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Scivolone delle azioni dei produttori di armi. Se la pace si avvicina per loro è un problema.

Il vero e proprio crollo del valore delle azioni delle imprese degli armamenti registrato in Borsa è un segnale interessante che, sebbene da prendere con le pinze dal punto di vista dell’analisi finanziaria, ci dice alcune cose importanti sotto il profilo politico.

La prima è che se scoppiasse davvero la pace, o almeno la cessazione prolungata delle azioni militari, questo sarebbe un bel problema per queste aziende. E non solo dal punto di vista del valore borsistico. Il che, di converso, ci conferma in una nostra convinzione: vi è un nesso di diretta proporzionalità fra le guerre combattute e il successo finanziario delle imprese della “difesa”. Cioè, questo comparto prospera non perché previene le guerre armando i paesi (dottrina della deterrenza), ma proprio perché le guerre si combattono.

D’altra parte anche le armi, come ogni altra merce, rispondono alle leggi della domanda e dell’offerta: l’uso, il consumo di un bene, influenza la domanda di quel bene, come del resto l’eccesso dell’offerta di quel bene ne fa calare il prezzo e incentiva il suo utilizzo. E, trattandosi di armi, questa dinamica è accelerata dal consumo rapido di quei beni (il loro uso sul terreno di battaglia), giacché il tempo per il raggiungimento della loro obsolescenza è troppo lungo, tiene alti i prezzi, bassa la domanda e induce scarsità di offerta.

I Signori della Guerra, così li chiamava Bob Dylan oltre 60 anni fa e così dovremmo chiamare oggi i produttori di questa merce particolare che sono le armi, lo sanno benissimo e, dunque, sono consapevoli che periodi prolungati di pace o almeno di non-guerra sono devastanti per le loro aziende. Per questo motivo, ed è la seconda riflessione che deriva dall’andamento borsistico, si impegnano investendo tempo e risorse in attività di lobby per convincere gli Stati a destinare quote crescenti del bilancio pubblico (cioè dei soldi delle tasse dei cittadini) per il riarmo. Infatti, chiaramente i finanziamenti pubblici sfuggono alle dinamiche del mercato e non attendono una remunerazione finanziaria dei propri investimenti.

Certo, sappiamo che lo Stato italiano è l’azionista di riferimento di aziende come Leonardo Spa (30,2%) o di Fincantieri (71% attraverso Cdp, a sua volta detenuta all’82,77% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), ma ovviamente la decisione di essere e rimanere l’azionista maggiore di queste aziende prescinde per il Governo dai dividendi che le loro azioni generano. Non solo, ma è evidente che i Governi – che sono i maggiori clienti di queste aziende di cui sono anche proprietari – preferiscono rifornirsi di armi per le loro Forze Armate da aziende che controllano, le quali agiscono per questa rilevante parte del loro business in condizione di monopolio.

Per questo, parallelamente allo scoppio di due grandi conflitti armati alle porte d’Europa, l’industria degli armamenti ha spinto i politici, tutti, del continente ad accrescere la spesa pubblica per gli armamenti: in qualche modo hanno messo fieno in cascina per l’inverno, che per loro è, appunto, la cessazione o la sospensione di quei conflitti. L’inverno prima o poi arriva, di sicuro. E la crescita drogata dai conflitti combattuti, dalla retorica militaresca, dal cambiamento di priorità nella spesa pubblica (dalla lotta al cambiamento climatico al settore militare) subirà un appiattimento.

Per dire: Leonardo SpA ha visto crescere i 5 anni il valore delle proprie azioni del 646,82%; Fincantieri negli stessi 5 anni del 231,46%; la tedesca Rheinmetall del 456,16%; l’inglese BAE Systems del 216,42%, la francese Thales del 238.36%. Quanto può durare ancora? È verosimile una crescita lineare all’infinito di questa portata? Evidentemente no.

Ed ecco allora che per queste imprese diventa fondamentale l’apporto della finanza pubblica.

Purtroppo gli interessi di queste imprese, non coincidono né con quelli dei popoli dove le guerre si combattono, né degli italiani i cui bilanci pubblici (ricordo sempre, regolati dalla norma costituzionale sul pareggio di bilancio, articolo 81) stornano le già scarse risorse da settori ben più strategici per la qualità della vita, come sanità, istruzione, sociale, ecc. verso un settore produttivo a bassa intensità di lavoro (che cioè impiega meno lavoratori per gli stessi investimenti di altri settori) e assai rischioso come quello degli armamenti.

Ma, in questa spinta al riarmo, ci sono rischi rilevanti anche per le stesse aziende produttrici. Infatti, per rispondere alla crescita della domanda (cioè delle commesse pubbliche e della domanda esterna), si trovano a diminuire la produzione civile (elicotteri antincendio, tecnologia per i controlli ambientali, imbarcazioni e piattaforme civili, ecc.) e in alcuni casi a dismettere interi settori produttivi (come ha fatto negli anni Leonardo SpA per il settore ferroviario).

Cosa succede se, ad un certo punto, si riducono o crollano le commesse militari dalle quali queste aziende dipendono in maniera crescente? Ripristinare linee produttive, competenze ed expertise, mercati interni ed esteri è un lavoro impegnativo, che implica grandi investimenti e dà risultati in tempi medio lunghi. Nel frattempo i risultati economici e finanziari delle imprese si appiattiscono e i primi a farne le spese saranno i lavoratori, poi a seguire gli investitori.

Cosa succederà verosimilmente?

Si tornerà da Pantalone, cioè a chiedere aiuti di Stato sotto mentite spoglie; che vuol dire che infine si tornerà da noi, cittadini e risparmiatori. Per fortuna per titoli di guerra che vanno giù ce ne sono molti civili che crescono, come accaduto a Piazza Affari e nelle Borse in tutta Europa, e che risentono positivamente del possibile accordo sull’Ucraina. Perché alla fine la guerra arricchisce moltissimo pochi e impoverisce tanti; ma la pace dà prosperità ai più. E pazienza per i Signori della Guerra.

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica.
Articolo pubblicato ieri sulle pagine di “Avvenire”.