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Coronavirus, perché l’analisi statistica può fare chiarezza sui numeri

Contagi, decessi, guarigioni, tamponi. La pandemia di coronavirus ha portato con sé una quantità enorme di informazioni. Numeri, tabelle, mappe non sempre di facile interpretazione. Per cercare di fare chiarezza, una fotografia completa e sistematizzata dei dati relativi all’Italia (e non solo) è stata curata da Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, dell’università “Sapienza” di Roma, rispettivamente docente ordinario e professore emerito di statistica.

La necessità di uno sguardo “complessivo” sul coronavirus

L’analisi – intitolata “Covid-19: chiarezza sui dati”,  cui dati sono aggiornati al 28 maggio scorso e il cui testo è scaricabile qui per gentile concessione di Bancaria e degli autori – punta proprio a consentire di “leggere” i numeri. «In alcuni casi – spiegano gli autori – i dati riferiti sono in contraddizione perché i canoni di rilevazione sono diseguali». Inoltre, «il numero di contagi accertato è correlato al numero di test effettuati, che è diseguale tra i diversi Paesi. E, da noi, fra le regioni e province autonome».

È per tale ragione che, ad esempio, è utile non soltanto conoscere il numero di contagi in un dato territorio (nazione o regione che sia). Ma anche poterlo ponderare con il numero di contagi accertati in funzione del numero di tamponi effettuati (per scongiurare l’eventualità che si sia in presenza di un numero elevato di contagi “nascosti”). Inoltre, al fine di comprendere la penetrazione del coronavirus nella popolazione, è utile sapere anche qual è il numero di contagi accertati ogni mille abitanti. Basti pensare al caso di due nazioni che hanno lo stesso numero di contagiati ma popolazioni di dimensioni molto diverse.

«I dati diffusi quotidianamente non sono sufficienti»

«Tra i Paesi più popolosi – si legge nello studio – al 28 maggio 2020 gli Stati Uniti risulterebbero molto più colpiti rispetto a Cina, India, Indonesia, Nigeria, Brasile e Russia. Detenendo il record non soltanto in termini assoluti (1,7 milioni accertati) ma anche di probabilità di contagio, pari a 5,14 per mille residenti». Contagi che, al 20 luglio, sono arrivati nella nazione nordamericana ad oltre 4,3 milioni.

Alleva e Zuliani sottolineano in particolare come dall’analisi dei dati possa emergere una confusione in merito alla reale diffusione del coronavirus. Più in generale, aggiungono i due docenti, «i dati statistici diffusi quotidianamente sull’evoluzione dell’epidemia in Italia non sono, a nostro parere, soddisfacenti. Non aiutano a capire. Alcuni di essi sono enfatizzati ingenuamente, come l’aumento del numero di guariti, destinato comunque a crescere. In qualche caso risultano fuorvianti per via del ritardo nella comunicazione degli aggiornamenti che dà luogo a fluttuazioni delle serie regionali e a letture di inattese accelerazioni o di agognati rallentamenti».

«Occorre una reale intenzione interdisciplinare»

Lo studio ha quindi considerato non soltanto i numeri diffusi dalle autorità sanitarie, ma ha anche effettuato un confronto con il passato. Al fine di comprendere quali siano stati gli scostamenti causati dalla pandemia. Ciò che è chiaro è che la statistica può aiutare in questo senso in modo determinante, esattamente come altre discipline. Nelle loro conclusioni, i due studiosi spiegano infatti che «per produrre un’informazione corretta su Covid-19 è necessaria la collaborazione di molte competenze. Virologi, epidemiologi, responsabili sanitari, modellisti fisici e matematici, economisti, valutatori di interventi pubblici, oltre che di statistici. Occorre una reale intenzione interdisciplinare. È necessaria anche una forte collaborazione inter-istituzionale al centro e sul territorio».

Purtroppo, invece, secondo Alleva e Zuliani esistono numerose problematiche: «La presenza di decisioni che appaiono in qualche caso improvvisate o non sostenute dal conforto scientifico, la scarsa trasparenza delle proposte avanzate dalle molte e spesso pletoriche task force». E ancora «l’incapacità di predisporre soluzioni selettive riguardo sia alle misure restrittive sia, in molti casi, ai beneficiari delle provvidenze apprestate». Fino alla «fiducia immotivata che i problemi possano essere risolti attraverso la sola decretazione», alla «tradizionale allergia per gli aspetti organizzativi delle soluzioni indicate». E a quella che viene definita «l’insofferenza dei comparti produttivi e – c’è da aspettarselo – della popolazione». Tutti elementi che «lasciano molta incertezza».

Si ringraziano Bancaria e gli autori per la gentile concessione.