Campagne e reti -

Per una campagna sulla Due Diligence

Una campagna sulla Due Diligence. Decisiva, necessaria, possibile.

 

Non è mica facile inventarsi una campagna sulla Due Diligence. Prima di tutto devi spiegare cosa vuol dire e cos’è. Tradotto nella lingua di Dante significa “diligenza dovuta” o “dovere di diligenza”. È un’attività di investigazione e approfondimento di dati e informazioni, finalizzata ad identificare rischi e problemi connessi a una attività economica, anche per predisporre adeguati strumenti di garanzia, di indennizzo o di risarcimento. Chi si assume questo compito ha il “dovere” di svolgerlo in modo “diligente”, con cura scrupolosa e indipendenza di giudizio. Purtroppo, non sempre così avviene nel mondo degli affari. Accade che questa attività, ben remunerata e prevista anche da normative specifiche, venga svolta su commissione dei diretti interessati e dunque si riveli nella realtà piuttosto prona ai desiderata dei committenti. 

Per fare una campagna seria su questo tema, devi individuare il target. Quando devi spiegare che l’obiettivo, il risultato atteso sarebbe una Direttiva della Commissione europea, cioè una norma cogente che regolamenti come la due diligence debba essere fatta, a quel punto ti sei già giocato tre quarti dell’uditorio.

Troppo complesso, poco cool, non c’è niente che scaldi il cuore, molta tecnica e poca passione. Vuoi mettere come è più pop la pace nel mondo, la lotta alla fame e il rispetto dei diritti umani.

Tuttavia questa campagna, così apparentemente fredda e senz’anima, è decisiva, necessaria e anche possibile. Oltre a contribuire alla pace nel mondo, all’eradicazione della fame e al rispetto dei diritti umani in forma niente affatto residuale.

Decisiva perché sono in ballo diritti umani concreti, quelli legati alle condizioni di lavoro materiali lungo le filiere produttive che dai luoghi più lontani del pianeta portano a noi i beni per il nostro consumo.

Necessaria perché ci sono lobby potenti, quelle delle grandi imprese che in verità non vogliono regole e controlli per poter continuare a sfruttare mano d’opera a basso costo e ancor più bassi diritti, per tenere bassi i costi e vendere più merce a noi, per i quali ogni giorno è black friday. Queste grandi imprese surrettiziamente si alleano con le piccole abbindolandole, raccontando la storiella che la due diligence è solo un aggravio economico, burocratico soprattutto per loro. Ma la realtà è che una seria, vera due diligence sarebbe per le grandi una regolamentazione che non sopportano.

Possibile perché troppi e dolorosi casi hanno dimostrato che una due diligence fatta male e truffaldina mette a rischio la salute dei lavoratori e dell’ambiente, ma anche la reputazione delle imprese. E come sta avvenendo per Amazon che viene multata per posizione dominante sul mercato, i tribunali statali e la normativa sovrastatale iniziano ad accorgersi e ad affrontare questi temi tipicamente globali e a istituire regole che travalicano i confini degli Stati.

 

La globalizzazione delle catene di fornitura è parte del più complessivo squilibrio fra capitale e lavoro

È del febbraio 2021 l’ordine esecutivo dell’Amministrazione Biden volto a “Costruire una catena di fornitura resiliente, rivitalizzare la manifattura americana, favorire una vasta crescita”, nel quale sono messi in risalto – per la prima volta – i costi sociali che le catene di fornitura globali hanno comportato.

Vi si legge:

“L’approccio alla produzione interna del settore privato e delle politiche pubbliche, che per anni ha privilegiato efficienza e bassi costi sulla sicurezza, sostenibilità e resilienza, ha provocato rischi nell’intera catena di fornitura”.

Il documento si chiede anche se catene di fornitura iper-globalizzate siano poi davvero così economicamente efficienti.

La risposta oggi non è più scontata come fino a pochi anni fa. Ovviamente le crisi finanziarie globali hanno scavato nelle inossidabili certezze che persistevano fino almeno alla crisi del 2008. Ma oggi preoccupa anche la globalizzazione delle catene di fornitura, che non riguardano soltanto lo scambio di merci e servizi, e che sono parte del più complessivo squilibrio fra capitale e lavoro. La corsa al ribasso dei costi finali di un prodotto, si riduce in una tendenza all’abbassamento dei costi del lavoro. Questo porta i manager a spostare le produzioni in paesi dove i salari sono più bassi e dove la frammentazione della catena di fornitura rende più difficile ai lavoratori una organizzazione collettiva a difesa dei propri interessi: un doppio vantaggio per il business. A cui si aggiungono quelli fiscali dato che questi paesi hanno di solito una giurisdizione fiscale più favorevole proprio per attrarre investimenti e capitali stranieri. Cosa quest’ultima che ha preoccupato l’Amministrazione USA che si è fatta promotrice di una pur timida cornice di comune cornice fiscale minima proprio per ridurre le fughe di capitali all’estero.

 

Impresa 2030 Diamoci una regolata. Campagna sulla direttiva UE sulla Due diligence

Ma questo porta con sé, fatalmente, anche una maggiore attenzione a normative di minore squilibrio relativo alle condizioni dei lavoratori in tutta la catena di fornitura. Non è, naturalmente, un meccanismo automatico e ci vuole coraggio e volontà politiche. Ma qualcosa si sta muovendo e forse questo è il momento per spingere per una regolamentazione almeno europea (per ridurre la competizione al ribasso interna alla Ue e omogeneizzare i comportamenti delle imprese di una delle economie più forti del pianeta, se considerata complessivamente).

Per questo 10 realtà della società civile organizzata italiana, fra le quali Fondazione Finanza Etica, hanno dato vita ad una campagna a sostegno di una regolamentazione europea stringente in tema di due diligence: Impresa 2030. Diamoci una regolata si è data il compito, difficile ma necessario, di costruire una lobby opposta a quella della deregulation, già abbastanza forte e organizzata che sta lavorando sulla Commissione Ue per annacquare la Direttiva. Che ha già subito due rinvii e che è attesa ora entro il 2022. Ma anche a livello europeo si è formata una analoga coalizione: European Coalition for Corporate Justice (ECCJ).

Forse le difficoltà di una campagna così “tecnica” potremmo superarle raccontando una storia, triste e dolorosa, ma non per questo meno esemplare. E chiama in causa l’Italia e il suo Governo.

 

Il disastro Ali Enterprises e la due diligence di RINA Services

Era un altro 11 settembre, quello del 2012, quando un incendio un incendio ha travolto la fabbrica di abbigliamento Ali Enterprises in Pakistan. Solo tre settimane prima RINA Services S.p.A., società di auditing italiana partecipata dal Ministero dei Trasporti italiano, aveva certificato l’azienda conforme alla norma SA8000, uno standard internazionale stabilito da Social Accountability International. Aveva cioè fatto una due diligence sulla sicurezza dell’impianto. Ma una asseverazione che, come hanno stabilito le indagini, ha trascurato una serie di obblighi di sicurezza, come la necessità di avere un sistema di allarme antincendio funzionante o uscite di emergenza sufficienti ed efficaci. Successivamente sono venute a galla una serie di altre violazioni dei diritti dei lavoratori ignorate dall’auditor.

In quell’incendio hanno perso la vita 250 persone che per il fatto di essere localizzate a Karachi in Pakistan non erano certo meno persone, non avevano meno affetti, non erano meno importanti per la sopravvivenza di figli, coniugi, comunità locali. Ci sono persone che piangono questi lavoratori e lavoratrici a Karachi, esattamente come le piangerebbero a Milano o a Parigi. Saeeda Khatoon, presidente dell’Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association (AEFFAA), ha perso suo figlio in quel rogo: perché il suo dolore dovrebbe valere meno di quello di una madre di Berlino o di Madrid? Perché il suo legittimo desiderio di giustizia, di spiegazioni non dovrebbe richiedere la stessa attenzione di quello di un lutto simile in Italia?

La società italiana RINA Services S.p.A. si è rifiutata di assumersi le sue responsabilità per aver certificato come sicura questa fabbrica. Il Governo italiano, che è proprietario in quanto azionista di riferimento della società non può non rispondere su quanto accaduto. Altrimenti ogni dichiarazione sui diritti umani o sulla democrazia, che anche in questi giorni è uscita dalla bocca dei nostri rappresentanti istituzionali, è solo vuota retorica e colpevole ignavia.

Ecco, così forse questa campagna “fredda” e “tecnica”, può essere spiegata e animata: una direttiva obbligatoria, con regolamentazione stringente e sanzioni per elusioni della stessa, avrebbe potuto oggi dare una risposta alla domanda di giustizia di Saeeda e magari evitato quel rogo in cui ha perso suo figlio. Scusate se è poco.

Simone Siliani, direttore Fondazione Finanza Etica