Azionariato critico con H&M

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Azionariato critico con H&M

 

L’assemblea del colosso svedese del fast fashion H&M, tenutasi a Stoccolma il 7 maggio del 2019, è un chiaro esempio di come una campagna della società civile possa trasformarsi in un’iniziativa di azionariato critico, coinvolgendo anche gli investitori istituzionali (fondi di investimento che hanno in portafoglio migliaia diazioni della società).

Tutto parte da una a una campagna lanciata dalla coalizione Clean Clothes Campaign (CCC, in Italia Campagna Abiti Puliti) nel maggio del 2018, che chiede alla società di mantenere fede a una promessa, fatta nel novembre del 2013: pagare un salario dignitoso (“living wage”) a tutti i suoi fornitori strategici. «Un provvedimento che interesserà 850.000 lavoratori dell’abbigliamento», aveva dichiarato l’impresa.

 

H&M non ha mantenuto le promesse sul salario di sussistenza. E la Campagna Abiti Puliti ha deciso di diventare azionista critico.

La promessa non viene mantenuta e gli attivisti decidono di scendere in campo anche come azionisti, con l’appoggio di Fondazione Finanza Etica.

I rappresentanti della campagna e la stessa Fondazione acquistano un numero simbolico di azioni di H&M e iniziano a studiare il regolamento assembleare del gruppo scandinavo e le norme del diritto societario svedese.
Scoprono presto che, in Svezia, è possibile presentare mozioni che richiedano il voto consultivo di tutti gli azionisti anche possedendo una sola azione. Si lavora quindi, alla stesura delle mozioni entro il termine stabilito (fissato per marzo, circa due mesi prima dell’assemblea).

La mozione della Clean Clothes Campaign (che sarà poi inclusa nell’annuncio di convocazione dell’assemblea come Item9b) chiede che tutti i profitti realizzati nel 2018 dal gigante internazionale della moda siano destinati a un fondo speciale, da mantenere in vigore fino a quando i salari dei lavoratori non siano almeno pari al livello di un salario dignitoso.

 

Con Shareholders for Change, 34.100 azioni critiche all’assemblea H&M

Anche Fondazione Finanza Etica presenta una mozione. Lo fa assieme a Meeschaert Asset Management, una società di investimenti parigina che è tra i fondatori di SfC – Shareholders for Change e detiene 34.100 azioni di H&M. La mozione ha un taglio più istituzionale rispetto a quella di CCC.

Anche Fondazione e Meeschaert Asset Management si concentrano sui diritti dei lavoratori, ma lo fanno in modo indiretto. Chiedono più trasparenza sui parametri di sostenibilità a cui sono ancorate le remunerazioni variabili dei top manager, che non sono resi noti dall’impresa.

A differenza di quello che accade in Italia, in Svezia non è prevista la possibilità di inviare domande all’impresa prima dell’assemblea e di ottenere risposte scritte entro il giorno dell’assemblea.
Tuttavia, grazie a un accordo informale tra gli azionisti critici e attivi e H&M, tale possibilità viene garantita in via eccezionale. Ad H&M vengono spedite nove domande a nome di Clean Clothes Campaign di SfC – Shareholders for Change (in particolare del membro svizzero della coalizione Forma Futura Invest AG).

Ulteriori domande sono sottoposte all’impresa il giorno stesso dell’assemblea, con una rappresentante di Meeschaert Asset Management a presentare e chiedere di votare per la mozione di Meeschaert e Fondazione Finanza Etica e due rappresentanti di Clean Clothes Campaign a presentare la mozione della campagna.

Le mozioni vengono entrambe respinte dagli azionisti. E nelle sue risposte l’impresa conferma un atteggiamento di chiusura.
Ma gli interventi di CCC e Shareholders for Change hanno comunque una portata storica: per la prima volta ONG e investitori istituzionali socialmente responsabili sono riusciti a presentare una mozione su temi sociali (diritti dei lavoratori) e di governance (trasparenza dei criteri di remunerazione) all’assemblea del gigante mondiale del fast fashion H&M.
Il percorso è stato difficile e accidentato e fino all’ultimo non è stato chiaro se le mozioni e le stesse deleghe degli azionisti (i biglietti di ingresso per partecipare all’assemblea) venissero accettate o meno.
Ma ora la strada è segnata e, nei prossimi anni, sarà molto meno complicato seguire tutte le procedure.

Prima dell’assemblea, gli attivisti di CCC hanno consegnato 180mila firme di consumatori, che chiedono migliori condizioni di lavoro presso i subfornitori di H&M, all’amministratore delegato della società Karl-Johan Persson.
Un’azione classica, comune a molte campagne, che si accompagna agl iinterventi dei rappresentanti della società civile come azionisti critici. Perché, come si è detto, quando si tratta di fare pressione sulle imprese, nessuna strategia si elide ma tutte si sommano per il raggiungimento di un unico obiettivo: ottenere ascolto e, possibilmente, incidere sulle strategie di gestione delle aziende.

 

Per le strategie di azionariato critico, cosa è e come funziona, si può leggere il nostro rapporto Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro. È il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.

L’azionariato critico

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Azionariato critico gli azionisti rompiscatole che migliorano l'etica delle aziende

Cosa è l’azionariato critico e perché migliora l’etica delle aziende

Le dimensioni e il ruolo della finanza sono diventati sempre più rilevanti negli ultimi anni.
Una delle conseguenze più evidenti di questa tendenza è la cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”.
Con questo termine si indica il progressivo trasferimento di risorse – e di potere – dall’economia produttiva verso i mercati finanziari. Il capitale azionario di un numero sempre maggiore di imprese è detenuto da investitori istituzionali, quali fondi pensione e di investimento, fondi hedge, private equity. L’obiettivo di questi soggetti non è lo sviluppo di lungo termine delle imprese ma la massimizzazione del profitto, in termini di dividendi e plusvalenza sui titoli detenuti. Per soddisfare le richieste di questi attori, quindi, i parametri di riferimento per i dirigenti delle imprese diventano l’aumento del prezzo dei titoli sui mercati finanziari e lo stacco di dividendi generosi, con obiettivi di breve periodo.

In termini più generali le imprese fanno sempre più l’interesse degli azionisti – shareholders – mettendo in secondo piano le aspettative di altri portatori d’interesse – stakeholders – come lavoratori, clienti, fornitori, comunità locali.
Se le conseguenze negative della “finanziarizzazione” sono evidenti, un uso responsabile degli strumenti finanziari può dare nuove possibilità per monitorare il comportamento socio-ambientale delle imprese e per fare pressione affinché siano rispettati i diritti umani e l’ambiente, messi in secondo piano in nome del profitto.

In molti Paesi, organizzazioni della società civile e reti di piccoli azionisti hanno dato vita a una nuova forma di intervento: l’azionariato critico.

Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi società multinazionali le violazioni dei diritti umani o le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte.
L’azionariato critico ha già dato risultati significativi.
Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti. Gli azionisti, infatti, in quanto “comproprietari”, acquistano il diritto di partecipare alla vita delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali che possano avere un impatto negativo sui risultati finanziari dell’impresa.
La grande sfida dell’azionariato critico è proprio questa: dimostrare alle imprese che se non si interessano sufficientemente alle conseguenze delle proprie azioni sul clima, sugli ecosistemi o sulle comunità di riferimento, la loro condotta potrebbe mettere in pericolo la stessa capacità di generare profitti per gli azionisti, a causa della sottovalutazione di rischi potenziali, possibili sanzioni, danni alla reputazione, e quindi al marchio che per molte società, in particolare quelle che si rivolgono direttamente ai consumatori, è uno dei beni più preziosi.

Inoltre, l’azionariato critico ha lo scopo di far capire agli amministratori che i “rompiscatole” sono fondamentali per mantenere vive le aziende, perché «nel cuore stesso delle organizzazioni c’è una lotta in corso tra coloro che cercano di affermare il potere e coloro che cercano di resistergli e forse distruggerlo. È questa lotta che dà alle organizzazioni un senso di vitalità e un impulso politico di rigenerazione».

 

Azionisti critici o attivi? Una differenza non solo formale

Mentre nel mondo anglosassone si usa generalmente il termine “shareholder engagement” per identificare tutte le iniziative di azionariato responsabile, in italiano si usano almeno due termini diversi, perché diversi possono essere gli attori, le condizioni di partenza, gli obiettivi, gli strumenti usati. In particolare si parla di “azionariato critico”, di cui tratta nello specifico questo rapporto, e di “azionariato attivo”.
In comune tra questi due concetti c’è il fatto di essere promossi da azionisti di una società, il desiderio di influenzare il comportamento di un’azienda di cui si possiedono azioni, l’idea di renderle più responsabili in termini ambientali, sociali e di governance (buon governo).
Ma ci sono anche molte differenze: nella scelta delle imprese con cui dialogare, nelle domande da porre in assemblea e non solo, negli obiettivi che si intende raggiungere.

In particolare, l’azionariato attivo ha lo scopo di migliorare ulteriormente il comportamento di imprese a cui viene spesso già riconosciuto un buon profilo di responsabilità sociale, che permette loro di essere selezionate, per esempio, all’interno dei portafogli di fondi comuni di investimento etici. Mentre l’azionariato critico è rivolto principalmente a imprese che sono accusate di gravi violazioni in campo socio-ambientale e di governance (per esempio per il sospetto coinvolgimento in casi di corruzione internazionale), e ha lo scopo di denunciare le conseguenze negative derivanti da tali comportamenti.
In Italia gli esempi più chiari di queste due strategie sono Fondazione Finanza Etica ed Etica Sgr.
Fondazione Finanza Etica promuove iniziative di azionariato critico dal 2007, acquistando un numero simbolico di azioni (spesso anche una sola) di aziende coinvolte in pratiche molto controverse che sono oggetto di campagne di associazioni ambientaliste, pacifiste o per la tutela dei diritti umani. Le azioni sono acquistate con il solo scopo di poter entrare a fare domande in assemblea e ottenere risposte come azionisti.
Etica Sgr, invece, investe attivamente (tramite i suoi fondi comuni di investimento etici) in imprese “buone”, selezionate in base a una serie di criteri ESG (ambiente, sociale, governance), di cui detiene consistenti pacchetti azionari.
Ecco come spiegano le due forme di azionariato responsabile i diretti protagonisti:

Aldo Bonati Etica Sgr  Aldo Bonati, Corporate engagement and networks manager di Etica sgr
«Le aziende con cui portiamo avanti attività di azionariato attivo sono presenti nel nostro portafoglio di investimento e, di conseguenza, hanno già superato una serie di selezioni. Per esempio escludiamo a priori aziende che producono armi, petrolio, tabacco. Sono quindi aziende che hanno superato un primo esame. Ma tutte hanno dei margini di miglioramento. Noi lavoriamo su questi, li individuiamo e poniamo delle domande al management, chiedendo anche modifiche e integrazioni nella strategia aziendale».

 

Andrea Baranes Banca Etica Andrea Baranes, già Presidente di Fondazione Finanza Etica e ora vice-presidente di Banca Etica.
«Fondazione Finanza Etica Utilizza l’azionariato critico come strumento per cercare di migliorare il comportamento di aziende che,a nostro avviso, non sono virtuose. Possiamo quindi parlare di vere e proprie critiche nei loro confronti. Scegliamo imprese che, in base alle nostre analisi e alle segnalazioni di realtà della società civile, hanno comportamenti altamente dannosi per l’ambiente o per i diritti umani. Imprese che costruiscono dighe con forti impatti sull’ambiente (come in passato Enel nella Patagonia cilena), che producono armi (come Leonardo e Rheinmetall), che continuano a estrarre petrolio (come Eni)».

 


In alcuni casi gli azionisti critici usano un linguaggio diverso, più aggressivo, rispetto agli azionisti attivi, che adottano un approccio più istituzionale. E, se necessario, accompagnano la partecipazione all’assemblea con manifestazioni o flash mob davanti alla sede dell’incontro o con l’esposizione di striscioni, in modo da attirare l’attenzione della stampa e degli altri azionisti.

 

 

Questo articolo ripende alcune pagine di Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro, il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.

 

Pastori, lupi e Black Rock

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Pastori, lupi e Black Rock

Ma se voi foste un pastore e durante la lunga giornata ai pascoli aveste necessità di assentarvi, chiedereste al lupo di prendersi cura del gregge ? Io credo proprio di no, giusto?
È un po’ quello che ha fatto l’Unione Europea attraverso la Direzione Generale FISMA, che ha assegnato l’incarico per uno studio sullo sviluppo di strumenti e meccanismi per l’integrazione dei fattori ESG nel Quadro della Vigilanza bancaria europea e nella Strategia del business bancario e delle politiche d’investimento niente di meno che a BlackRock.

BlackRock non è un gruppo musicale degli anni ’90, né una marca di profumo. È la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York. Gestisce un patrimonio totale di quasi 7.000 miliardi dollari, di cui un terzo in Europa.
Dal 1988 quando è stata fondata, Black Rock ha accresciuto la sua capacità finanziaria e di penetrazione in molti paesi del mondo, e anche la sua influenza.
Molti importanti investitori si affidano al sistema di analisi Aladdin della BlackRock Solutions. Diverse banche centrali come la Federal Reserve americana e la Banca centrale europea (BCE), i ministeri delle finanze e i fondi sovrani ricevono consigli dai loro esperti. BlackRock ha progettato il programma di cartolarizzazione dei prestiti della BCE quando la banca centrale aveva bisogno di competenze esterne. In Grecia e a Cipro BlackRock ha analizzato a fondo i bilanci delle banche, consigliando poi i governi. È intervenuta in Irlanda e Spagna in modo analogo.
Poi, improvvisamente nel 2020 nella sua lettera agli investitori, il CEO Larry Fink è stato folgorato sulla via di Damasco e ha maturato la svolta etica e green.

Fink (Black Rock) letter to investors

Il denaro che gestiamo non è nostro ma appartiene a persone che in dozzine di diversi Paesi si impegnano per finanziare progetti di lungo termine, come la pensione. Noi sentiamo una forte responsabilità”. Così inizia la sua lettera e prosegue con una professione di fede nella lotta al cambiamento climatico che “è divenuto per le società un fattore determinante da prendere in considerazione nell’elaborare le strategie di lungo periodo”. Molto bene, naturalmente.
Per inciso nella stessa lettera del 2019 neppure un cenno all’argomento, mentre il focus era scopo & profitto. “Lo scopo non è solo la ricerca del profitto, bensì la forza propulsiva per ottenerlo”.

Ma, come si è detto, BlackRock è molto influente e l’affidamento dello studio da parte della Commissione Europea sui fattori ESG alla società newyorkese lo dimostra.
A cosa serve questo studio? A definire come si integreranno i fattori rischio ESG nella gestione del rischio bancario generale a livello europeo e a integrare i rischi ESG nel sistema di vigilanza bancaria europea e nella strategia europea sul business bancario e sulle politiche d’investimento.

Diciamo, non proprio bruscolini in termini di regolamentazione europea nelle funzioni di controllo e di indirizzo del sistema bancario del continente.

Lo studio, per un valore di 550.000 € (noccioline per la BlackRock), deve realizzare:

  • un inventario di buone pratiche e principi per l’integrazione dei rischi ESG nei processi di gestione del rischio da parte delle banche a livello europeo e nell’attività di vigilanza europea
  • un’analisi su quali siano gli ostacoli allo sviluppo di un buon funzionamento del mercato europeo della finanza verde e degli investimenti sostenibili e, quindi, l’identificazione di strumenti e strategie di dimensionamento della finanza verde e del mercato per i prodotti finanziari sostenibili.

Il più grosso player nel settore della finanza (BlackRock) viene pagato dal regolatore (la Commissione Europea) per spiegare allo stesso come redigere normative che consentano al primo di fare al meglio i propri affari privati.

Cioè, il pastore dice al lupo: “ti lascio il gregge, pensaci tu”.
Il conflitto d’interesse è macroscopico e la caduta di credibilità della Commissione Europea e della sua Strategia sulla Finanza Sostenibile (che così tanto ha impegnato le istituzioni europee) sarebbe verticale.
Infatti, i due punti cardine di questa Strategia

verrebbero inficiati dallo svolgimento da parte di BlackRock di questa attività di consulenza.

Perché BlackRock è stato uno dei maggiori critici della normativa sulla Tassonomia della Ue e, dunque, ci si può domandare quale coerenza vi sia nel chiedere una consulenza su una parte fondamentale dell’agenda sulla finanza sostenibile al suo maggiore critico.
Inoltre, BlackRock è sostenitore dell’approccio alla finanza sostenibile che considera un solo lato della stessa, cioè l’impatto finanziario che i cambiamenti climatici possono avere sui conti delle aziende. Ma, come è noto, l’approccio della Commissione europea tiene sì in considerazione questo tema, ma lo bilancia considerando anche l’impatto che le imprese hanno sull’ambiente e sul cambiamento climatico.
La differenza di approccio non è meramente tecnica, bensì sostanziale.

È del tutto evidente l’incoerenza di un incarico così importante per la normativa e l’impianto stesso della Strategia europea sulla finanza sostenibile a un soggetto che si trova in così sostanziale distanza dall’impianto della stessa Strategia.

È del tutto verosimile che il lupo si mangerà gli agnelli e quando tornerà lo stolto pastore sarà ridotto in miseria.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Ecologia Integrale. Giustizia sociale e ambientale per contrastare le disuguaglianze.

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Ecologia Integrale: giustizia sociale e ambientale per contrastare le disuguaglianze

La crisi climatica rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo economico e un benessere equamente diffuso nel mondo.

La questione, oggi, non è se i cambiamenti climatici ci siano o meno e se la causa sia l’attuale modello di sviluppo basato sulle fonti fossili. Il 97% della comunità scientifica mondiale non ha dubbi. Il problema vero è se sia sufficiente sostituire il “propulsore energetico” dello sviluppo e quanto tempo abbiamo per intervenire, sapendo che la crisi climatica è una di quelle grandi questioni umane che non può essere affrontata con la guerra, ma, al contrario, ha bisogno della cooperazione di tutti, stati e persone. E proprio qui sta la grande opportunità, perché serve una visione lungimirante che orienti le scelte da mettere in campo subito e serve la partecipazione consapevole delle persone.

In un recente studio della Stanford University sono stati intrecciati i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 e il 2010. È risultato che tra i paesi più poveri il Pil pro capite si è ridotto tra il 17% e il 31% per effetto del riscaldamento globale. Dividendo, poi, tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si vede che tra il primo e l’ultimo gruppo il divario economico oggi è del 25% maggiore di quello che ci sarebbe stato in assenza del riscaldamento globale.
Risultati confermati dall’Onu, che parla di “apartheid climatico” nei confronti dei paesi più poveri perché la disuguaglianza sociale è destinata ad aumentare assieme alle temperature, con effetti devastanti su fame, povertà e migrazioni, che ad oggi sono l’unica politica di adattamento in campo: “Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà. La crisi ambientale potrebbe portare a oltre 120 milioni di indigenti in più entro il 2030 e avere l’impatto più grave nei paesi più poveri” (dichiarazione del relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà e i diritti umani, Philip Alston, giugno 2019).

Il contrasto alle disuguaglianze diviene, così, il nuovo fronte con cui il cambiamento ecologico si deve misurare. Non bastano l’innovazione tecnologica ed energetica, la mobilità sostenibile e l’economia circolare, le bonifiche e la difesa della biodiversità, se questi campi d’azione non si misurano con lo scoglio della giustizia sociale.

Oggi, senza attenzione al problema delle disuguaglianze, molte delle emergenze ambientali, a cominciare dalla lotta ai cambiamenti climatici, non hanno alcuna possibilità di essere affrontate con successo. Questo è vero non solo per i paesi poveri ma anche per i poveri dei paesi ricchi, quelli più esposti all’inquinamento, alle mancate bonifiche, alle ondate di calore, al degrado delle periferie, alla mancanza di servizi nelle aree interne, alle scuole insicure, al fenomeno della dispersione scolastica e della povertà educativa, alla fatiscenza del trasporto pubblico, al consumo di cibo scadente, alla convivenza con inquinamenti puntiformi come le mini discariche, all’espulsione verso le cinture metropolitane. Sono quelli esclusi dalle politiche di riqualificazione energetica e messa in sicurezza (come gli ecobonus) vincolate ai meccanismi della detrazione fiscale, che esclude le famiglie incapienti. Politiche incapaci di contrastare anche il nuovo fenomeno della povertà energetica, che, secondo i recenti dati di Banca d’Italia e Istat, in Italia colpisce l’11,7% della popolazione, ovvero più di 9 milioni di persone, a cui dobbiamo aggiungere i migranti espulsi dal sistema di accoglienza, i così detti clandestini, almeno altre 600.000 che abitano il nostro territorio in condizioni di estremo disagio.

A tutto ciò si aggiunge che il degrado ambientale genera nuova e ulteriore disuguaglianza sociale, perché impoverisce progressivamente il patrimonio di ricchezza comune e la qualità di vita a cui hanno accesso le persone e perché i costi della riparazione sottraggono risorse alla spesa pubblica e, quindi, riducono le disponibilità per il welfare. Inoltre, chi vive in aree a rischio o inquinate, se può, se ne va. Si determinano così nuove forme di segregazione nello spazio sociale e di vita, che provoca isolamento culturale e politico e crea nuove disuguaglianze tra territori.

Le diversità dei territori sono certamente una ricchezza per il paese, ma se sono provocate da povertà e distanza dai servizi essenziali, da degrado e inquinamento, producono nuove periferie, colpite da disuguaglianze sociali e culturali, di riconoscimento e di cittadinanza.
Periferie che possono anche collocarsi al centro della città storica, ma sempre sono segnate da una “lontananza” dal centro in quanto luogo metaforico della ricchezza, del benessere e del potere decisionale. E non ci sono solo le periferie, ci sono le terre di mezzo, aree ibride e vulnerabili, sospese tra sviluppo e abbandono, preda di paure e rancori. Perché i luoghi che non contano generano frustrazione e rabbia nelle persone che li abitano.

 

Più dimensioni

La novità grande rispetto al secolo scorso è che oggi ci dobbiamo misurare con la multidimensionalità delle disuguaglianze. Accanto a quelle di reddito e di ricchezza privata si sono consolidate disuguaglianze di genere, generazionali (come ben ci raccontano i Fridays for Future), territoriali e ambientali, di salute e di istruzione, di sicurezza e di speranza, di accesso alla cultura, alla mobilità, in una parola disuguaglianze di ricchezza comune che generano disuguaglianze nell’autostima e nella sensazione di contare qualcosa nella società, nel potere di decidere, nella partecipazione democratica.

E oggi sta crescendo la consapevolezza che la riduzione delle disuguaglianze, per come si presentano nella loro multidimensionalità, è, come spesso ripete Carlo Borgomeo, “la condizione per lo sviluppo, non una sua conseguenza”.

Tutto ci dice che non si può avviare nessun programma di miglioramento della giustizia sociale se non si migliora anche la giustizia ambientale. E viceversa.

Per due motivi fondamentali. Oggi non basta più affrontare la redistribuzione della ricchezza (che facilmente decade in assistenzialismo), ma occorre intervenire con misure strutturali sulla pre-distribuzione, aggredendo i meccanismi che creano le disuguaglianze di ricchezza privata, e in questo diviene fondamentale migliorare il diritto di accesso per tutti alla ricchezza comune.

Contemporaneamente occorre garantire che gli interventi per la giustizia ambientale siano socialmente accettabili. Questa è la vera sfida del Green New Deal. Lo diceva Alex Langer, e lo conferma recentemente la rivolta dei gilet gialli, o la transizione ecologica sarà desiderabile o non ci sarà. O le persone che più sono state marginalizzate da questo sviluppo vedono nella transizione ecologica una speranza e un orizzonte di emancipazione e benessere, oppure saranno contro.
Farsi carico oggi dei costi della transizione per averne benefici domani è inaccettabile per chi già vive ai limiti della povertà. E, lo ripetiamo con don Milani, “dividere in parti uguali tra disuguali, accentua le disuguaglianze”. Tenere insieme giustizia ambientale e giustizia sociale è oggi la condizione per costruire nuovo benessere, nuovo ben vivere per tutti.

 

Vittorio Cogliati Dezza
Forum sulle Disuguaglianze e Diversità, già presidente di Legambiente

 

Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.

 

Foto di Free Photos

Riparare la nostra casa comune. Ecco i documenti dell’incontro di Assisi

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Riparare la nostra casa comune

L’enciclica Laudato Sì individua nella finanza una delle cause principali della crisi ecologica, sociale e culturale del nostro pianeta.
Come diffondere un modello finanziario alternativo?

La finanza etica si interroga, discute e propone concrete risposte alla crisi del sistema per l’appuntamento internazionale di novembre 2020 The Economy of Francesco.
Esperti del settore bancario e finanziario insieme a giovani economisti e ricercatori under 35 hanno lavorato insieme a moderatori esperti per proporre soluzioni concrete sui temi dell’ecologia integrale, finanza etica e sostenibile, giustizia globale e ambiente.

LEGGI  i risultati dell’incontro.