare e indirizzare la “propria” azienda in una direzione coerente con questa norma. E, soprattutto, che quando la “propria” azienda devia da questo solco, tutti gli azionisti sono chiamati a intervenire per quanto nei propri poteri.

D’altra parte, prosegue l’art.41, “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” e, dunque, sarebbe anche compito dello Stato svolgere questa funzione. Tanto più, quando lo Stato che deve assicurare questo indirizzo e controllo è esso stesso l’azionista di riferimento di queste società: ad esso spetterebbe di farsi parte diligente per garantire l’effettività del dettato costituzionale.

Questo attivismo aziendale da parte dello Stato è rafforzato dall’art.43 che ammette che “A fini di utilità sociale la legge può riservare  originariamente o trasferire … allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.

L’interesse generale di cui parla l’art.43 cosa è, ad esempio, se non la tutela dell’ambiente e dei diritti umani che sono implicati nelle attività di queste società?

E, infine, l’art.47, secondo il quale la Repubblica favorisce “l’accesso del risparmio popolare … al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”, non trasferisce forse in capo all’azionista di queste aziende almeno quota parte di quella responsabilità di indirizzo e controllo verso finalità sociali, contenuta negli articoli precedenti, delle aziende di cui sono proprietari?

Ora, questo insieme di norme evidenzia profili di responsabilità, anche giuridici, ma certamente politici per lo Stato. Esso non partecipa infatti direttamente nella compagine sociale di una società per massimizzare i ricavi, bensì per realizzare degli obiettivi di sviluppo e di interesse comune per la comunità nazionale rappresentata.

Le contraddizioni che spesso Fondazione Finanza Etica nel suo azionariato critico rileva, nel comportamento di questo azionista così “speciale” quale è lo Stato, dovrebbero essere oggetto di riflessione. Non solo per gli stakeholder dell’impresa, ma anche del Paese: per i cittadini elettori e per le istituzioni pubbliche.

Lo Stato, azionista di riferimento di Leonardo che produce anche armi, è lo stesso che ne autorizza la vendita a paesi in conflitto, in violazione della legge 185/90 sul commercio di armi. Ciò implica una responsabilità ulteriore in capo al Governo derivante proprio dall’essere azionista di riferimento di quell’azienda.

Analogamente se lo Stato è azionista di Eni, il cui management viene implicato in un caso di corruzione internazionale, il Governo ha una ulteriore responsabilità rispetto a quella più generale di indirizzo nelle politiche sull’energia e idrocarburi del Paese.

In questo senso non è fuori luogo dire che l’azionariato critico sollecita una riflessione sulla partecipazione alla vita delle imprese in termini di democrazia economica. Infatti, quando il capitale sociale è estremamente disperso, come nel caso delle società quotate italiane, il  potere si concentra in modo sproporzionato sui manager e sulla dirigenza.

Ma questi hanno l’unico obiettivo di massimizzare il valore delle azioni al fine di assecondare le aspettative degli azionisti di maggioranza; oltre che di portare a casa retribuzioni personali legate ai risultati economici di dimensioni spropositate.

L’azionariato critico pone l’accento sul ruolo attivo e la responsabilità etica di ognuno dei comproprietari.

È  dunque anche uno strumento che permette di migliorare la conoscenza e la partecipazione dei piccoli azionisti e dei cittadini alle scelte delle imprese in campo finanziario. Ma, certamente, chiede all’azionista di riferimento-Stato di assumersi le responsabilità di guida della società, indirizzandola ai fini dell’interesse generale del paese.

 

Simone Siliani, direttore Fondazione Finanza Etica

Laudato si’ e finanza etica. Le proposte dell’incontro di Assisi

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Team facilitatori Laudato si' e finanza etica

Laudato si’ e finanza etica. Le proposte dell’incontro di Assisi di Fondazione Finanza Etica aspettando The Economy of Francesco.

La finanza da problema a soluzione

L’enciclica “Laudato Sì” individua nella finanza una delle cause principali della crisi ecologica, sociale e culturale del nostro pianeta. Ma la finanza da problema può diventare soluzione. La finanza etica in tutto il mondo – da almeno 30 anni – ha elaborato proposte concrete e sperimentate per un’economia che sia realmente al servizio delle persone.

Esperti del settore bancario e finanziario insieme a giovani economisti e ricercatori under 35 nell’incontro di Assisi hanno elaborato riflessioni e fornito proposte sul rapporto tra Laudato si’ e finanza etica. Questi risultati saranno discussi durante le giornate di “The Economy of Francesco promosse da Papa Francesco Bergoglio dal 26 al 28 marzo ad Assisi.

Presentiamo qui alcuni momenti degli interventi dei dialoghi della mattina.

Joseba Segura

Teologo, economista, missionario in Ecuador, vescovo ausiliario di Bilbao

Intervento di Joseba Segura

Il suo intervento si è incentrato sugli investimenti finanziari delle istituzioni ecclesiastiche. ”All’inizio del secolo, quando a Bilbao un piccolo gruppo di persone ha avviato il progetto Fiare , siamo partiti con questa preoccupazione: far sì che i principi della Dottrina Sociale della Chiesa guidassero anche il complesso e opaco mondo degli investimenti finanziari. Sentivamo la necessità di fare qualcosa di diverso dal “greenwhashing” di tanti presunti “investimenti etici“. Il nostro obiettivo, in quel momento era contribuire a trasformare l’economia a partire dalla finanza.”

E ha proseguito con una chiamata all’azione. “Concentrandoci sulle nostre chiese locali e sulle comunità cattoliche, c’è ancora quasi tutto da fare. La “Laudato si’” ha raggiunto molti credenti, ma non è ancora riuscita a far cambiare le scelte delle istituzioni ecclesiastiche. Noi credenti tendiamo con tutto il cuore al benessere integrale delle persone, ma per qualche motivo ancora bandiamo il cuore dalla sfera delle decisioni finanziarie. E non ci rendiamo conto dell’incoerenza che ciò comporta. Per questo è ancora perfettamente possibile incontrare i responsabili finanziari delle istituzioni ecclesiastiche che, nei loro approcci all’investimento etico, non sono andati oltre i classici filtri negativi della selezione: armi, aborto, contraccettivi, pornografia, ecc. Il cambiamento di coscienza deve avvenire anche ai vertici della Chiesa, nei vescovi e nei superiori maggiori”.

Anna Fasano

Presidente di Banca Etica

Intervento Anna Fasano e Guido Viale

Banca Etica si è approcciata alla Laudato si’ con inquietudine: non l’inquietudine dell’ansia, ma quella della costante, tenace ricerca di senso – ha sottolineato Anna Fasano –  È arrivato il momento non solo di fare educazione critica alla finanza, ma anche di sedersi sempre più combattivi ai tavoli europei dove si discute la normativa sugli  investimenti sostenibili, di creare nuovi linguaggi. Ormai sostenibile non vuol dire più niente, è una parola svuotata di senso. Dobbiamo mettere in campo strumenti che diano alle persone non solo la possibilità di informarsi, ma anche di scegliere”.

Guido Viale

Saggista e sociologo

Ci sono 3 settori dove la finanza alternativa ha una missione fondamentale da svolgere. La prima è quella dell’informazione: stando dentro al meccanismo finanziario si possono capire e spiegare molte cose che noi dall’esterno non vediamo; bisogna, in sostanza, dare un’educazione critica alla finanza. La seconda è un’opera di resilienza, fornendo sostegno e assistenza tecnica alle comunità che sentono l’esigenza di organizzarsi con forme di valuta alternativa. La terza è sostenere le imprese che cercano una conversione ecologica in un’ottica di rete territoriale, in cui gli istituti di credito, i sindacati coinvolgano gli stakeholder del territorio per cominciare a progettare una transizione giusta”.

Paolo Beccegato

vicedirettore Caritas Italiana

Intervento Patxi Alvarez e Paolo Beccegato

Su giustizia globale e ambiente, Paolo Beccegato ha aggiunto: “Nella Laudato si’ possiamo isolare 4 punti fortemente interconnessi tra loro. Il primo è la povertà, fenomeno internazionale che colpisce duramente anche in Europa e in Italia: la povertà può essere causata anche dalla sottrazione sistematica di risorse. Il secondo fenomeno è quello delle guerre, non solo dei conflitti armati maggiori, ma anche delle violenze locali e sociali all’interno dei nuclei famigliari. Il terzo elemento è quello del degrado ambientale. Questi tre poli sono strettamente collegati fra loro. Il quarto elemento è quello delle speculazioni finanziarie, di una finanza non inclusiva e senza una governance. Questi quattro pilastri, nella nostra esperienza quotidiana di Caritas, possono essere girati positivamente, lavorando per la pace, lo sviluppo, la tutela ambientale e l’inclusione finanziaria. Questi quattro grandi fenomeni mostrano una correlazione sempre più significativa in negativo, ma potenzialmente anche in positivo: non cediamo quindi alla complessità, ma rispondiamo con un pari sforzo di unione fra noi. Ed è questo, forse, il primo motivo per cui oggi siamo qui”.

 

Le proposte sui rapporti tra Laudato si’ e finanza etica saranno scaricabili a partire dal 8 marzo 2020 sul nostro sito.

Riaperte le iscrizioni al convegno sulla Laudato si’

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Riparare la nostra casa comune

Siamo lieti di infomare tutti gli interessati che sono riaperte le iscrizioni all’incontro ad Assisi il 1 febbraio 2020 sul tema “Riparare la nostra casa comune. Laudato si’, economia e finanza etica” esclusivamente per i dialoghi della mattina.

Potete registrarvi QUI.

Segnaliamo anche che è cambiato il relatore del dialogo con Anna Fasano su Laudato si’ e finanza, l’incontro sarà con il saggista e sociologo Guido Viale.

A questo link trovate il programma completo dell’incontro.

Qui il nostro position paper.

ENI: quale mission?

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La guerra ai cambiamenti climatici si conduce anche nei tribunali. È il caso della California. E sulla West Coast il caso interroga questioni più profonde come il ruolo dello Stato in questo conflitto, la sua funzione di garanzia quando sono in gioco interessi generali e interessi privati, che sono al fondamento di una democrazia ben funzionante. E forse c’è da riflettere anche in Italia.

Ecco il caso.

Le città di Oakland e San Francisco hanno portato le major del petrolio in tribunale, accusandole di aver messo a rischio le comunità costiere del Pacifico a causa del loro contributo al cambiamento climatico: l’innalzamento dei livelli del mare su queste città costiere, in caso di uragani porterebbe a devastanti alluvioni; ogni tempesta, cioè, si assommerebbe a livelli più alti del mare con rischi enormi per la salute dei cittadini e la sicurezza dei beni pubblici e privati.
Ora, accade che – mentre il procedimento giudiziario è in corso – vengono alla luce 178 pagine di email scambiate fra legali del Dipartimento di Giustizia del Governo federale e gli avvocati delle compagnie petrolifere dalle quali emerge una complicità e una collaborazione dei primi con i secondi nella costruzione della difesa contro le accuse di Oakland e San Francisco. Le email sono state acquisite dal Natural Resources Defense Council (una ong ambientalista fondata nel 1970 con sede a New York), in base alla legge federale Freedom of Information Act, una delle conquiste della democrazia americana nel 1967 e ampliata durante la presidenza Clinton fra il 1995 e il 1999. Le email mettono in evidenza una stretta relazione fra l’Amministrazione Trump, in particolare la struttura della Giustizia (l’avvocatura federale, nello specifico) e l’industria petrolifera. Una vicinanza fatta di decine di incontri con lo scopo di preparare memorie difensive, di scambi di informazioni in vista delle udienze, di cortesie legali che hanno fatto sorgere più di un dubbio circa l’imparzialità del Governo federale rispetto a un contenzioso in cui si confrontano soggetti pubblici che agiscono in nome di interessi generali delle comunità rappresentate (le due città) e soggetti privati che difendono interessi particolari (le compagnie petrolifere). Alcuni sostengono che in questi contatti non si ravvisano comportamenti illegittimi (“red flag”), al più inopportuni (“eyebrow”). Ma il fatto è che il Dipartimento di Giustizia del Governo federale si è apertamente schierato a favore dell’industria petrolifera in un processo
attraverso una memoria firmata da Jeff Wood, già uomo di punta della campagna elettorale di Trump e da questi nominato avvocato generale nella Divisione Ambiente e Risorse Naturali del Dipartimento della Giustizia. Nella memoria Wood scrive che “ Gli Stati Uniti hanno un forte interesse economico e nazionale nel promuovere lo sviluppo dei combustibili fossili, fra le altre fonti energetiche”; dunque “l’equilibrio fra i bisogni energetici della nazione e interessi economici da un lato e i rischi posti dai cambiamenti climatici è competenza in primo luogo delle varie articolazioni del Governo federale”, motivo per cui la causa intentata da Oakland e San Francisco viola il principio costituzionale della separazione dei poteri.
Altri invece, come la ong NRDC, ritengono che la collaborazione con l’industria petrolifera responsabile dei cambiamenti climatici non sia negli interessi degli Stati Uniti. C’è stato favoritismo del Governo federale per una parte in un contenzioso giudiziario tale da compromettere la terzietà dell’amministrazione pubblica? È assai probabile, visto che il Dipartimento di Giustizia – mentre collaborava attivamente con BP e con le altre major del petrolio – mai ha cercato e interloquito con le due amministrazioni cittadine. Certamente possiamo dire che questa vicinanza fra Governo e imprese private, cioè la mescolanza fra interessi pubblici e interessi privati, negli Stati Uniti ha sollevato scandalo, discussioni, conflitti istituzionali; ha sollevato domande inquietanti sull’obiettività della struttura del Governo federale preposta alla amministrazione della Giustizia. Sono quesiti di fondo circa l’essenza di una democrazia moderna.

Ma, allora, per venire a casa nostra, cosa potremmo o dovremmo pensare di un governo, quello italiano, che è tanto vicino all’industria degli idrocarburi, cioè dei combustibili fossili, da esserne azionista di riferimento? Parliamo, ovviamente, di Eni (Ente Nazionale Idrocarburi) di cui il Ministero dell’economia e della finanza (Mef) è azionista di maggioranza. Toccare questo tasto non è particolarmente beneaugurante (come ha dimostrato la vicenda del ministro Fioramonti, che osò discutere questa posizione del Governo in Eni sulla nostra testata Valori), ma per quanto sarà ancora possibile eludere la domanda: lo Stato, che deve ridurre fino al superamento la carbonizzazione della produzione di energia elettrica in base all’accordo di Parigi della COP 21, può anche essere azionista di riferimento di un’azienda che ha come mission quella di operare nel campo delle fonti fossili di energia ? O, quanto meno, può farlo senza porre all’azienda l’obiettivo, concreto e misurabile, del superamento di questo mandato costitutivo di essere l’ente nazionale idrocarburi?

Simone Siliani

Sull’energia ci vuole coraggio

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Avete presente Barclays, vero? Uno dei grandi player bancari del pianeta: presente in oltre 50 paesi con 129.400 dipendenti, per un totale di asset pari a 1,133 trilioni di sterline nel 2018. Ovviamente anche Barclays è stata folgorata sulla strada di Damasco dalla sostenibilità e ha prontamente messo in scaffale conti correnti sostenibili e ha lanciato i “green trade loan”, prestiti per aiutare le imprese a sviluppare progetti o fornire nuovi servizi sostenibili. Era il 2018 e di questi green trade loans avrebbero potuto usufruire le imprese con “finanziamenti commerciali verdi” solo per determinate attività, quali l’efficienza energetica, lo sviluppo di energie rinnovabili, i trasporti sostenibili e la gestione dei rifiuti. Una notizia che sembrava confermare lo spostamento verso la sostenibilità anche del comparto finanziamenti.

Oggi, però, un gruppo di azionisti critici guidati da ShareAction è riuscito a presentare una mozione nell’Assemblea degli azionisti di Barclays che si svolgerà a maggio in cui chiede alla banca multunazionale di cambiare politica spostandosi decisamente dal finanziamento delle imprese dei combustibili fossili all’energia rinnovabile. Per aderire davvero agli impegni dell’accordo di Parigi della COP21 contro i cambiamenti climatici e per tutelare la solidità stessa dell’azienza. Sì, perché nonostante la grande comunicazione sulla svolta green della finanza, le banche continuano a pompare miliardi di dollari nei combustibili fossili: dalla firma dell’accordo di Parigi (dicembre 2015), si calcola che le 33 maggiori banche mondiali abbiano investito 1,9 trilioni di dollari nel settore, con Barclays responsabile per 85 miliardi di dollari, collocandosi così in un “onorevole” sesto posto al mondo, ma leader assoluto fra le banche europee.

Gli azionisti critici chiedono dunque che Barclays si allinei, nel finanziamento del settore energetico, agli obiettivi di Parigi. Presentare una mozione in questo genere di consessi è già in sé un risultato importante (e ShareAction ci è riuscita grazie anche al sostegno di altri 11 investitori istituzionali; un po’ come noi facciamo con la nostra rete Shareholders for Change); ma ancor più è importante considerare le motivazioni con cui viene sostenuta questa mozione. Chiaramente si dimostra come la svolta sostenibile sia per la Barclays una operazione più di marketing che di sostanza. Un bel problemino per una banca che è fra i fondatori dei Principles for Responsible Banking delle Nazioni Unite.

Tuttavia è interessante notare come ShareAction motiva la propria mozione con l’obiettivo di “promuovere il successo a lungo termine dell’azienda”. Sì perché i rapporti della Task Force costituita nell’ambito dell’accordo di Parigi che si occupa della trasparenza finanziaria legata al clima e quelli del gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite sugli impatti sul riscaldamento globale, di fronte a un aumento di 1,5°C della temperatura del globo, evidenziano come il passaggio da 1,5° a 2° di aumento causerebbero danni economici addizionali da 8,1 a 11,6 trilioni di dollari entro il 2050. Inoltre Citigroup (non proprio una organizzazione dell’ambientalismo radicale) sottolinea come il mancato raggiungimento dell’obiettivo di mantenere la crescita della temperatura sotto 1,5°C, continuando a finanziare i settori dei combustibili fossili, produrrà ulteriori 50 trilioni di dollari di danni economici e di perdita di produttività entro il 2060. Chi pagherà questi costi? Certamente la collettività dei paesi più direttamente colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici; sicuramente le aziende, che sempre più spesso sono chiamate a rispondere di danni connessi ai cambiamenti climatici. Ma è altrettanto vero che l’enfasi che la comunità mondiale sta giustamente mettendo sui rischi connessi ai cambiamenti climatici spinge la concorrenza anche fra i soggetti finanziari a posizionarsi lungo questa direttrice e la concorrenza premia i posizionamenti migliori (e, forse, più coerenti) e punisce chi resta ancorato a vecchi medelli. Così la mozione di ShareAction evidenzia come altri player finanziari europei abbaino intrapreso strade più coraggiose per quanto riguarda il settore energetico: HSBC si è impegnata a non finanziare attività per le quali la maggior parte dell’investimento venga usato per nuovi progetti oil & gas nell’Artico; Crédit Agricole ha indicato un processo di phasing-out dal carbone entro il 2030 per l’Europa e i paesi OCSE, entro il 2040 per la Cina, entro il 2050 per il resto del mondo. Chiaramente, dicono gli azionisti critici, questa tendenza rischia di mettere fuori mercato la “nostra” azienda, Barclays, e per questo incoraggiano l’azienda a non affidarsi troppo sulle tecnologie a emissioni negative per adeguarsi ad obiettivi di phasing-out rispetto alle fossili, perché tali tecnologie potrebbero essere disponibili in tempi troppo lunghi per poter evitare le peggiori conseguenze sull’ambiente e quindi in tempi tali da non evitare i riverberi negativi sulla performance economica dell’azienda.

Insomma, il punto di vista dell’azionista critico è tanto esterno all’azienda, nel senso che si interessa degli effetti non economici delle scelte economico-finanziarie della “sua” azienda; quanto interno, perché si deve interessare dei buoni risultati a lungo termine della stessa.

E, infine la vicenda di ShareAction su Barclays ci dice – cosa particolarmente rilevante per noi di Fondazione Finanza Etica che dal 2008 facciamo attività di azionariato critico – che è importante costruire alleanze con altri investitori istituzionali e che il settore bancario e finanziario è decisivo per indurre cambiamenti nel sistema, anche dal  punto di vista dell’azionariato critico.

 

Simone Siliani

Riparare la nostra casa comune. Laudato si’, economia e finanza etica

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Laudato si' e finanza etica

Fondazione Finanza Etica per il Gruppo Banca Etica e Fra’ Sole, con la collaborazione di Sisifo, organizzano il convegno “Riparare la nostra casa comune. Laudato si’, economia e finanza etica“, Assisi, Sacro Convento – sabato 1° febbraio 2020.

 

La finanza occupa una posizione centrale nell’analisi che l’Enciclica sulla cura della casa comune, Laudato si’, di Papa Francesco svolge sulla crisi ecologica, sociale e culturale in cui è avvolto il pianeta.
I termini finanza e finanziaria ricorrono 15 volte nell’Enciclica e sempre quali elementi cardine della crisi, ai quali si riconducono gli aspetti di insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo.
L’Enciclica – coerentemente con la proposta di un’ecologia integrale nella quale ogni elemento ambientale, sociale, economico, culturale del modello di sviluppo globale è connesso uno all’altro – individua nella finanza il vero motore di questo modello, causa di squilibri, storture, diseguaglianze, rischi globali.
È la finanza globale il vero dominus di questo sistema.
Essa domina sulla politica, svuotando così la stessa dalla sua funzione di governo, di arte attraverso la quale – nei sistemi democratici – si svolgono i processi di autodeterminazione delle persone e si attuano i diritti universali che le diverse convenzioni internazionali (a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948) hanno posto a fondamento del diritto positivo internazionale. “Degna di nota è la debolezza della reazione politica internazionale. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente” (in VI “La debolezza delle reazioni”, paragrafo 54). La finanza, opaca e impersonale, è la vera incarnazione del potere nel mondo moderno e la politica appare incapace di visioni di ampia portata e, dunque, di governarla: “Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute” (in VI “La debolezza delle reazioni”, paragrafo 57). Così, laddove sarebbe decisivo l’intervento umano per restituire equilibrio a ciò che esso stesso ha messo in crisi, come nel caso della perdita di biodiversità a seguito della introduzione di pesticidi nell’ambiente a sostegno di un’agricoltura intensiva e alterata dalla chimica, questo non avviene perché gli interessi della finanza e del consumo prevalgono: “Ma osservando il mondo notiamo che questo livello di intervento umano, spesso al servizio della finanza e del consumismo, in realtà fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia, mentre contemporaneamente lo sviluppo della tecnologia e delle offerte di consumo continua ad avanzare
senza limiti” (in III “Perdita di biodiversità”, paragrafo 34).
Tutta l’Enciclica è pervasa dai riverberi della elaborazione della cultura del limite che dalle ricerche sull’ecologia culturale degli anni ’50 (quel filone di ricerca delle scienze etnoantropologiche che investiga le relazioni tra gli aspetti socio-culturali dei gruppi umani e l’ambiente nel quale vivono, in stretto rapporto con altre discipline quali ecologia, geografia umana, biologia, archeologia, economia, demografia) giunge fino alle attuali elaborazioni dell’ambientalismo scientifico. Di nuovo, la finanza è la rappresentazione perfetta di una pratica dello sviluppo e dell’economia nella quale è concepibile una crescita illimitata. Infatti, è la finanza che ha reso possibile una crescita del tutto distaccata dall’economia reale, attraverso la speculazione finanziaria e la creazione di denaro da denaro come fine ultimo della teoria economica. Sulla crescita senza limiti: “Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti. Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia” (in II “La globalizzazione del paradigma tecnocratico”, paragrafo 106).
La torsione speculativa della finanza contemporanea sta alla base di questa illusione di una crescita illimitata e neutra rispetto ai sistemi fisici: “Nel frattempo i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi” (in VI “La debolezza delle reazioni”, paragrafo 56).
Una crescita senza limiti, un miraggio pericoloso, che è diventata realtà grazie alla finanza, ma a discapito dell’economia reale: “Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione ad eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale . Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale” (in II “La globalizzazione del paradigma tecnocratico”, paragrafo 109).
La crisi economico-finanziaria del 2007-2008 ritorna spesso nell’Enciclica come il momento in cui il modello di sviluppo globale ha mostrato le sue intrinseche debolezze e la sua fallacia rispetto ai suoi stessi presupposti. L’Enciclica coglie soprattutto due aspetti di questo evento: il suo manifestarsi come sistema globale (e non comprensibile con i tradizionali strumenti interpretativi nazionali della politica e dell’economia) e l’illusorietà di un sistema che si pretende al di sopra delle dinamiche economiche, sociali e ambientali. “Il XXI secolo, mentre mantiene una governance propria di epoche passate, assiste ad una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica” (in cap. quinto ”Alcune linee di orientamento e di azione”, paragrafo 175). Una dimensione che l’Enciclica denuncia come irriformata anche a seguito della crisi del 2007-2008: “Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma il dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà generare solo nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale” (in cap.quinto, IV “Politica ed economia in dialogo per la pienezza umana”, paragrafo 189). E sempre nelle stesse pagine l’Enciclica sottolinea come la finanza, per quanto viva il suo delirio di onnipotenza al di sopra dell’economia reale, fa ricadere gli effetti delle sue crisi proprio in questi ambiti: “La bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino occupazione…” .
C’è, dunque, anche una riflessione critica sui meccanismi della finanza che, collegata alla tecnologia, ha preteso nelle teorie liberiste di trovare intrinsecamente soluzioni a qualsiasi problema pur causato dal proprio funzionamento. Ma finanza e tecnologia sono oggi incapaci, nonostante i loro impensabili sviluppi soltanto qualche decennio fa, di comprendere quella che potremmo definire con Gregory Bateson in “Mente e natura” , la struttura che connette , quel sistema di collegamenti che definiscono il “contesto” di cui si compone il nostro mondo, nel quale “la logica e la quantità si dimostrano strumenti inadeguati per descrivere gli organismi, le loro interazioni e la loro organizzazione interna”[1]. Analogamente, l’Enciclica: “La tecnologia che, legata alla finanza , pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri” (in cap. primo “Quello che sta accadendo alla nostra casa” , paragrafo 20).

Ora, se l’analisi del ruolo della finanza in “ciò che sta accadendo alla nostra casa” è assai circostanziato e ben articolato, non altrettanto forse è definito il ruolo che una diversa economia e una diversa finanza da quella mainstream possono concretamente fare per riparare questa nostra casa comune.
Di nuovo, l’Enciclica mette in evidenza come le soluzioni a questo squilibrio debbano essere strutturali, andando nel profondo a comprenderne le cause, evitando scorciatoie o vuoti nominalismi. Essa fa esplicito riferimento ai rischi di greenwashing intorno alla parola magica della “sostenibilità” o della “finanza sostenibile” che, talvolta, può essere usata come un passpartout per operazioni di solo marketing: “In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di
immagine” (in cap. quinto, paragrafo 194).
Tuttavia, l’Enciclica può (deve, secondo noi) essere il viatico per una riflessione costruttiva e innovativa sulla finanza stessa. Può la finanza, una diversa finanza, svolgere un ruolo positivo nel sostenere una diversa idea di sviluppo economico e produttivo che ripari la casa rovinata e la predisponga per una diversa stagione della sua vita? Può, nella sostanza, tornare ad essere ciò per cui essa nasce, cioè far incontrare domanda e offerta di denaro per lo sviluppo sociale, ambientale, umano della società? E se sì, quale deve essere la caratteristica di questa diversa finanza? Quali i parametri per individuarne gli effettivi e positivi impatti sociali e ambientali? Rispetto alla Laudato  si’, che contributo può dare la finanza etica (così come praticata negli ultimi decenni da molte istituzioni finanziarie in Europa, nel mondo e in Italia e, di recente, statuita nella legge italiana che identifica gli operatori di finanza etica, art.111 bis TUB) a questo cambiamento? Come possono queste esperienze “contagiare” la finanza mainstream affinché tutta la “finanza cinica” possa diventare “finanza etica”? Quale contributo possono dare i legislatori affinché le norme ad ogni livello – locale, nazionale, europeo, internazionale – possano effettivamente incentivare la conversione della finanza mainstream in una finanza eticamente orientata e, allo stesso tempo, disincentivare, regolare, sanzionare le inadempienze della “finanza cinica”? Che ruolo possono avere i risparmiatori e gli investitori istituzionali in questo cambiamento? Disinvestimento da imprese coinvolte in combustibili fossili, armi e altri settori “cinici”, azionariato critico e attivo, scelte consapevoli nell’uso dei propri risparmi possono avere un’efficacia nell’innescare cambiamenti più ampi e profondi? E, last but not least , le banche, il loro management e i loro operatori possono avere un ruolo in questo epocale cambiamento richiamato dalla Laudato si’, oppure resteranno spettatori muti e, talvolta, anche complici?
Il Manifesto di Banca Etica sembra dialogare molto con i contenuti della Laudato si’, in primo luogo laddove il Manifesto concepisce l’idea stessa della sostenibilità di una società, nella quale i tre pilastri “lo sviluppo economico, la coesione sociale, la tutela ambientale – sono pensati in modo fortemente integrato”. L’interdipendenza, che è uno dei fondamenti dell’ecologia integrale di Papa Francesco, è anche l’architrave che tiene uniti i cinque elementi, le cinque dimensioni della nuova economia (la dimensione comunitaria, la relazione, la reciprocità, la legalità, la dimensione sociale e ambientale). Del resto il Manifesto , in premessa e programmaticamente afferma che “oggi le grandi sfide si affrontano solo in una logica di interdipendenza, solidarietà, giustizia e cura della Terra”.
Analogamente il Manifesto risponde al punto che la Laudato si’ sottolinea in più passaggi, cioè il distacco fra l’attività finanziaria prevalente di oggi e l’economia reale. In primo luogo affermando la necessità che l’economia e la finanza tornino a essere “al servizio della società e non viceversa”. In secondo luogo affermando “il primato del lavoro sulla rendita da capitale nella produzione del reddito” e impegnando la Banca nella sua funzione di intermediazione finanziaria a “rendere mobile la ricchezza … creando un capitale che è allo stesso tempo umano, sociale, materiale, immateriale, economico e finanziario” .
Il Manifesto, fatto centro su questi principi e valori, delinea anche un ambito di impegno e di attività che – oltre la propria mission strategica di erogare credito e, dunque, garantire il credito come diritto della persona – possano delineare una riforma strutturale del mondo della finanza per farlo corrispondere a questi principi.
Così vengono indicati alcuni obiettivi e strumenti di riforma che, anche in vista dell’iniziativa The Economy of  Francesco che si svolgerà ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020, possono essere oggetto di confronto per tradurre le indicazioni contenute nella Laudato si’ in concreti passi per la riforma del sistema. Fra quelle indicate nel Manifesto si ricorda la Tassazione sulle Transazioni Finanziarie, l’eliminazione dei paradisi fiscale, la separazione fra le banche commerciali e le attività speculative svolte dalle banche e dalle istituzioni finanziarie, la definizione di standar stringenti relativi alle attività cd. di “finanza sostenibile” al fine di evitare operazioni di marketing dietro le quali continuare il business as usual delle istituzioni finanziarie mainstream, l’azionariato critico e attivo quale leva per la partecipazione attiva degli investitori nella gestione di grandi imprese (talvolta a partecipazione statale) che tengano in considerazione le ricadute non economiche della scelte finanziarie.

Di questo vogliamo discutere nel seminario su Laudato si’ e finanza etica che organizziamo ad Assisi, presso il Sacro Convento dei frati francescani il prossimo 1° febbraio 2020, da intendersi anche come un contributo del Gruppo Banca Etica al percorso che porterà i giovani economisti chiamati dal Papa a discutere dell’Economia di Francesco.

[1] Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, 1979 .

CEO come allenatori di calcio. Sull’ultimo rapporto Mediobanca

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Il rapporto di Mediobanca sulle caratteristiche degli amministratori delle società bancarie e assicurative quotate con sede in Italia, “scopre” che in queste società gli amministratori arrivano a guadagnare fino a 183,4 volte il salario dei loro dipendenti. È importante che una fonte così autorevole attesti questa macroscopica disuguaglianza. Una sproporzione che sicuramente qualche problema “etico” lo pone. Infatti, perché altrimenti per definire “etico” un operatore bancario di finanza la legge italiana (art.111 bis Testo Unico Bancario) pone un tetto massimo alle politiche retributive che devono essere “tese a contenere al massimo la differenza tra la remunerazione maggiore e quella media della banca, il cui rapporto comunque non può superare il valore di 5”? Vuol dire che entro il rapporto di 5 a 1 si ritiene etica, equa o equilibrata una politica di retribuzione degli amministratori; e che oltre questo rapporto quanto meno l’eticità della retribuzione è opinabile. Diciamo che il rapporto 183,4 a 1 è molto opinabile.

Questo problema all’interno di un’azienda bancaria diventa intollerabile quando si trova a fronteggiare problemi di sostenibilità economica che possono mettere a repentaglio i posti di lavoro (di recente Unicredit) o gli investimenti dei risparmiatori (l’ultima di queste situazioni è la Banca Popolare di Bari); ma resta un problema anche quando l’azienda non è in crisi perché costituisce uno squilibrio interno non solo di denaro, ma anche di potere, sottrae risorse che possono essere impiegate per il bene comune dell’azienda, e le privatizza.

Il rapporto di Mediobanca colloca ai primi posti della classifica dei più ricchi di questa categoria, con una singola carica (perché, ovviamente, alcuni concentrano nella stessa persona la carica di presidente e amministratore delegato, dunque la massima concentrazione di potere e coincidenza di ruoli, come nel caso di Carlo Cimbri di Unipol), l’amministratore delegato di Assicurazioni Generali, Philippe Donnet, con 5,9 milioni di euro l’anno. Ben prima di Mediobanca, Fondazione Finanza Etica nella sua attività di azionariato critico, aveva interrogato i vertici di Generali su questo problema durante le Assemblee generali degli azionisti del 2018 e del 2019.

Nell’Assemblea del 2018 focalizzammo la nostra attenzione sull’abnorme dimensione che la parte variabile della retribuzione dell’AD (costituita da un bonus annuale in cash e un performance share plan di lungo periodo) poteva assumere rispetto a quella fissa: se tutti gli obiettivi fossero stati raggiunti, la remunerazione variabile sarebbe potuta arrivare fino al 519% della remunerazione fissa, che è pari a 1,4 milioni di euro. In totale, il tetto di remunerazione variabile che l’AD avrebbe potuto raggiungere era pari a circa 7,27 milioni di euro che, sommati alla remunerazione fissa, portavano a una remunerazione totale di 8,67 milioni di euro. Il rapporto fra parte fissa e parte variabile arrivava così a 437. Abbiamo notato e chiesto conto della sproporzione eccessiva fra parte variabile e parte fissa della retribuzione e chiesto all’azienda che cosa ne pensasse. La risposta in sala è stata che dovremmo essere contenti come azionisti che l’azienda paghi molto l’AD, perché vuol dire che egli raggiunge i risultati e che l’azienda va bene. La risposta a domanda scritta, comunque per noi insoddisfacente (tanto che abbiamo votato contro questo punto all’ordine del giorno), era che “Il pacchetto retributivo viene chiaramente definito in modo da garantire un bilanciamento tra componente fissa e variabile della remunerazione, nonché da favorire il raggiungimento di risultati sostenibili di lungo termine”. Tecnicamente una risposta tautologica, anche se condita da pareri del Comitato per le Nomine e la Remunerazione sulla base di “linee guida per la revisione della remunerazione e del pay-mix ove necessari, in linea con le tendenze di mercato e le analisi interne”. Tuttavia in questo piano di remunerazione si legge che, a partire dal 2018, il Gruppo Generali “ha consolidato un percorso interno di valorizzazione e focus sui temi legati alla sostenibilità, con l’obiettivo ultimo di includere i driver chiave dei fattori “ESG” (Environmental, Social and Governance) nelle balanced scorecard del Top Management di Gruppo. Sono previsti specifici indicatori di sostenibilità, rispettivamente focalizzati sull’aggiornamento della strategia di investimento sostenibile sui temi più rilevanti (ad es. Combustibili, Tabacco) e sull’implementazione di una policy di underwriting sostenibile”. Allora abbiamo chiesto dettagli su questi obiettivi e su come sono pesati all’interno del piano di remunerazione; su cosa si intenda per policy di underwriting sostenibile; su quali tipi di attività sarebbero escluse. Ma la risposta è stata ancora una volta elusiva.

L’anno dopo, nel 2019, siamo tornati su questo punto di trasparenza sugli obiettivi di sostenibilità nelle balanced scorecard del Top Management perché, nonostante le nostre richieste, tali obiettivi non sono stati esplicitati con sufficiente chiarezza nemmeno nel piano di remunerazione 2019, dove non si parla più di “ESG” e ci si limita a fare riferimento a dei “KPI (Key Performance Indicators) di sostenibilità, come ad esempio la percentuale di “green & social products”, di “green investments” o l’indicatore “quality of non financial information & reporting”. Ma anche nel 2019 la risposta è stata: “ sono previsti in tutte le balanced scorecard individuali dei manager due indicatori legati rispettivamente all’implementazione dei progetti strategici di Gruppo e locali – che includono iniziative KPI di sostenibilità (p.es. % green & social products, % green investments, quality of non financial information & reporting) – per il raggiungimento degli obiettivi del Piano”. La tautologia è un’arte, evidentemente; cioè la capacità di ripetere quanto già detto e significato in un’altra espressione o con un altro termine o elemento; in questo caso trasformare i termini della domanda in quelli della risposta senza però aggiungere niente e quindi eludendo la stessa domanda.

Non c’è dunque solo lo “scandalo” di retribuzioni abnormi, distanti dalla vita reale ed eticamente discutibili; ma anche non adeguatamente motivate e legate a parametri di sostenibilità, ESG e tutte queste cose che vanno così di moda oggi, che restano però evanescenti, flatus vocis o voci dal sen fuggite senza riscontro cogente nella realtà… se non la materiale e pesante retribuzione plurimilionaria di una categoria di persone sempre più circoscritta e sempre più ricca che, come gli allenatori di calcio, oggi guidano la Juventus, domani rescindono il contratto con buonuscita milionaria e vanno ad allenare il Liverpool e se la squadra non va bene vengono licenziati (con altra buonuscita milionaria) e vanno ad allenare l’Atletico Madrid.

 

Simone Siliani

 

 

Al mercato delle emissioni

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Oggi, giovedì 12 dicembre, alla COP25 di Madrid è la giornata contro il Mercato della CO2, indetta dall’alleanza di oltre 200 gruppi di base e indigeni americani e canadesi “It Takes Roots”.

Questa del Mercato della CO2 è una questione molto tecnica, con notevoli risvolti politici, certamente decisiva e controversa per la lotta al cambiamento climatico. Si tratta delle prima strategia sul tema adottata dalla comunità internazionale sulla base dell’accordo di Kyoto del 1997. Il mercato internazionale dellle emissioni di CO2, in teoria, dava ai paesi aderenti all’accordo degli incentivi per abbattere le emissioni, in quanto ricevevano crediti per i loro sforzi – su progetti di energia rinnovabile, conservazione delle foreste, ecc. – che potevano essere venduti ai paesi in difficoltà a raggiungere i loro obiettivi di abbattimento di emissioni. Questo strumento avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell’accordo, accelerare il raggiungimento complessivo dei limiti di emissioni previsti per mantenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto dei 2°C dei livelli preindustriali. In realtà è diventata un argomento molto controverso e dibattuto circa la sua efficacia ed è al centro del dibattito alla COP25 relativamente all’art.6 del Trattato di Parigi.

Secondo molti il mercato delle emissioni si è rivelato uno strumento non solo scarsamente efficiente, ma addirittura utile per ulteriore business, sfruttamento delle foreste e legittimazione ad inquinare. I contrari a questo strumento statale di controllo delle emissioni sostengono che esso consente alle compagnie petrolifere di investire in vasti progetti di mitigazione dei combustibili fossili in altri paesi invece di ridurre le proprie emissioni.

Infatti, chi sostiene lo strumento del mercato delle emissioni è soprattutto l’industria delle fossili, come l’International Emissions Trading Association, fra i cui membri spiccano BP, Chevron, Shell, che di recente hanno stimato come il mercato delle emissioni possa ridurre i costi per l’implementazione dell’accordo di Parigi di circa 250 miliardi di dollari l’anno fino al 2030.

Di questo mercato hanno fatto largo uso i paesi europei, costituendo il primo e più vasto mercato delle emissioni nel 2005 con l’Emission Trading System. Attraverso di esso questi paesi hanno elargito una quantità enorme di crediti alle loro industrie, ma il risultato è stato che il costo dell’inquinamento è diventato troppo basso per stimolare una reale riduzione delle emissioni di gas serra.

L’altro grande mercato delle emissioni, il Clean Development Mechanism istituito dall’art.12 del Protocollo di Kyoto – che permette ai paesi industrializzati di acquistare i Certificati di Riduzione delle Emissioni (CER) e di investirli in riduzioni di emissioni laddove ciò è meno oneroso nel mondo (i paesi in ritardo di sviluppo) – ha canalizzato oltre 138 miliardi di dollari in circa 8.000 progetti nei paesi terzi. Ma secondo un recente studio commissionato dalla Commissione Europea all’Öko-Institut di Berlino (centro di ricerca di ecologia applicata), l’85% di questi progetti avrebbero avuto luogo anche senza il Clean Development Mechanism, rendendo così il valore di quest’ultimo almeno discutibile. Tanto è vero che l’Emissions Trading System della UE ha cessato di emettere crediti CDM a favore di progetti in Brasile, India e Cina e il mercato delle emissioni californiano non ne accetta in assoluto. Questo ha portato a una svalutazione dei crediti, che nel 2008 valevano 23 dollari a tonnellata, mentre oggi, secondo le stime della Banca Mondiale, sono scesi al 30% di quel valore. Il rapporto della Banca Mondiale inoltre conclude evidenziando come solo il 20% delle emissioni globali di gas serra siano coperte da iniziative del mercato della CO2 e che di queste meno del 5% siano valutate a un prezzo coerente con il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi (stimato fra 40 $/ton.CO2 al 2020 e 50-100 $/ton.CO2 al 2030).

È pur vero che alcuni mercati delle emissioni hanno raggiunto alcuni obiettivi, come quello della California, che ha portato lo stato americano a superare già oggi gli obiettivi su energia rinnovabile previsti al 2020, e anche quello di alcuni stati del nordest degli USA, che hanno ridotto del 47% le emissioni di CO2 da produzione di energia a una velocità del 90% maggiore del resto del paese. Ma restano aperti alcuni problemi fondamentali relativi al conteggio, spesso duplicato, dei crediti per i progetti di riduzione delle emissioni da parte sia del paese emittente che dal paese ricevente (come nel caso del Brasile), problematiche di efficienza del sistema, ma anche di trasparenza e dunque di natura politica, che per l’appunto sono squadernati davanti ai negoziatori della COP25 a Madrid.

Simone Siliani