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Don Milani e il suo “I care”. La Marcia Barbiana Assisi 2021

La complessità del messaggio dell’ I care di Don Milani

Si fa presto a dire I Care.

Ormai è diventato un motto pacifico, conciliativo, unificante, da chiunque pronunciabile senza complicazioni e conseguenze. Purtroppo però questo è l’esatto opposto di ciò che esso ha significato nella carne viva dell’esperienza della scuola di Barbiana e nell’insegnamento laico di don Lorenzo Milani. Il suo I care è oppositivo, divisivo, militante, combattivo. Implica schierarsi, mettersi in gioco, prendere parte.

Ricordiamo che oltre che nella parete della scuola arrampicata sulla montagna del Mugello, don Lorenzo la imprime a caratteri di fuoco nella sua Lettera ai Giudici, inviata a sua difesa dall’accusa di istigazione a delinquere a mezzo stampa. Il priore aveva infatti pubblicato sul settimanale Rinascita una lettera in risposta ai cappellani militari toscani che in un comunicato dell’11 febbraio 1965 avevano dichiarato un “insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. È bene contestualizzare quell’I care, altrimenti non si capisce niente e si lascia spazio allo svuotamento dei suoi contenuti più rivoluzionari rendendolo innocuo.

I care per la formazione di una coscienza pacifista

Sugli atti di quella vicenda raccolti nel libro “L’obbedienza non è più una virtù” si è formata molta parte della coscienza pacifista che ha portato milioni di italiani a impegnarsi contro i tanti conflitti: le “guerre giuste” e quelle ingiuste che hanno tempestato gli ultimi 70 anni di “pace” dopo il secondo conflitto mondiale; ma anche le Costituzioni democratiche che, come la nostra, hanno ripudiato la guerra. Allo stesso tempo su quella vicenda si sono fondate leggi civili, come la L.772 del 1972 che rese legittima l’obiezione di coscienza; o anche la L.185 del 1990 che ha tentato di inserire elementi di trasparenza e di limitazioni al commercio di armi.

Per don Milani quell’I care è fonte del dovere morale che come sacerdote, come insegnante e come cittadino gli imponeva di non tacere. Cioè di reagire all’ingiustizia, sentirsi “responsabile di tutto”, tutelare le libertà fondanti la nostra Costituzione, prime fra tutte quelle di parola e di stampa.

I care. Da opposizione al fascismo all’egoismo narcisista di oggi

I care è prima di tutto opposto al “Me ne frego” fascista. La differenza sostanziale di questa opposizione di ideologie sembra svaporare oggi. Per molti esponenti che siedono in Parlamento e anche nel Governo, infatti, raccogliere e portare i simboli dell’ideologia fascista nelle aule delle istituzioni in cui sono entrati giurando sulla Costituzione nata dalla lotta antifascista sembra non costituire più un problema.

Ma non vi è forse qualcosa di più profondo che è maturato negli ultimi 30 anni di vita della nostra Repubblica nella cultura degli italiani? L’egoismo proprietario, l’individualismo edonista, lo smarrimento di ogni senso di responsabilità verso il bene comune anche quando si rivestono incarichi pubblici, la solidarietà ormai assurta a disvalore, “prima gli italiani”.

È una spesso inconsapevole riproposizione di stilemi dell’ideologia del “Me ne frego” fascista che si è fatta avanti negli ultimi decenni. Anche in segmenti insospettabili della società italiana.

Il sindacato non accetta forse talvolta lo scambio fra posti di lavoro nelle fabbriche di armamenti qui e l’uso di quelle armi in scenari di guerra a noi lontani? È la risposta semplice, mentre quella complessa richiederebbe un serio impegno per la riconversione produttiva dal militare al civile. D’altra parte ancora pochi rinunciano a investimenti individuali remunerativi magari in settori dannosi per l’ambiente e i diritti umani per investimenti più pazienti e ad impatto ambientale e sociale più basso. E ancora meno sono quelli che si domandano se i vestiti che indossano o il cibo che mangiano non provenga da una filiera in cui migliaia di esseri umani sono sfruttati e trattati come schiavi o molte risorse ambientali vengono sprecare e bruciate.

I care di Don Milani significa fare una scelta

Quell’I care milaniano esige una scelta, scomoda spesso, di prendere parte, di opporsi attivamente a questo impercettibile eppure inesorabile scivolamento nel “Me ne frego”. Non è un pacificante ed ecumenico Siamo tutti più buoni.

Marciare da Barbiana ad Assisi vuol dire assumere la piena consapevolezza di tutte le conseguenze delle scelte di Lorenzo e Francesco. Vuol dire scegliere la parte degli ultimi e lottare contro le diseguaglianze, che invece crescono nel civile mondo sviluppato; dialogare, vestiti solo di se stessi e non dell’armatura delle certezze della cultura occidentale, con il Sultano, perché solo così è possibile costruire la pace; essere e sentirsi parte del creato, dell’ambiente e non sfruttarlo come se non vi fosse un domani.

I care e l’assunzione del dubbio

E, naturalmente, l’I care implica il dubbio e la responsabilità che includono gli altri nelle nostre prospettive. Il “Me ne frego” potrebbe anche paradossalmente essere dei pacifisti assoluti: “io sono contro la guerra. Ogni guerra. E quindi chi se ne frega di assumersi la responsabilità di difendere gli innocenti dalla violenza degli oscurantisti signori della guerra e della violenza”.

Non abbiamo risposte facili a questi dilemmi, neppure quella del No assoluto all’esercizio della forza.

Ma Lorenzo Milani indica la strada della coerenza con l’articolo 11 della Costituzione: non vi sono state guerre in regola con quell’articolo e l’esaltazione dell’idea di Patria (con il suo corollario di confini, inni nazionali, bandiere, eserciti, retorica) non è altro che la premessa necessaria di quelle guerre (anche in tempo di pace). La vicenda dei Balcani alla fine del secolo scorso si è incaricata di ricordarci quanto pericolosa possa essere l’idea di Patria.

Ma se don Milani vedeva nella guerra di Liberazione dal nazifascismo l’unica guerra giusta, dovremo alla fine assumerci tutta la responsabilità di dar corpo, con coraggio, al secondo comma dell’articolo 11: l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Ovvero, rinuncia a quote di sovranità, assume una accezione cedevole di idea di sovranità e di Patria per tutelare i diritti umani ovunque nel mondo.

Non vi era bisogno quest’anno di cercare nel Covid-19 un motivo nuovo per la Marcia Perugia-Assisi: purtroppo il dramma afgano ripropone tutti interi questi nodi difficili ai movimenti per la pace e la giustizia.

L’obbedienza non è più una virtù

Infine, l’obbedienza non è più una virtù, “ma la più subdola delle tentazioni”. Così prosegue don Lorenzo nel testo. Ovvero siamo tutti responsabili di tutto. Ho sempre sofferto di fronte a questa parte della Lettera di don Lorenzo ai giudici.

L’ho interpretata come la riproposizione del dramma di Sofocle Antigone, nel più drammatico dei secoli, il Novecento. A quali leggi dobbiamo obbedienza? Antigone sente il dovere dell’obbedienza alla “leggi non scritte” fino alla disobbedienza alle “leggi scritte”.

E in fondo a questo “classico” dilemma si richiama don Lorenzo. È un tema che investe la libertà della persona. Può sembrare un dilemma semplice: chi è “nobile” sceglie la legge non scritta anche a prezzo della vita; chi non lo è, sceglie di vivere nella legge degli uomini come fosse quella universale. Ma vi è un margine aperto fra l’io, la sua libertà e il noi, il destino della comunità. A Tebe allora, come qui oggi, il problema aperto è come e fin dove si può spingere il governo degli uomini? Quale deve essere il patto che li lega e quale limite questo patto non può varcare? Quale è il rapporto fra autorità e consenso?

È il problema della politica. Quello che tutti noi che marceremo da Barbiana ad Assisi non possiamo evitare perché la responsabilità non si diluisce se condivisa fra milioni di persone. Come scriveva don Lorenzo:

“Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti… Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millenni non toglie il sonno all’uomo di oggi. …C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica