La globalizzazione dell’idiozia

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La globalizzazione dell’idiozia

 

Le élite economiche si sono riunite a Davos nel gennaio di quest’anno: i presidenti dei maggiori governi del mondo, il FMI, la Banca Centrale Europea, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’OCSE, e una lunga lista di altri in cui potremmo dire che fosse rappresentata l'”intelligenza” economica globale. Ci sono state molte discussioni, riflessioni profonde e scambi vivaci. La verità è che non ne hanno azzeccata una. Una piccola entità che non non riesce nemmeno a rimanere in vita emette previsioni inutili.

Un giorno ho letto che un astrologo argentino aveva previsto la pandemia e disse che sarebbe finita a giugno. Ho decisamente molta più fiducia nell’astrologo che nell’intero gruppo di cui sopra. Ho ancora più fiducia in una scimmia che tira freccette verso un bersaglio. Questa è la mia prima conclusione sulla questione del coronavirus.

La seconda conclusione è che l’attuale pandemia è il risultato del nostro sistema economico. In numerosi articoli di virologi, biologi, epidemiologi, la progressiva invasione degli spazi naturali è indicata come la causa di questa pandemia: deforestazione, attività estrattive, e in questo caso, il commercio degli animali selvatici. Tutti concordano sul fatto che l’attività umana provoca alterazioni negli ecosistemi, cosicché i virus, più o meno controllati in ambienti incontaminati, a causa dell’azione invasiva dell’uomo passano dall’animale ospite all’uomo stesso.

Intendo dire che la seconda conclusione è che questa situazione è stata causata da un sistema che cerca solo di massimizzare i profitti anche a costo di alterare, come in questo caso, gli ecosistemi naturali con gravi conseguenze.

In terzo luogo penso che, al di là di molti temi scritti sul virus, come la necessità della solidarietà per superare la crisi, le conseguenze economiche, la questione della limitazione della libertà individuale per motivi di salute, ecc., per me la questione più importante è che il sistema attuale rappresenta una minaccia alla sopravvivenza della specie. Questo virus, per esempio, non porterà alla fine del mondo, ma se seguiamo il percorso tracciato de quelli di Davos nessuno può assicurarci che un altro virus molto più letale e contagioso metterà fine a tutto. Sembra apocalittico, ma qualcuno avrebbe immaginato qualche mese fa che per andare al supermercato avremmo dovuto stare a un metro di distanza, che saremmo stati confinati in casa e che la gente avrebbe indossato delle mascherine per strada?

Come dicono sempre giustamente le eco-femministe, il sistema attuale è nemico della vita. Semplicemente lo distrugge. Che si tratti di cambiamenti climatici o di pandemie, il messaggio è sempre lo stesso, la distruzione della vita da parte del sistema economico.

Per tutte queste ragioni, e tornando alle élite, si può dire che lavorare instancabilmente ed efficacemente per distruggere il proprio mondo non sembra intelligente, ma piuttosto una cosa idiota. È vero che forse il virus, che capisce di classi sociali, non le colpirà così tanto – mi viene in mente la foto di un noto calciatore che dice “resta a casa” nella sua piscina riscaldata – ma in realtà questa pandemia, in cui si scopre che tutto è interconnesso, è anche una minaccia per il mondo.

“Oggi le disuguaglianze stanno esplodendo. Siamo minacciati ovunque da disastri politici e catastrofi ambientali. E non abbiamo nulla da opporre a tutto questo se non banalità”. Una frase che riassume ciò che sto dicendo. Lo dice il premio Nobel per l’economia Esther Duflo.

In quarto luogo, un’altra riflessione causata dalla situazione attuale è la strana percezione dell’artificiosità del mondo in cui viviamo. Lavoriamo a pieno ritmo, viaggiamo, partecipiamo a mille attività mentre il mondo si sta inesorabilmente deteriorando. C’è una sorta di accelerazione nevrotica nella società, in cui la maggior parte delle cose che facciamo non sono essenziali. In questi giorni dobbiamo stare a casa. E a volte stare a casa è molto più trasformativo che passare tutto il giorno a cercare di trasformare (guarda l’inquinamento, per esempio). Kafka diceva sempre “resta nella tua stanza… e il mondo cadrà ai tuoi piedi”. Credo che questa accelerazione riguardi anche noi della finanza etica. Forse dovremmo pensare a fare meglio (viaggiare di meno, per esempio).

A proposito di finanza etica, a Fiare Banca Etica stiamo lavorando per cambiare le cose, cercando di creare un mondo più giusto e sostenibile. C’è un elemento nel nostro modello di finanza etica, che mi sembra essenziale anche in questa situazione. Siamo una banca unica al mondo nel nostro modello partecipativo. Invitiamo la nostra base sociale a partecipare, non solo internamente nella governance della banca, ma anche all’esterno, cercando di convincere la società che la nostra opzione è la migliore, facendo advocacy politica, cercando di costruire cittadinanza, influenzando il pubblico.

Recentemente, uno dei giovani che formano il gruppo Generazione X Fiare mi ha detto che uno dei progetti del gruppo dovrebbe essere quello di influenzare le politiche della banca. Gli ho detto che è senz’altro una buona idea, ma che la cosa più importante, secondo me, è influenzare le politiche del mondo, cioè andare nel mondo e cambiarlo. Spesso dimentichiamo questa dimensione verso l’esterno della partecipazione, ma è uno degli elementi più importanti della nostra banca. E certamente più che mai nella situazione attuale.

Alcuni articoli sull’argomento

 

Intervista con l’esperto in “ecologia della malattie” Peter Daszak  (in spagnolo).

Ricerca dell’Università La Sapienza che mette in relazione il fenomeno della diffusione delle malattie infettive con l’azione dell’uomo sulla natura.

COVID-19 e i percorsi del capitale (in spagnolo)

Traduzione in spagnolo di un articolo sull’influenza del sistema capitalistico globale su una nuova epidemia virale; in questo caso, il coronavirus in Cina. È stato originariamente pubblicato il 6 febbraio 2020 sul sito web di Chuang da un gruppo di comunisti cinesi che criticano sia il “capitalismo di stato” del Partito comunista cinese che la versione neoliberale dei movimenti di “liberazione” di Hong Kong.

 

Albert Gasch, responsabile delle Relazioni Associative di FIARE Banca Etica, Spagna

 

Foto di Christopher Burns su Unsplash

 

 

L’addio di Generali al carbone

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L’addio di Generali al carbone

 

Nel novembre del 2018 esce una notizia «piacevolmente sorprendente»: le assicurazioni Generali hanno seriamente deciso di dire addio al carbone.

«Ci sono voluti due anni di campagna di pressione condotta da Greenpeace e Re:Common, promotrici di azioni e appelli pubblici e protagoniste di accalorati interventi all’assemblea degli azionisti della società, ma il risultato è senza dubbio di portata storica».

Così scrive Luca Manes di Re:Common su Valori.it.

Nell’aggiornamento della sua “Strategia sui cambiamenti climatici”, Generali ha infatti introdotto un piano operativo che punta a ridurre in maniera significativa la sua esposizione verso il carbone, in fase di dismissione in vari paesi europei. La società ha ufficializzato che non fornirà più coperture assicurative per la costruzione di nuove centrali a carbone, senza alcun tipo di eccezione. Non accetterà neanche come nuovi clienti società attive nel comparto carbonifero.
Dal lato investimenti, Generali si libererà completamente delle sue partecipazioni azionarie nel settore del carbone entro l’aprile del 2019. Progressivamente lascerà anche quelle obbligazionarie, portandole a scadenza e addirittura valutando la possibilità di dismetterle anticipatamente.

«Il lavoro di Greenpeace e Re:Common, sostenuto dagli attivisti che in questo lasso di tempo hanno partecipato ad azioni in varie località italiane, ha convinto Generali a fare un importante passo in avanti sul tema della tutela ambientale», continua Manes.
Un lavoro di cui sono stati parte integrante gli interventi degli azionisti critici in assemblea, mobilitati da Re:Common: Grassroots Foundation (Polonia), Greenpeace, DKA (Germania), We Move, e altri. All’azione si è aggiunta Fondazione Finanza Etica, che ha posto domande anche in rappresentanza della rete europea di azionisti attivi SfC – Shareholders forChange, con 162.000 azioni.

L’azione critica degli azionisti è continuata anche nell’assemblea del 2019, per testare sul campo gli impegni presi dalla società nel novembre dell’anno prima. È stata anche richiesta maggiore decisione nel raggiungimento degli obiettivi dichiarati.

Anche nel caso di Generali, l’azionariato critico è stata una delle tante azioni che hanno convinto la società a cambiare strategia. È un’azione complementare che, come si è visto, porta il confronto con le imprese a un livello nuovo, senza però sostituirsi alle altre strategie.

 

Per le strategie di azionariato critico, cosa è e come funziona, si può leggere il nostro rapporto Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro. È il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.

La stagione dell’azionariato critico della Fondazione per il 2020

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La stazione dell'azionariato critico della Fondazione per il 2020

In questa stagione di azionariato critico 2020 causa della pandemia le assemblee saranno in remoto. Fondazione Finanza Etica ha scelto comunque di utilizzare gli spazi esistenti per l’engagement.

 

L’azionariato critico durante la pandemia Covid-19

A causa della crisi determinata dalla pandemia da Covid-19, le assemblee degli azionisti si svolgeranno tutte in remoto. Non ci sarà la possibilità di intervenire fisicamente e di persona in assemblea da parte degli azionisti.
Le modalità di partecipazione dipenderanno dalle legislazioni e dalle normative d’emergenza emanate dai diversi paesi sedi delle imprese: Italia, Germania, Svezia nei nostri casi. Si parteciperà attraverso soggetti delegati che “portino la voce” di tutti gli azionisti; oppure con la presentazione di domande a risposta scritta da presentare prima dello svolgimento dell’assemblea.

L’espressione di voto degli azionisti avverrà in remoto, attraverso il rappresentante designato (individuato dall’azienda, sulla base della normativa italiana) o la banca depositaria delle azioni (Svezia).

Saranno assemblee asettiche. Si riduce le possibilità di interlocuzione diretta del management  l’attenzione dei media sulle stesse tematiche sollevate dagli azionisti critici e anche la dinamica fra gli azionisti e fra questi e la direzione dell’azienda.

In questa situazione Fondazione Finanza Etica ha scelto comunque di utilizzare gli spazi esistenti per continuare l’engagement. Approfondiremo le tematiche già sollevate negli anni passati:

  • impegno sui cambiamenti climatici e divestment,
  • politiche eque e trasparenti di remunerazione del management,
  • politiche fiscali dell’azienda

Solleveremo questioni nuove, in particolare l’impatto che la pandemia e le sue conseguenze economiche produrranno sulle attività tipiche delle aziende.

 

Le domande per la stagione assembleare 2020

Di seguito alcune delle domande e delle problematiche che, per ciascuna delle 7 aziende ingaggiate dalla Fondazione, saranno sollevate durante la stagione assembleare 2020.

ENI

ENI AGM 2015

Insieme a Enel, Eni è la veterana del nostro azionariato critico, iniziato nel 2008.

Quest’anno ci concentriamo – insieme a Re:Common e a Greenpeace – sulla strategia di abbattimento di emissioni di gas serra pari all’80% al 2050 contenuta nel Piano strategico.

La indeterminatezza degli interventi che Eni dichiara di voler mettere in atto non fa altro che mostrare che il vero obiettivo del Piano è la corsa all’aumento della produzione di idrocarburi (petrolio e gas) per i prossimi sei anni (2020 – 2025), con una crescita media annua del 3,5% all’anno e una crescita in termini assoluti del 23% fino al 2025.
Da quella data si avvierà una graduale diminuzione della produzione, con progressiva sostituzione del petrolio con il gas e l’orientamento di parte degli investimenti verso altri business: rinnovabili, distribuzione di energia nel mercato retail, bio-raffinerie, ecc.).

Rimandare l’adozione di misure di drastica riduzione delle emissioni di gas serra di sei anni è incompatibile con la gravità e l’urgenza dell’emergenza climatica in corso.

Eni non rende noti gli obiettivi di riduzione delle emissioni nel breve-medio periodo.
Eni pone molta enfasi alla riduzione del petrolio a favore del gas, il cui presunto maggiore contributo alla riduzione delle emissioni rispetto al petrolio, e allo stesso carbone, è discutibile e messo in discussione da numerosi studi.
Sono forniti obiettivi di assorbimento della CO2 tramite progetti di conservazione forestale (REDD+) al 2025, 2035 e 2050. Tuttavia, non sono forniti dettagli su alcun progetto di conservazione e non si spiega a che punto siano le “collaborazioni” con i governi citati, per lo più africani.

Anche per i progetti di assorbimento della CO2 tramite CCS (Carbon Capture e Storage), una tecnologia ancora immatura sulla quale però Eni proietta obiettivi molto ambiziosi, sono molto vaghi. Il primo di questi, a Ravenna, partirebbe non prima del 2025.

Ogni piano di seria risposta ai cambiamenti climatici da parte di Eni viene spostato in avanti di sei anni, mentre ci troviamo già adesso nel mezzo di un’emergenza straordinaria che non ammette esitazioni nelle risposte.

Assicurazioni Generali

L’addio di Generali al carbone

Dopo i primi due anni di azionariato critico, la compagnia assicurativa triestina ha compiuto significativi passi avanti nella strategia di disinvestimento da imprese del settore delle fossili, dell’engagement con imprese dell’Europa dell’est ancora investite operanti nel settore nonché del disimpegno da contratti assicurativi rispetto a impianti e attività estrattive svolte da società del carbone.

Quest’anno l’azionariato critico di FFE si concentra sull’esistenza all’interno del Gruppo di diverse società con sede in paesi, europei ed extra-Ue, che si trovano ai primi posti nell’indice di opacità finanziaria (Financial Secrecy Index) dell’ONG Tax Justice Network.
In tutto si tratta di 56 società in Lussemburgo, Svizzera, Irlanda, Singapore, Isole Vergini Britanniche, Hong Kong, Olanda.
La Fondazione chiede a Generali l’ammontare dei profitti generati da queste imprese, il numero dei dipendenti, la tax rate media pagata per tali profitti e il ruolo che tali società svolgono all’interno del Gruppo.

Vogliamo capire se tali società abbiano un ruolo chiave in eventuali pratiche di elusione fiscale che riteniamo ingiuste in sé, perché sottraggono risorse al welfare di molte nazioni, ma anche rischiose perché espongono la società a possibili sanzioni da parte delle autorità fiscali.

H&M

H&M AGM 2019

La società svedese leader nel settore dell’abbigliamento low cost, oggetto di engagement fin dallo scorso anno, insieme alla Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti Puliti),  sui temi dei diritti dei lavoratori e della equa retribuzione lungo tutta la catena di fornitura, quest’anno sarà interrogata anche sulle politiche di retribuzione del CEO attraverso una mozione presentata da Fondazione Finanza Etica, che sarà posta in votazione nell’assemblea degli azionisti.
Sarà chiesto di rendere pubblici gli obiettivi quantificabili di sostenibilità che il management deve raggiungere per determinare una parte della retribuzione, nonché la percentuale della componente variabile rispetto a quella fissa della stessa retribuzione.

Riteniamo  che sia fondamentale la trasparenza sulle politiche di remunerazione dei manager, in particolare in questo periodo di crisi nel quale a moltissimi lavoratori e cittadini sono chiamati a fare ingenti sacrifici. E riteniamo fondamentale che le remunerazioni dei manager delle grandi società quotate siano legati a obiettivi di sostenibilità. Su questo H&M non è assolutamente trasparente e continueremo a fare pressione sulla società per ottenere informazioni chiare.

ENEL

Azionariato critico Enele

Facciamo pressione sugli amministratori di Enel dal 2008.

Negli anni abbiamo criticato i piani della società sul carbone e il nucleare, insieme a Greenpeace Italia e Re:Common, e ci siamo opposti al progetto per la costruzione di cinque grandi dighe in un’area incontaminata della Patagonia cilena.

Dal 2008 Enel è molto cambiata, in particolare con il passaggio di consegne dal precedente amministratore delegato Fulvio Conti all’attuale CEO Francesco Starace (nominato nel 2014). Francesco Starace ha impresso una svolta storica alla società, abbandonando per sempre i piani di sviluppo di carbone e nucleare del suo predecessore e puntando tutto su una rapida transizione alle energie pulite. Questo è avvenuto anche grazie alla pressione degli azionisti critici.

Nonostante Enel si sia avviata su un percorso di profondo rinnovamento, i problemi però non mancano. E, soprattutto, la transizione deve essere continuamente monitorata, per assicurarsi che gli obiettivi intermedi, di volta in volta fissati, siano rispettati. È quello che cerchiamo di spiegare, con meno successo, anche ad Eni: ben vengano piani di decarbonizzazione completa (o quasi) al 2030 o al 2050, ma servono anche obiettivi anno per anno, per permettere agli azionisti di misurare progressi concreti e progressivi.

Ad Enel chiederemo  a che punto sia la transizione, in particolare in Spagna e in Cile, dove l’uscita dalle centrali a carbone non sembra andare come previsto.

E faremo domande sulla parte di ricavi e profitti che la controllata Enel Distribuzione ottiene dai cosiddetti “oneri di dispacciamento” (per la gestione delle reti elettriche) in bolletta, che per molti osservatori sarebbero ingiustificatamente elevati e permetterebbero alla società di fare dumping sui prezzi di altri servizi, buttando fuori mercato altri piccoli e medi operatori.

 

Rheinmetall

Partecipiamo all’assemblea di Rheinmetall, gigante tedesco degli armamenti, dal 2017, su proposta della Rete Italiana per il Disarmo, di cui la nostra Fondazione fa parte.

In Sardegna Rheinmetall produce, attraverso la controllata RWM Italia, le bombe che sono esportate all’Arabia Saudita e sono utilizzate per bombardare lo Yemen. Una guerra che sta durando da 5 anni, senza alcuna legittimazione internazionale e ha provocato migliaia di vittime tra i civili, tra i quali tantissimi bambini.


La società non ha mai dimostrato segni di apertura.
Nel frattempo il governo italiano ha sospeso le esportazioni, almeno fino al luglio del 2020 anche se non sappiamo cosa succederà dopo l’estate.
Per questo torneremo, virtualmente, in assemblea per capire meglio come si è concretizzata la sospensione dell’export e della produzione e se riprenderà dopo l’estate.
Assieme ai movimenti pacifisti tedeschi inizieremo inoltre a fare pressione sui grandi azionisti di Rheinmetall, tra cui il fondo sovrano norvegese, che investe 117 milioni di euro nella società (il 2,57% del capitale totale). A loro chiederemo di disinvestire da Rheinemtall: se la società non ci risponde, non ci resta che cercare di convincere i suoi azionisti a ritirare i propri investimenti, per motivi etici.

Acea

Partecipiamo all’assemblea di Acea dal 2017, insieme all Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua.
Alla società e al suo azionista di maggioranza (il Comune di Roma) abbiamo chiesto, sin dall’inizio, di rendere effettivo il risultato del referendum del 2011 sull’acqua pubblica. La controllata Acea Ato 2, che gestisce l’acqua a Roma e provincia, viene letteralmente spremuta da Acea, risparmiando (come si è visto) sugli investimenti e aumentando i costi dell’acqua in bolletta.

Siamo convinti, assieme ai milioni di italiani che hanno portato al successo del referendum, che l’acqua sia un bene comune e non debba essere sfruttato per produrre profitti da distribuire in borsa, tra gli altri alla famiglia Caltagirone e al gigante francese Suez.

Quest’anno torneremo in assemblea, che non è ancora stata fissata.
Chiederemo quali e quanti investimenti siano stati effettuati dopo la grave siccità del 2017, che portò alla luce perdite della rete idrica, per rotture o allacci abusivi, pari al 40% del volume totale di acqua distribuita. A che punto siamo oggi?
Cercheremo inoltre di capire se si siano concretizzati i piani di reinvestimento degli utili di Acea Ato 2, in modo che i profitti siano lasciati all’interno della società (per provvedere al miglioramento delle reti idriche) e non siano, invece, destinati totalmente agli azionisti.

Leonardo

Gen. Carta alla presidenza di Leonardo. Per Rete Italiana Disarmo e Fondazione Finanza Etica scelta inopportuna e contraria alle norme su export delle armi.

Partecipiamo all’assemblea di Leonardo (ex Finmeccanica), il principale produttore di armi italiano e uno dei primi in Europa, dal 2016.

Quest’anno le domande che faremo alla società saranno incentrate sulla gestione, a nostro parere scorretta, dell’emergenza da Covid-19, che ha portato allo sciopero di tutte le sigle sindacali il 23 marzo scorso.

I sindacati hanno lamentato l’assenza di misure adeguate per proteggere i lavoratori.
Leonardo avrebbe cercato di minimizzare la portata dello sciopero, dichiarando che il 70% dei lavoratori avrebbero comunque deciso di lavorare il 23 marzo. Fonti sindacali parlano invece di una percentuale di adesione pari al 74%, almeno nella parte “manufacturing” e quindi all’interno degli stabilimenti.

Nomine governative. Leonardo

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Gen. Carta alla presidenza di Leonardo. Per Rete Italiana Disarmo e Fondazione Finanza Etica scelta inopportuna e contraria alle norme su export delle armi.

Il Generale Carta indicato per la Presidenza di Leonardo: scelta inopportuna e contraria alle norme sull’export di armi

 

Da numerose segnalazioni della stampa apprendiamo che il Governo avrebbe indicato il gen. Luciano Carta (attuale direttore dell’AISE Agenzia informazioni e sicurezza esterna) per la presidenza di Leonardo. Leonardo è tra i principali produttori di armamenti e di sistemi di difesa al mondo; il Ministero dell’economia e delle Finanze (MEF) è azionista di riferimento. In base al “golden power” sulla società  il MEF è in grado di definire la lista di maggioranza nel Consiglio di Amministrazione (da cui poi viene deciso anche il Presidente) nonostante le azioni possedute siano poco più del 30% del totale.

«Ancora nel 2013 il fatturato di Leonardo prodotto dalle attività in campo civile era pari al 50,4% del totale. Poi è progressivamente sceso, fino quasi a dimezzarsi: nel 2019 era pari al 28%, contro il 72% di produzione militare», spiega Marco Piccolo Presidente di Fondazione Finanza Etica, azionista critico alle assemblee di Leonardo dal 2016 in collaborazione con Rete Italiana per Il Disarmo. «Eppure il terzo comma dell’Articolo 1 della legge 185/90 parla chiaro: il Governo predispone misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa. Non ci sembra che la nomina di un ex generale alla presidenza di Leonardo vada in questa direzione».

Rete Italiana per il Disarmo esprime forte preoccupazione per questa ipotesi. Se confermata, il gen. Carta passerebbe direttamente da un ruolo rilevante e attivo nei meccanismi di controllo e autorizzazione all’export di prodotti militari a quello di vertice della principale azienda militare italiana. Leonardo infatti è al primo posto per licenze concesse in due degli ultimi tre anni di cui si hanno dati, e destinataria del 67% delle autorizzazioni complessive rilasciate nel 2018.

“Non abbiano nulla contro il gen. Luciano Carta dal punto di vista personale, e non abbiamo motivo di dubitare in nessun modo della sua condotta nel corso delle sue funzioni ai vertici di AISE – dichiara Francesco Vignarca coordinatore di Rete Italiana per il Disarmo – Ma intendiamo richiamare al rispetto rigoroso e senza eccezioni di una norma che è stata pensata proprio per evitare conflitti di interesse o tentazioni di altro tipo. Situazioni che possono diventare problematiche se non si mette un freno al fenomeno delle ‘revolving doors’ nel settore della difesa”.

L’ipotizzato trasferimento del gen. Carta ad un ruolo di vertice in Leonardo risulta infatti chiaramente inopportuno, da diversi punti di vista, e anche in possibile contrasto con il testo attualmente in vigore della legge 185/90 che regola l’export di armamenti. L’articolo 22 di tale norma (“Divieti a conferire cariche”) precisa infatti che:

1. I dipendenti pubblici civili e militari, preposti a qualsiasi titolo all’esercizio di funzioni amministrative connesse all’applicazione della presente legge nei due anni precedenti alla cessazione del rapporto di pubblico impiego non possono, per un periodo di tre anni successivo alla cessazione del rapporto stesso, a qualunque causa dovuta, far parte di consigli di amministrazione, assumere cariche di presidente, vicepresidente, amministratore delegato, consigliere delegato, amministratore unico, e direttore generale nonché assumere incarichi di consulenza, fatti salvi quelli di carattere specificamente tecnico-operativo, relativi a progettazioni o collaudi, in imprese operanti nel settore degli armamenti.

Chiediamo dunque se sia stato compiutamente verificato se il gen. Carta abbia avuto incarichi o funzioni connessi in qualche modo all’applicazione della legge. Dalle modifiche del 2003 e 2012 in poi nel processo di autorizzazione all’export di armamenti è affidato un ruolo chiave anche al Dipartimento Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio. Il DIS fa parte con AISE del più articolato Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. Rappresenta infatti l’articolazione dell’Autorità Nazionale per la Sicurezza. In presenza di informazioni classificate (provenienti anche dall’AISE) esprime pareri vincolanti al rilascio delle autorizzazioni previste dalla Legge 185/90.

La UAMA ha sottolineato con proprie circolari alle aziende iscritte al Registro Nazionale delle imprese esportatrici la necessità di inviare anche all’AISE i dettagli sulle proprie attività contrattuali. In questo modo l’Agenzia si colloca pienamente nel processo autorizzativo della Legge 185/90.

Assumendo la carica di presidente di Leonardo, il Gen. Carta passerebbe a svolgere un ruolo di “promotore” di quelle operazioni che, da funzionario dei Servizi di Sicurezza con autorità e incarichi connessi al controllo sulle autorizzazioni all’esportazione di armi, era finora stato chiamato a definire anche sulla base di informazioni riservate. Un tipo di “conflitto di interesse” che la legge 185/90 ha inteso espressamente evitare.

A 30 esatti anni dall’approvazione della legge 185/90 l’opera di indebolimento del suo spirito e del suo dettato legislativo prosegue anche grazie a questi episodi – commenta Maurizio Simoncelli vicepresidente di IRIAD Archivio Disarmo – Ciò avviene anche a seguito delle modifiche alla legge negli ultimi anni e al continuo ricorso ad accordi di cooperazione militare, stratagemma utilizzato per eluderne le norme nel caso di decine di Paesi extra NATO e UE, come a suo tempo denunciò in Parlamento l’allora Deputato e oggi Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella”.

 

Roma, 21 aprile 2020

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per contatti:

segreteria@disarmo.org – 328 3399267

Cinquanta anni di engagement

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Cinquanta anni di engagement

 

L’engagement riunisce tutte le attività che coinvolgono azionisti interessati a promuovere iniziative di responsabilità sociale

 

Il termine ENGAGEMENT è molto in voga, e non da oggi, nel mondo della finanza etica: fa riferimento a tutte le attività che coinvolgono gli azionisti impegnati a promuovere questioni di responsabilità sociale attraverso campagne e altre iniziative. L’obiettivo consiste nel sollevare questi stessi temi in assemblea e di proporre opportune risoluzion iper cambiare la policy dell’impresa. A volte le proposte sono accolte direttamente dal management che assume così un impegno formale; in altre occasioni la risoluzione proposta viene sottoposta al voto degli azionisti.

L’azionariato critico è promosso prevalentemente da ONG, movimenti e campagne. Sono proprio loro che hanno dato vita alla storia dell’engagement, negli anni ’70 del XX secolo. Ma il fenomeno ha avuto un prologo decisamente più antico. Gli ordini religiosi sono stati storicamente i primi, nel mondo occidentale, a sollevare il problema dell’impatto sociale degli investimenti. Negli Stati Uniti, negli anni venti del Novecento, i Padri Quaccheri e Metodisti avevano promosso la nascita dei primi fondi di investimento etici, escludendo dal portafoglio i titoli di imprese che producevano alcolici o operavano nel settore del gioco d’azzardo.

 

Fino agli anni ’10

Le prime strategie “positive” emergono negli anni successivi, quando le organizzazioni religiose fanno un passo avanti: il loro obiettivo finale non è più escludere le aziende dei settori controversi. Vogliono anche selezionare per il loro portafoglio i titoli di quelle aziende che ritengonopiù sensibili ai diritti umani e alle questioni ambientali (oggi parleremmo di strategia best-in-class).

Ma la vera svolta arriverà solo alcuni decenni più tardi. Fu con le campagne nei confronti delle aziende che investivano nel Sudafrica dell’apartheid che l’azionariato attivo fece il suo salto di qualità grazie all’attività dell’ICCR. L’ICCR nel 2019 ha partecipato alle riunioni di 184 società quotate e presentato 277 risoluzioni.

La prima grande esperienza di engagement registrata in Europa risale agli anni ’80. Nel 1986, a Colonia, in Germania, viene fondata la DKA  (Coalizione delle Azioniste e degli Azionisti Critici). L’associazione riunisce 28 sigle diverse in rappresentanza di organizzazioni ambientaliste, coalizioni pacifiste, associazioni di consumatori e whistleblower d’impresa. Nel 2019 gli attivisti di DKA sono intervenuti alle assemblee di quasi 50 imprese quotate tedesche: da Adidas a Bayer, da Volkswagen alla Rheinmetall, azienda che esporta in Arabia Saudita quelle stesse bombe utilizzate dall’esercito di Riyad nella guerra dello Yemen. Un conflitto, quest’ultimo, privo di legittimazione internazionale e capace a oggi di fare decine di migliaia di vittime tra i civili.

L’Italia sperimenta le prime iniziative di azionariato critico nel 1989 quando Legambiente avvia il progetto “azionisti ecologisti”. L’organizzazione ambientalista inizia ad acquistare quote esigue di grandi imprese italiane legate a vario titolo al settore del fossile come Montedison, Enimont, Enichem, Fiat, Sme, Sip ed Enel per promuovere la riconversione ecologica del loro business. La prima battagliasi combatte nel 1990. Gli attivisti chiedono all’assemblea Montedison la chiusura dellACNA di Cengio dove un incidente produsse una gravissima nube tossica.

Legambiente ACNA Cengio

Opera propria archivio personale indeciso 42, Wikipedia in italiano18 (CC BY-SA 4.0).

 

Gli anni ’10 e la svolta di Fondazione Finanza Etica

Fino al 2016 le attività di azionariato critico della Fondazione si sono rivolte esclusivamente alle due principali multinazionali italiane dell’energia Eni ed Enel. Dopo l’acquisto di una quota simbolica di azioni del colosso della Finmeccanica( oggi Leonardo) la Fondazione inizia a diversificare la sua presenza.

Nel 2017, d’accordo con il Forum Italiano dei Movimentiper l’Acqua, l’organizzazione interviene all’assemblea di Acea, la società municipalizzata dei servizi idrici del comune di Roma. Seguono le partecipazioni alle assemblee della società tedesca degli armamenti Rheinmetall a Berlino, della compagnia assicurativa Generali (con l’appoggio dell’associazione Re:Common) e del gigante svedese del fast fashion H&M (in collaborazione con la Clean Clothes Campaign).

La vera svolta arriva nel 2017 quando la Fondazione aderisce al network internazionale SfC – Shareholders for Change. Si allarga l’elenco dei temi trattati in assemblea (che comprende ad esempio la retribuzione dei manager) ma aumenta soprattutto il peso effettivo delle attività di engagement. Intervenendo a nome di tutti i membri di SfC, la Fondazione si trovavinfatti a rappresentare, in alcuni casi, migliaia di azioni.

L’azionariato critico, nato come iniziativa simbolica dal punto di vista del possesso azionario, si trasforma a rigore di definizione in un vero e proprio azionariato attivo potenzialmente in grado di indurre le compagnie a cambiare le loro politiche. Negli ultimi dodici anni, Fondazione Finanza Etica ha partecipato a 37 assemblee di sette gruppi quotati in borsa, in collaborazione con organizzazioni della società civile italiana e internazionale ottenendo alcuni importanti risultati.

 

Questo articolo ripende alcune pagine di La finanza etica e sostenibile in Europa. Terzo rapporto, una pubblicazione di Fondazione Finanza Etica a cura di Matteo Cavallito, Emanuele Isonio e Mauro Meggiolaro.

 

 

Cosa possono fare gli azionisti critici in Italia?

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Cosa possono fare gli azionisti critici in Italia?

 

Volete partecipare all’attività di azionariato critico? Fondazione Finanza Etica vi dice cosa possono fare gli azionisti critici in Italia.

Acquistare azioni o farsi delegare da altri azionisti

 

Anche in Italia, comprando una sola azione o facendosi delegare da qualcuno che è già azionista, si può partecipare all’assemblea di una società quotata in borsa.

Per acquistare azioni di società quotate basta rivolgersi a una banca e aprire un conto deposito titoli (o dossier titoli). Per farsi delegare è sufficiente compilare il modulo di delega che, normalmente, si può scaricare dal sito delle società quotate, nelle sezioni “governance” o “azionisti” o “assemblee degli azionisti”.

All’approssimarsi della data dell’assemblea è importante far sapere alla banca che si intende partecipare, in modo che la banca possa comunicarlo alla società ed emettere il cosiddetto “biglietto assembleare”. Con il biglietto assembleare e, eventualmente, il modulo di delega, si può quindi accedereall’assemblea, muniti di passaporto o carta d’identità e di eventuali altri documenti richiesti (copia del documento di identità del soggetto delegante, ecc.). Per evitare brutte sorprese è consigliabile mettersi in contatto con la segreteria societaria, anticipare tutta la documentazione via mail e chiedere conferma della regolarità dell’accreditamento.

Di solito le assemblee degli azionisti sono fissate tra aprile e giugno, dopo la chiusura del bilancio dell’anno precedente, un periodo che viene definito in gergo “stagione assembleare”.

Prima di partecipare a un’assemblea è importante studiare il regolamento assembleare e le norme del diritto societario che ne regolano lo svolgimento.

 

Fare domande sui vari punti all’ordine del giorno

Un’assemblea degli azionisti ha vari punti all’ordine del giorno.

Il primo, di solito, è l’approvazione delbilancio. Seguono poi, in genere, la distribuzione dell’utile, il voto (consultivo) sul piano di remunerazione dei manager e, di solito ogni tre anni, l’elezione dei membri del Consiglio di Amministrazione e dei membri del Collegio Sindacale (organo dicontrollo interno).

Gli azionisti critici intervengono, di solito, sul primo punto all’ordine del giorno, perché è il meno specifico: intervenendo sul primo punto si possono fare, infatti, domande su tutti i possibili temi che possono avere un impatto sui numeri del bilancio o riguardano procedimenti giudiziari, società controllate e accadimenti vari di cui si tratta nel bilancio.

Per non rischiare che le domande siano liquidate come “non pertinenti”, è importante individuare un nesso tra i temi sui quali si richiedono chiarimenti e i risultati finanziari dell’impresa: ad esempio, il coinvolgimento di un’impresa in controversie di tipo ambientale potrebbe avere conseguenze negative sulla reputazione dell’azienda, e quindi sul suo marchio, portando a un calo delle vendite. Oppure potrebbero essere comminate sanzioni da parte delle autorità che, una volta pagate, farebbero diminuire gli utili (profitti) da distribuire a tutti gli azionisti.

 

Votare

Gli azionisti critici, come detentori di azioni, sono anche chiamati a votare su tutti i punti all’ordine del giorno.

Possono astenersi o votare contro il bilancio o la rielezione dell’amministratore delegato o del presidente. Si tratta chiaramente di voti che non spostano di un millimetro il risultato finale, ma possono avere un forte valore simbolico.

Con il coinvolgimento, a partire dal 2018, di investitori istituzionali, che hanno in portafoglio migliaia di azioni, tramite la rete SfC – Shareholders for Change, la votazione deiv ari punti all’ordine del giorno ha iniziato ad assumere un’importanza maggiore.

Quanto tempo si ha a disposizione per fare le domande?

I tempi variano da impresa a impresa e sono stabiliti dal presidente all’avvio dell’assemblea.

In genere si hanno a disposizione dai cinque ai dieci minuti. In alcuni Paesi, come ad esempio in Germania, non ci sono limiti di tempo.

 

 

 

 

Questo articolo ripende alcune pagine di Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro, il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.

Enel abbandona il progetto HidroAysén in Patagonia

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Enel abbandona il progetto HidroAysén in Patagonia

Nel 2009, 2010, 2011, 2012 e 2013 Fondazione Finanza Etica interviene alle assemblee di Enel a sostegno di Crbm (Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, oggi Re:Common) e delle campagne. Ci si oppone alla costruzione di cinque grandi dighe nella Patagonia cilena (regione di Aysén). Il progetto è guidato dal consorzio HidroAysén, controllato con una quota maggioritaria da Enel.

Crbm fa intervenire in assemblea come azionisti il vescovo dell’Aysén, Luis Infanti, oltre a rappresentanti della comunità indigena Mapuche, minacciata dalla costruzione delledighe e attivisti di “Patagonia sin represas”(Patagonia senza dighe).

In Cile, migliaia dipersone protestano ripetutamente nella capitale Santiago.
In Italia, le domande e le proteste degli azionisti critici e il muro di gomma di Enel finiscono su tutti i principali organi di stampa.

Vescovo Luis Infanti sul Corriere della Sera

L’intervento del vescovo Luis Infanti all’assemblea di Enel come riportato dal Corriere della Sera il 30 aprile del 2010.

 

A sostegno del vescovo Luis Infanti, che interviene all’assemblea del 29 aprile 2010, scendono in campo anche i Missionari Oblati di Maria Immacolata, un ordine religioso che figura tra i fondatori della storica coalizione di azionisti attivi USA ICCR. Infanti viene delegato a parlare proprio dai Missionari, con 57.000 azioni.

Dopo una battaglia durata sei anni, nel 2014 il governo cileno decide di rigettare la valutazione d’impatto ambientale per il progetto Hidroaysén, che viene definitivamente archiviato.
Per gli azionisti critici è una chiara vittoria.
L’azionariato critico è stata solo una delle tante gocce che hanno aiutato a far traboccare il vaso. Da soli gli azionisti critici molto probabilmente non ce l’avrebbero fatta. Ma l’unione tra forze e metodi di opposizione diversi è riuscita a condizionare una scelta politica a cui l’impresa ha dovuto sottostare.

 

Per le strategie di azionariato critico, cosa è e come funziona, si può leggere il nostro rapporto Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro. È il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.

 

Foto di Raimundo España.

 

Nuove città

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Smart cities urban green ed economia di aggregazione quando le comunità organizzano le alternative

Smart cities, urban green ed economia di aggregazione: quando le comunità organizzano le alternative.

Il 22 gennaio 2020 la Commissione Europea Energia ha approvato la quarta Lista dei Progetti di Interesse
Comune (Pci) che la Banca Europea degli Investimenti è chiamata a finanziare nel prossimo biennio in Italia.
Una buona notizia. Che cosa ci troviamo, fra i progetti di interesse comune su cui punta l’Europa? Leggo con
cura, e resto senza parole. Ci trovo il raddoppio di Tap, l’interconnessione Tap/Snam Melendugno Brindisi, il nuovo gasdotto Poseidon che approderà a Otranto, il gasdotto Matagiola-Massafra, la Rete Adriatica Snam tra
Foligno e Sulmona, il Piano Regionale Territoriale (Prt) di Sulmona e il gasdotto Galsi tra Algeria e Sardegna, per la metanizzazione dell’isola.
Più che di interesse comune, questa lista appare il prolungamento di un gioco al massacro sul territorio italiano. Quel che è peggio, questa lista è una sonora smentita a tutti i propositi verso una nuova economia verde e sostenibile da parte dell’Italia, formulati dopo il varo della legge di bilancio. La prova che il governo non ha capito, o non vuole proprio capire, che il riscaldamento climatico si abbatterà sull’Italia con particolare virulenza, vista la posizione geografica e la peculiare conformazione della nostra penisola, e che occorre una vera conversione economica per proteggere il territorio e impedire che il peggio avvenga. Invece, ci si riempie la bocca con la storia del Green New Deal, ma la pulsione fossile ha ancora la meglio. Contro ogni ragionevolezza. La Lista dei Progetti di Interesse Comune cozza fragorosamente con gli accordi di Parigi, con la politica di decarbonizzazione dell’European Green Deal (Egd) appena approvato, con la dichiarazione di emergenza climatica varata dal Parlamento europeo. Che fare?

 

Città intelligenti

Non se ne esce proprio, in questa dialettica fra governi e istituzioni europee? Invece, passata la prima ondata
di depressione, è possibile immaginare un’agibilità di reale interesse comune a partire dai territori, percorsi
che valorizzino le specificità e potenzialità locali che sempre esistono, solo che si vogliano riconoscere? Le
piste di lavoro ci sono, eccome, ma faticano a decollare! Meritano la nostra speciale attenzione come interstizi
concreti di mobilitazione, per declinare da subito iniziative locali volte a contrastare i colossali danni prodotti da politiche restie al cambiamento di rotta che urge.
Qualche esempio?

Partiamo dalle smart cities, le città intelligenti che da qualche anno spuntano in diverse parti del mondo. Le
città intelligenti interpretano una rilettura strutturale del contesto urbano non solo alla luce della innovazione digitale (il cosiddetto “internet delle cose”), ma anche della sostenibilità e soprattutto della qualità della vita delle persone. Parliamo di città, ma la nozione si applica a quartieri e piccole realtà, perché è la visione che conta. Ci sono quattro pilastri fondamentali su cui si può avviare un cammino di trasformazione dalla gestione tradizionale del luogo di vita – spesso, ne abbiamo esperienza diretta, una gestione nel segno della cementificazione, dello sfruttamento economico ovvero del totale abbandono – a una amministrazione intelligente.
Questi elementi sono la riduzione dei consumi energetici; l’ottimizzazione dell’uso dell’acqua e della raccolta
dei rifiuti; il miglioramento e potenziamento dei trasporti pubblici; la riduzione del degrado urbano. È una filosofia diretta dalla funzione pubblica (l’ente locale nelle sue diverse ramificazioni) e improntata all’interesse
comune, che implica una collaborazione ordinata con il settore privato, lavorando su mobilità, sviluppo economico, salute, energia, sicurezza.
Così da ridurre l’impronta della città su ambiente e produzione di inquinamento. Così da favorire la riqualificazione del tessuto immobiliare e la ricostruzione del tessuto sociale. Non esiste, infatti, un’azione a beneficio dell’ambiente che non abbia vantaggi anche sulla qualità della vita delle persone.
Essenziale a questo nuovo modo di vivere la città, lo sanno gli enti pubblici che si sono cimentati con percorsi
di smart city, è il coinvolgimento di quanti abitano la città. I cittadini non devono più essere meri utilizzatori
ma co-progettisti della città (progettazione partecipata), e co-produttori di servizi rispondenti ai bisogni reali, con forme di compartecipazione grazie alle nuove infrastrutture di informazione e comunicazione (es. consultazione on-line tramite i social-network), oltre alle forme più tradizionali di governo partecipato.
Utopia, o processo realistico di democrazia?

 

Esempi

Esistono esperienze illuminanti da cui imparare molto.
Penso a Linz (Austria), dove la costruzione di una città
solare ha fornito il pretesto per ripensare un progetto di partecipazione sociale e integrazione ambientale.

 

Hammarby Sjostad

Hammarby Sjostad, Foto di Hans Kylberg

 

Penso a Hammarby Sjostad, un vecchio quartiere industriale di Stoccolma del tutto trasformato grazie alla bonifica dei terreni che ha poi favorito edilizia sostenibile, trasporti intelligenti, energie rinnovabili e costruzioni di nuove comunità urbane.

C’è Beddington, a sud di Londra, oggi quartiere completamente ecocompatibile.

Realtà concrete, ripensate nel solco di valori come inclusione, interazione, qualità, efficienza. Ma non serve
andare fuori Italia: belle iniziative si incontrano anche a Bologna, Torino, Genova.
Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale Smart City, il 48% dei comuni italiani ha avviato almeno un progetto
Smart City negli ultimi tre anni, anche se il 63% del totale delle iniziative è ancora in fase sperimentale.
Siccome i fondi pubblici ci sono e sono in aumento, soprattutto in Europa, vale la pena orientarli in questa
direzione senza indugio. Gli indicatori dell’economia e del clima ci dicono che non c’è tempo da perdere.

Urban Green è il mobilitante progetto della città di New York volto a ridurre le emissioni di Co2 dell’80%
entro il 2050, attraverso una “grande opera” di riconversione edilizia per il risparmio energetico, e nuove strategie di riqualificazioni e riutilizzo degli immobili secondo stardard ecocompatibili per housing sociale e sostegno alle fasce meno abbienti della popolazione. Urban Green sta trasformando il volto della Grande Mela con i suoi orti urbani, i tetti giardini, la neo-umanizzazione di spazi e strutture abbandonate attraverso il verde di piccole coltivazioni gestite da giovani e anziani, piantificazioni cittadine, partecipazioni agricole per la creazione di nuovi mercati urbani di filiera corta, su cui imbastire l’educazione al cibo e l’alternativa alla grande distribuzione.
Si tratta di una colossale impresa culturale e di risocializzazione, prima ancora che di riconversione ambientale e urbana. Se succede a New York, si può replicare altrove, no?

 

Aggregazione

Infine, tanto per non perdersi d’animo, avete mai sentito parlare di economia di aggregazione?
Un’idea di economia che punta in origine a superare la frammentazione tra le piccole imprese, per permettere una più feconda interazione tra attività imprenditoriali complementari, sulla scena del mercato. Più interessante ancora è questa idea applicata all’associazione di territori limitrofi secondo appunto una visione
di complementarietà, come nel caso di Nizza Metropoli.
Nato con un investimento pubblico di 100 milioni di euro e 400 milioni di investimenti privati, Nizza Metropoli
è un euroterritorio di 49 comuni che hanno unito i loro bilanci (1,5 miliardi di euro) per ideare una nuova economia comune e una rete di collegamento che allarga le possibilità professionali e di vita delle persone. Gestito dal Consiglio della Metropoli, condivide i costi economici della gestione pubblica ed è riuscito a ripianare i conti degli enti locali più in difficoltà, con iniziative di riqualificazione che hanno prodotto lavoro, turismo responsabile e il recupero di attività artigianali a rischio di estinzione.

Un caso di economia di aggregazione in via di studio, in Italia, riguarda la costruzione di una città policentrica
fra Bari e Taranto. Qui vivono 2 milioni di persone. Qui insistono due porti, centri di ricerca, università, una
rete di piccole e grandi città, un distretto tecnologico aerospaziale. Un’area ricca di cultura e potenzialità che
potrebbe ridefinire la propria identità grazie a trasporti pubblici efficienti, una rete di attività interconnesse, l’ideazione di percorsi di economia sostenibile, per attirare le giovani competenze che oggi emigrano. Senza dubbio, un progetto di interesse comune da perseguire, per i prossimi anni: magari anche nell’ottica della riconversione di Ilva.

Sarà per la prossima lista?

 

Nicoletta Dentico, redattrice di Mosaico di Pace

 

Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.

 

Foto in testata: Beddington “BedZed”. Foto di Sutton Film Office

Retribuzioni dei manager. ENI si arrende a Fondazione Finanza Etica

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Retribuzioni dei manager ENI si arrende a Fondazione Finanza Etica

Nel 2012 Fondazione Finanza Etica interviene all’assemblea di Eni. Chiede perché, a favore del presidente e dell’amministratore delegato uscenti, Roberto Poli e Paolo Scaroni, sia stato pagato, nel 2011, un bonus discrezionale straordinario di fine carica da un milione di euro a testa, senza che siano esplicitati i criteri in base ai quai tale compenso sia stato calcolato.
«Perché un milione di euro e non 950.000 euroo 1,2 milioni di euro?», chiede la Fondazione. «Perché poi attribuire un compenso di fine carica all’amministratore delegato Scaroni, per il quale era già prevista la conferma della carica per un ulteriore mandato?».

Nel 2013 Eni introduce criteri sociali, ambientalie di governance (ESG) per la remunerazione variabile di lungo termine da attribuire al presidente e all’amministratore delegato, che pesano per il 10% del totale.
È un fatto positivo: significa che i due più importanti amministratori della società saranno pagati (o non pagati) anche in base al raggiungimento (o meno) di obiettivi sociali e ambientali e non solo finanziari.

Però alla Fondazione i criteri di riferimento (la presenza della società negli indici azionari etici FTSE4Good e Dow JonesSustainability Index) non piacciono.
«Sono generici e arbitrari. Perché non è possibile adottare criteri più specifici, consultando i portatori di interesse della società?».
Nel 2015 c’è finalmente una svolta: la possibilità di attribuire bonus discrezionali straordinari viene cancellata (come richiesto da Fondazione Finanza Etica) e si cambiano i criteri ESG per attribuire una parte della remunerazione variabile ai manager. Dalla presenza di Eni in indici azionari etici si passa a due criteri specifici, come richiesto dalla Fondazione: la riduzione delle emissioni di CO2e deglii nfortuni sul lavoro.
In più si alza il peso dei criteri ESG dal 10% al 25%.
Un grande successo, che la Fondazione non manca di sottolineare nel corso del suo intervento all’assemblea dello stesso anno:

«Voteremo per la prima volta a favore della relazione sulla remunerazione. Siamo contenti che Eni abbia colto la nostra proposta di eliminare ogni bonus discrezionale, come quelli attribuiti una tantum nel 2011 all’allora CEO, PaoloScaroni, e al Presidente, Roberto Poli, per un milione di euro a testa. Allora avevamo criticato Eni per questa scelta. Eni dopo tre anni ci ha ascoltato e siamo contenti di questo, esprimiamo anche soddisfazione per la modifica dei criteri di attribuzione del bonus relativo alla sostenibilità ambientale e al capitale umano, che corrisponde al 25% dell’incentivazione variabile annuale. Come abbiamo proposto l’anno scorso all’Assemblea, tale bonus non avrà più come parametro la presenza di Eni in uno dei due indici etici Dow Jones Sustainability e FTSE4good, che ci sembrava un criterio poco oggettivo, visto che non condividiamo i criteri con i quali questi indici sono composti e creati ma farà riferimento a criteri più oggettivi, come la riduzione dell’emissione di CO2e l’indice di frequenza degli infortuni».

 

Per le strategie di azionariato critico, cosa è e come funziona, si può leggere il nostro rapporto Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro. È il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.