Il ricorso alle bombe a grappolo è una pazzia

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bombe a grappolo

Foto di S Pakhrin, Flickr

La Convenzione di Oslo ha messo al bando le bombe a grappolo nel 2008

Ci sarà pure un motivo per cui 111 Stati hanno ratificato la messa al bando di uso, detenzione, produzione e trasferimento di munizioni e submunizioni a grappolo (cluster bombs).

Si tratta della Convenzione di Oslo adottata il 30 maggio 2008 ed entrata in vigore il 1° agosto 2010. Il motivo è che queste “armi controverse” possono ferire o uccidere in modo indiscriminato o sproporzionato.
Insieme alle munizioni a grappolo, figurano in questa categoria mine antipersona, armi biologiche e chimiche e armi nucleari. Tutte bandite da specifici Trattati o Convenzioni internazionali.
A cui i paesi produttori (o ospitanti sul proprio territorio) di questo tipo di armi non hanno aderito. Fa, dunque, effettivamente specie che oggi si stia discutendo di trasferire munizioni a grappolo all’Ucraina. Per due motivi sostanziali.

Perché non vanno trasferite munizioni a grappoli in Ucraina

Il primo è che le cluster bombs, esattamente come le mine antipersona, vengono usate sul campo di battaglia, ma poi restano – in una percentuale abbastanza significativa, calcolata fra il 10% e il 40% – inesplose sul terreno. In questo caso, purtroppo, il terreno di battaglia è il territorio ucraino invaso dalla Russia.

Dunque, nell’auspicabile futuro di una cessazione delle ostilità, i primi a essere minacciati da queste armi sarebbero i cittadini ucraini che abitano e abiteranno questi territori.
Nella pratica utilizzare queste armi da parte dell’esercito ucraino, vuol dire mettere in conto che – oltre all’esercito russo durante la guerra – ci saranno vittime ucraine di queste armi controverse.È uno scambio cinico: morte di soldati russi e blocco dell’avanzata russa, per bambini, contadini, cittadini ucraini feriti, mutilati e morti nel dopoguerra.

Queste munizioni a grappolo non vengono, solitamente, usate per essere lanciate sul territorio dello Stato invasore. Se lo si facesse (o se questa fosse l’intenzione), ci troveremmo di fronte a una escalation della guerra e a una aggressione, uguale e contraria a quella subita dall’Ucraina da parte della Russia.

Il secondo motivo per cui il ricorso a queste armi controverse sarebbe inaccettabile è che il fatto che gli Stati Uniti d’America (come Russia, Cina, India, Pakistan, Brasile e diversi altri paesi) non abbiano ratificato la Convenzione, non consente alla NATO di utilizzare tali armi. O meglio, ciò non esime gli Stati che fanno parte della NATO e che hanno sottoscritto la Convenzione di Oslo, dall’opporvisi.
E questi Stati sono: Belgio, Bulgaria, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Islanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Spagna. Cioè 18 dei 26 Stati membri dell’Alleanza Atlantica.
A questi dovrebbero aggiungersi, pur non avendo diritto di voto, anche alcuni dei paesi fra gli Stati associati, che pure hanno ratificato la Convenzione: Albania, Austria, Croazia, Svezia, Svizzera.

La posizione dell’Italia sull’invio delle bombe a grappolo

Il Governo italiano – che certamente non è stato timido nell’invio di armi all’Ucraina (siamo arrivati al 6° decreto ministeriale) – ha schierato l’Italia contro l’invio di munizioni a grappolo all’esercito ucraino. Il nostro Paese, infatti, “aderisce alla Convenzione che vieta la produzione, il trasferimento e lo stoccaggio delle munizioni a grappolo”.
Di più: se andiamo a vedere le motivazioni di questa adesione nel sito del Governo Italiano leggiamo che l’Italia considera la Convenzione “una tappa fondamentale verso un aumento della sicurezza internazionale non solo per il ruolo che svolge nella promozione del disarmo, ma anche per il contributo che esso dà al rafforzamento del Diritto Internazionale Umanitario”.
L’Italia, che non ha mai prodotto questo tipo di armi, ha promosso “l’adesione universale a questo strumento”, che “appare ancora più urgente e necessaria alla luce dell’utilizzo presunto di questi ordigni in numerose aree di conflitto”.

C’è anche una storia e un impegno dell’Italia relativamente a diverse previsioni della Convenzione, come la cooperazione e l’assistenza fra gli Stati per eliminare le cluster bombs esistenti (art.6), l’assistenza alle vittime (art.5), l’educazione alla riduzione del rischio (art.4), che rende inconcepibile per l’Italia anche soltanto prendere in considerazione l’utilizzo di queste armi controverse da un’alleanza militare alla quale pure partecipa.

La legge per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di bombe a grappolo

Tanto è che con Legge 9 dicembre 2021, n.220, l’Italia ha dettato le misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici ed esportatrici di munizioni e submunizioni a grappolo (oltre che di mine antipersona). Ogni intermediario finanziario di questo paese ha dovuto adottare dei presidi di controllo interni per escludere queste imprese da ogni forma di rapporto finanziario con esse.

Una legge tanto opportuna quanto estesa nei suoi effetti. Perché coinvolge ogni tipo di intermediario finanziario, ogni tipo di supporto finanziario (“effettuato anche attraverso società controllate, aventi sedi in Italia o all’estero” v. art.2) ed esclude dal finanziamento “società in qualsiasi forma giuridica costituite, aventi sede in Italia o all’estero, che direttamente o tramite società controllate o collegate”, svolgano qualsiasi attività di produzione, costruzione, sviluppo, assemblaggio, riparazione, stoccaggio, importazione o esportazione di queste armi o parte di esse.

Questo significa che potrebbero essere molte le imprese, anche di paesi che hanno aderito alla Convenzione, che realizzano parti di queste armi. Tipicamente potrebbero realizzare il contenitore, il vettore, che trasporta al proprio interno decine e centinaia di submunizioni a grappolo.
Ecco, in questo caso, le aziende non potrebbero dire – come ha fatto Leonardo SpA con la sua partecipazione al consorzio MBDA che realizza il vettore del missile a testata nucleare francese – che non è coinvolta nella realizzazione di armi controverse.

Facciamo un esempio concreto. Il Canada ha ratificato la Convenzione di Oslo sul bando delle munizioni a grappolo. Eppure la società canadese Magellan Aerospace Corporation produce il missile CRV7 che può trasportare testate con capacità di trasporto di munizioni a grappolo. Ecco, questo tipo di aziende non potrebbero essere finanziate da nessun intermediario finanziario in Italia.

Quale alleanze militari e quali condizioni di parità con gli altri Stati

Questa vicenda ci dice qualcosa sul tipo di alleanza militare nella quale ci troviamo (NATO) e le “condizioni di parità con gli altri Stati”, conditio sine qua non per consentire le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, che pure il co.2 dell’art.11 della Costituzione prevede.
Ma ci dice molto anche sulla follia della guerra, di qualunque tipo essa sia e ovunque siano le ragioni delle parti in conflitto.

È il solito paradosso della guerra che Joseph Heller ha così ben sintetizzato in Comma22:

Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo

Cioè chi è pazzo può chiedere di avere munizioni a grappolo per difendersi, ma chi costruisce munizioni a grappolo non è pazzo.

 

Simone Siliani
direttore Fondazione Finanza Etica

La guerra non è un pranzo di gala

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Foto di Антон Дмитриев su Unsplash

 

In risposta all’articolo di Repubblica di Gianluca Di Feo sulle armi italiane e la guerra in Ucraina

 

Cari amici di “Repubblica”, caro Gianluca Di Feo, la guerra non è un pranzo di gala, né tanto meno uno scherzo! Ci meraviglia che voi, che più di ogni altro giornale avete sponsorizzato l’invio di armi in Ucraina, oggi [5 luglio 2023, ndr] ve ne uscite con questa “clamorosa” scoperta che le fabbriche di armi italiane – in questo caso RWM Italia SpA – abbiano ritrovato nuove commesse per i loro “prodotti” e, dunque, nuova floridità economica.

Noi, invece, da anni andiamo dicendo che la produzione di armi prepara e rende possibili nuove guerre e che queste, a loro volta, alimentano nuova domanda di armi. E anche operando, visto che il nostro Gruppo Banca Etica ha escluso le armi dal proprio universo investibile e i loro produttori da ogni possibilità di operatività bancaria. È questa la vera economia circolare.

Peccato questa economia di fabbriche di armi abbia come effetto collaterale fisiologico la morte delle persone, militari e (sempre di più) civili. Ma per chi è incurante di questi effetti collaterali, la guerra è un affare come un altro che, in fondo, fa girare l’economia, produce PIL e, soprattutto, copiosi dividendi. Per noi, invece, la cosa più importante sono gli effetti collaterali.

La produzioni di armi nello stabilimento RWM Italia

Tornando a RWM, Fondazione Finanza Etica svolge da qualche anno attività di azionariato critico su Rheinmetall, il colosso tedesco degli armamenti che, con il 98% delle azioni, è il vero proprietario di RWM Italia. Abbiamo interrogato, esercitando i nostri diritti di azionisti, in questi anni Rheinmetall sulle attività di RWM, sia sulle bombe vendute all’Arabia Saudita e utilizzate in Yemen, sia su quelle vendute all’Ucraina.  Perché per noi le bombe non hanno colore: sono sempre sbagliate e difficilmente possono essere considerate armi difensive. Così come abbiamo chiesto informazioni sulle vicende giudiziarie che hanno bloccato l’allargamento dell’impianto di Domusnovas-Iglesias. Le risposte di Rheinmetall sono state vergognosamente evasive e fuorvianti, non degne di una grande impresa che si è dotata pure di un Codice Etico che contiene principi etici «di legalità, integrità, trasparenza, correttezza, riservatezza, efficienza, spirito di servizio, …tutela dell’ambiente, della sicurezza e della salute, rispetto dei diritti altrui».

Per esempio, quest’anno Rheinmetall ha dichiarato che nel 2022 RWM Italia non ha venduto armi all’Ucraina. Ma poi dice che le «attrezzature per la difesa» vendute all’Ucraina consistono in «bombe d’aereo, mine navali, siluri riempiti». Ma non hanno voluto dire per quale valore economico.


Allora abbiamo chiesto notizie sui due sistemi Skynex che Rheinmetall consegnerà all’Ucraina e prodotti nello stabilimento di Roma, ma sviluppati da Rheinmetall Air Defence con sede a Zurigo entro la fine del 2023, come dichiarato dal portavoce dell’azienda Oliver Hoffmann. Questi sistemi sono sviluppati in Svizzera, dove vige un divieto di esportazione di materiale bellico a Kiev, e portati a Roma dove sono assemblati e dall’Italia esportati in Ucraina: è questo un modo per aggirare il divieto vigente in Svizzera? Per noi, ovviamente, sì, come per ogni persona dotata di logica. Per Rheinmetall no perché, ci garantisce, «Rheinmetall svolge sempre le sue attività in coordinamento con le autorità e non ci sono restrizioni da parte dell’Italia per la consegna dei due sistemi Skynez». Che è, in parte, una non-risposta alla nostra domanda e dall’altra una tautologia.

Le vicende giudiziarie sull’ampliamento dell’impianto di Domusnovas

Le risposte sulla questione, accennata anche da Di Feo, sulle vicende giudiziarie legate all’ampliamento dell’impianto produttivo di Domusnovas sono invece sconcertanti.

Avevamo già interpellato Rheinmetall lo scorso anno chiedendo se le autorizzazioni concesse per l’ampliamento dell’impianto, sottoposte a processo per irregolarità e bloccate in prima istanza, non fossero un rischio di perdita economica, reputazionale e produttivo per la società. La società ha risposto che «Il procedimento amministrativo non è ancora concluso. Il tribunale ha solo stabilito che alcuni aspetti della valutazione di impatto ambientale devono essere aggiornati».

Il 10 novembre 2021, il Consiglio di Stato, l’ultima istanza della giustizia amministrativa in Italia, ha accolto il ricorso presentato da associazioni ambientaliste, stabilendo che le autorizzazioni concesse erano illegittime. Il ricorso contro la sentenza presentato da RWM Italia è stato nuovamente respinto dal Consiglio di Stato nel febbraio 2022. Per questo abbiamo chiesto per quale motivo la società continuasse a ignorare il problema.

Inoltre, i dirigenti di RWM Italia sono stati mandati a processo penale per falso, avendo firmato le autorizzazioni per l’ampliamento dello stabilimento in Sardegna, nonostante le sentenze del tribunale amministrativo: nel marzo 2023 il Tribunale di Cagliari ha condannato i dirigenti RWM per falso e abuso edilizio. Lo scorso anno Rheinmetall aveva rubricato tutti questi fatti, giudiziariamente stabiliti, come «accuse di violazioni minori». Alla luce delle condanne intervenute nel 2022 e 2023, Rheinmetall  risponde: «Avete posto numerose domande su vari procedimenti perseguiti dagli oppositori degli armamenti in Italia».

Di chi parlano? Qui ci sono tribunali italiani che emanano sentenze, non pacifisti sfegatati. Immaginiamo che anche in Germania funzioni così.

Prosegue Rheinmetall: «Non condividiamo la valutazione che la situazione sia peggiorata nel frattempo: restiamo convinti che né condanne penali né limitazioni definitive alla costruzione emergeranno dai procedimenti». Ma cosa vuol dire? La condanna definitiva del Consiglio di Stato non è forse già stata stabilita? La condanna per falso e abuso edilizio non è una condanna penale? O forse stanno dicendo che nonostante queste condanne l’azienda andrà avanti lo stesso, senza colpo ferire? Oppure le considerano ottusi impacci burocratici all’impetuoso e inarrestabile sviluppo produttivo di RWM?

Insomma l’arroganza di Rheinmetall è pari solo all’ottusa sicumera di potersene infischiare della legge.

Dal suo canto Di Feo su Repubblica racconta che RWM ha fatto un investimento di 50 milioni di euro per costruire  un secondo impianto in Sardegna: ma «dopo averlo terminato, il Consiglio di Stato ha però ritenuto insufficienti i permessi già rilasciati da Comune e Regione imponendo ulteriori autorizzazioni». Ma le cose non stanno così: dichiarando il falso e compiendo un abuso edilizio, i dirigenti di RWM hanno proseguito la costruzione dell’impianto nonostante il Tribunale amministrativo avesse già sospeso le autorizzazioni rilasciate; che, evidentemente, possono essere impugnate solo dopo che sono state concesse, non prima. Così come Di Feo racconta che RWM dà lavoro a 480 persone, mentre a Domusnovas-Iglesias lavorano solo 98 persone a fronte di una popolazione sarda di 1,5 milioni di abitanti. E RWM si è definita nelle sue risposte “un importante datore di lavoro in Sardegna”.

Solo la pace è fautrice di sviluppo

C’è in Italia e in Europa una spinta fortissima al riarmo, che si nutre di governi di destra “collusi” con i produttori di armi, di opposizioni di sinistra culturalmente conquistate alla logica della guerra. E che hanno perduto il senso dell’identità di sinistra, che si fonda sull’idea che solo la pace è fautrice di sviluppo. Così come di un sistema mediatico e dell’informazione che ha dimenticato il ruolo di “cane da guardia” del potere che la migliore tradizione del giornalismo indipendente aveva costruito in decenni di libero esercizio della professione; di una intellettualità afona; di un sistema finanziario famelico che, incurante della funzione sociale che il risparmio dovrebbe esercitare secondo la nostra Costituzione, si fa guidare esclusivamente dalla fame di dividendi.

Può essere fermata questa follia che sta portando il mondo in mezzo a conflitti e guerre locali che non aspettano altro che nuove armi per scalare la dimensione e la pericolosità? Lo potranno fare solo i cittadini che alzeranno la voce, gli istituti finanziari che prenderanno coraggio e rifiuteranno di finanziare le armi; gli intellettuali ritroveranno la parola libera e diranno che c’è un’alternativa; i lavoratori che rifiuteranno di costruire e imbarcare le partite di armi per i paesi in guerra o che violano i diritti umani (come avvenuto a Livorno e a Genova) e i sindacati che li difenderanno; i partiti e i parlamentari che non si omologheranno al pensiero unico della guerra; le religioni che escluderanno i fabbricanti di morte dalle loro comunità.

È possibile, ancora. Noi siamo qui, per questo.

 

Simone Siliani
direttore di Fondazione Finanza Etica