Follow the money: banche, armi e diritti umani

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Follow the money

 

La frase di “Gola profonda” in Tutti gli uomini del presidente è drammaticamente vera. Seguite da dove vengono i soldi per finanziare ed esportare armi e capirete molte cose dei conflitti in corso sul pianeta. 

Uno dei pochi strumenti a disposizione per tentare di seguire questi flussi di denaro verso il sistema produttivo militare è la Relazione del Governo al Parlamento “sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” prevista dalla L.185/90. Una relazione voluminosa (quasi 1.700 pagine, comprese le schede), complessa e con alcuni tratti di opacità. Tuttavia importante per chi vuole farsi un’idea di come si alimentino conflitti e violazioni dei diritti umani.

 

L’Egitto è il principale paese importatore di armi italiane

La Relazione sull’anno 2020 dice alcune cose interessanti al riguardo.

Il paese importatore di armi italiane che fa la parte del leone è l’Egitto di Al Sisi, non proprio un campione dei diritti umani: con 991,2 milioni di euro di commesse è in testa alla classifica e supera del doppio il secondo paese, gli Stati Uniti d’America (456,4 milioni). Si tratta di circa il 25% di tutte le esportazioni di armi italiane nel mondo (pari a 4,647 miliardi di euro).

L’Egitto diventa cliente privilegiato dell’Italia nel 2019, compiendo un balzo dai 69 milioni del 2018 a 871,7 milioni, quando: Al Sisi aveva già dimostrato il suo disprezzo per i diritti umani; Giulio Regeni era già stato ucciso e il regime egiziano aveva dimostrato la scarsa volontà di collaborare con la giustizia italiana. Patrick Zaki sarà incarcerato nel febbraio 2020.

 

Il caso egiziano non è isolato

Nell’elenco dei paesi clienti dell’industria bellica italiana ne troviamo diversi  problematici sotto il profilo dei principi della L.185/90, che vieta l’esportazione verso paesi implicati nella violazione dei diritti umani e in conflitto. L’Arabia Saudita (144,4 milioni di esportazioni), il Qatar (212,2 milioni), gli Emirati Arabi Uniti (117,6 milioni), la Turchia (34,6 milioni), la Cina (35 milioni).

Questo comporta una pesante considerazione sulla politica estera italiana. Infatti, scrive il Governo nella Relazione che

i trasferimenti di materiali di armamento devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e regolamentate dallo Stato.

Queste transazioni di armi sono quindi autorizzate dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento del Ministero degli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. Di conseguenza, il sostegno militare a questi regimi, che in altre sedi il Governo italiano non esita a condannare e stigmatizzare, è parte integrante della politica estera italiana.

 

Il conflitto di interessi del Governo italiano

Il Governo italiano (Ministero Esteri) che autorizza le esportazioni è l’azionista di riferimento (Ministero Economia e Finanze) delle prime due aziende beneficiarie delle autorizzazioni: Leonardo (31,58%) e Fincantieri (25,27%). Una condizione di privilegio per queste aziende che le rende dominanti sul mercato; e che, alla fine dell’anno finanziario, staccano significative cedole sugli utili agli azionisti, di cui il maggiore è di nuovo lo Stato. 

Coerenza con la politica estera e oggettivo interesse ad ampliare il mercato degli armamenti da parte dello Stato. E, ovviamente, le armi si vendono meglio a chi intende usarle, in un modo o nell’altro. Così Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar (quest’ultimo fino al 2017) hanno usato le armi italiane nella devastante guerra, mai dichiarata, dello Yemen. Fino alla revoca delle autorizzazioni decisa, finalmente, dal Governo Conte nel gennaio 2021. 

 

I risultati dell’azionariato critico di Fondazione Finanza Etica

Accanto a questa decisione del Governo, Fondazione Finanza Etica ha registrato un risultato importante con l’attività di azionariato critico su Rheinmetall, la casa madre tedesca di RWM, protagonista indiscussa delle transazioni di bombe verso il teatro di conflitto yemenita.

Dal 2017 Fondazione Finanza Etica partecipa all’assemblea degli azionisti di Rheinmetall insieme a Bank für Kirche und Caritas, la banca della chiesa cattolica tedesca.  All’impresa si è sempre chiesto più trasparenza sulle commesse verso i paesi coinvolti nel conflitto yemenita, realizzate tramite la controllata italiana RWM. Le risposte sono state sempre evasive, fino a raggiungere spesso il rifiuto a rispondere. Il motivo? Non volere divulgare dati sui propri clienti.

Un risultato confortante è venuto dal Comitato Etico del Fondo Pensioni Norvegese (il più grande fondo pensioni del mondo) e dal Parlamento norvegese.  Nel 2020 abbiamo scritto al Comitato Etico del Fondo pensione (che detiene il 2,57% di azioni di Rheinmetall), chiedendo di suggerire di disinvestire dalla società. Il Comitato Etico si è rivolto all’azionista di riferimento del Fondo, lo Stato norvegese e l’8 giugno il Parlamento ha approvato il nuovo criterio di esclusione per l’investimento in armi. È un primo passo che probabilmente porterà il Fondo pensione a disinvestire da Rheinmetall. Forse, dunque, qualcosa si sta muovendo e il piccolo David talvolta può stendere (o almeno creare qualche problema) al gigante Golia.

 

Seguire il denaro non è sempre possibile o facile

Nella Relazione del Governo al Parlamento è possibile sapere quanta percentuale e finanziamenti della quota complessiva  di transazioni autorizzate vanno ai diversi Paesi clienti:  4,647 miliardi di euro nel 2020, in calo del 10,18% rispetto all’anno precedente. Anche quali sistemi d’arma o componentistica l’impresa ha prodotto e venduto. Così come quante transazioni sono state autorizzate e per quali importi a ogni singola impresa. Non è possibile invece sapere a quale paese cliente sono andate le armi vendute. Il che rende davvero difficile capire chi ha venduto cosa a chi.

Rete Pace e Disarmo, con la quale Fondazione collabora nell’azionariato critico su Leonardo e Rheinmetall, riesce a ricostruire alcune di queste tracce, ma con grande difficoltà. È in corso anche un engagement con il Governo perché su questo e altri aspetti dell’attuazione della L.185/90 vi sia un diverso approccio, più trasparente, ed è stata avanzata anche l’ipotesi di una modifica della legge.

Intanto, però, continuiamo a esportare soprattutto nell’area nordafricana e mediorientale (38,57%), una delle aree del mondo a maggior incidenza di conflitti endemici e dove governi democratici che rispettano i diritti umani sono più rari dei pinguini all’equatore.

 

Cosa succede con i nostri soldi una volta depositati in banca?

L’adagio follow the money vale anche per le problematiche dei diritti umani. 

Quali imprese finanziano? In quali paesi? Siamo sicuri che con i nostri soldi non si vadano a finanziare stati, imprese o istituzioni finanziarie che violano i diritti umani?

Se fate parte della crescente categoria di persone a cui il fatto che la vostra banca sia implicata in casi di violazioni di diritti umani fa venire i bordoni, potreste trovarvi nella spiacevole situazione che la vostra banca lo sia, a vostra insaputa.

Non credo che l’impiegato allo sportello quando aprite il conto corrente o quando comprate dei fondi di investimento vi avverta: 

“Guardi signore, la nostra banca è indifferente al tema dei diritti umani: il nostro obiettivo è esclusivamente quello di garantire i suoi soldi e assicurarle una rendita significativa. E, si sa, se si va troppo per il sottile si rischia di mancare l’obiettivo”.

Più verosimilmente l’impiegato vi dirà: “guardi signore, noi abbiamo fondi d’investimento e altri strumenti finanziari green e social. Abbiamo questi rating che ci fa la tale società internazionale. Non investiamo in imprese che operano in settori esclusi dai trattati internazionali ratificati dall’Italia”.

Ma si dimenticherà di dirvi che, per esempio, l’Italia non ha ratificato il recente trattato sulla messa al bando delle armi nucleari, perché ne ospitiamo nel nostro paese. Imprese che forse producono componentistica per questi sistema d’arma è probabile che ci siano, quindi, in questi fondi green e social.

 

I fondi sostenibili investono in armi

Oppure vi dirà “i nostri fondi sono coerenti con la recente normativa europea sulla finanza sostenibile”. Altra parola magica: sostenibilità. Oggi tutto è promosso e venduto come sostenibile: dallo yogurt alle assicurazioni, dalle auto all’acqua minerale. Ma se tutto è sostenibile, cosa è insostenibile?

Fondazione Finanza Etica, nel suo recente Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa è andata a indagare su alcuni dei fondi delle maggiori società di gestione del risparmio italiane: Generali, Gruppo Amundi e Intesa-San Paolo.

 

I fondi sostenibili sotto la nostra lente di ingrandimento

Amundi presenta 896 fondi, di cui 408 definiti sostenibili secondo gli articolo 8 e 9 del Regolamento UE. L’altra metà non segue alcun criterio di sostenibilità. Ma anche i fondi sostenibili sono piuttosto critici. “Amundi MSCI World Climate Paris Aligned PAB”, un fondo climatico che investe in imprese allineate agli obiettivi di Parigi, investe anche in: Bae Systems, impresa britannica del settore armamenti che fa parte della lista di produttori di armi nucleari del rapporto Don’t Bank on the Bomb”;.TC Energy, impresa canadese che possiede gasdotti e oleodotti, tra cui il controverso oleodotto Keystone XL. questo oleodotto dovrebbe trasportare negli Stati Uniti anche petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta (Canada), ed è stato recentemente bloccato dall’amministrazione Biden.

Mentre Generali se la cava molto meglio sotto questo profilo, Intesa-San Paolo presenta diversi problemi. Abbiamo analizzato Eurizon, la più importante delle società di gestione del risparmio del gruppo. I fondi sostenibili secondo la normativa europea sarebbero il 19%, 123 su 640. Prendiamo il caso del fondo ESG “Equity North America LTE”: investe, fra le altre, in imprese USA del settore difesa tra cui Raytheon Technologies, Lockheed Martin, Textron e Northrop Grumman. queste sono incluse nella lista dei produttori di armi nucleari di PAX/ICAN; così come nelle imprese canadesi TC Energy e Suncor Energy (sabbie bituminose).

Naturalmente la valutazione è molto complessa e possono esservi molte motivazioni, anche plausibili, per queste scelte, ma la nostra domanda è:

“l’investitore sa ed è d’accordo nell’investire in questi fondi, che ritiene legittimamente scevri da problematiche inerenti gli armamenti e i combustibili fossili? O invece è convinto di investire in imprese non include in questi settori?”.

Non vale l’eventuale giustificazione che se si escludessero completamente questi settori di investimento non si potrebbero confezionare fondi d’investimento. Vi sono infatti fondi che escludono a priori questo tipo di imprese e, peraltro, vanno benissimo. Anzi, investire o impiegare i risparmi in imprese “problematiche” oggi non produce grandi ricavi, anzi presenta rischi reputazionali e di performance significativi.

 

Banche e diritti umani

Il coinvolgimento delle banche in vicende di violazione dei diritti umani è un fatto niente affatto infrequente e implica rischi reputazionali ed economici importanti.

Sempre nel Rapporto sulla Finanza Etica  Sostenibile in Europa abbiamo ricompreso una ricerca realizzata  dal centro “REMARC – Responsible Management Research Center” dell’Università di Pisa su Banking on human rights”. Il lavoro è coordinato dalla professoressa Elisa Giuliani con il contributo di Fondazione Finanza Etica, grazie all’erogazione liberale ricevuta nel 2018 da Etica Sgr.

L’obiettivo principale del progetto era quello di elaborare un indicatore per misurare gli impatti sui diritti umani del Settore Bancario e Assicurativo. La ricerca si è basata su evidenze relative al loro coinvolgimento diretto o indiretto in abusi di diritti umani, definiti, in linea con i Principi Guida su Impresa e Diritti Umani (UNGP), sulla base della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite del 1948 e dai successivi patti e trattati. Le fonti dei dati, tutti riscontrati, sono diverse e molte si riferiscono a ONG come Business and Human Rights Resource Center.

È stato possibile codificare violazioni dei diritti umani legate all’attività di impresa, soprattutto in relazione all’industria manifatturiera ed estrattiva. Da questa codifica è stata elaborata una analisi quantitiva, stabilendo un indicatore per 170 banche e assicurazioni in 27 Paesi, osservate nel periodo 2000-2015. Esso misura il grado di coinvolgimento relativo di una banca in violazioni di diritti umani su una scala che varia da 0 (minimo) a 100 (massimo).

 

Il 26% delle banche osservate è associata ad abusi di diritti umani

Il dato grezzo delle violazioni osservate per ogni anno mostra chiaramente la crescita dei casi di violazione nel tempo. Nel periodo 2000-2015, 47 delle 178 banche osservate (il 26%) è associata ad abusi di diritti umani. Questo trend di crescita si riferisce però solo al dato osservato, non necessariamente al dato reale, e può essere dovuto a una crescente attenzione da parte dei media o al crescente monitoraggio in materia di impresa e diritti umani. A differenza di altri dati economici e sociali, nel caso delle violazioni di diritti umani connesse all’attività di impresa (compresa quella bancaria), non esistono statistiche ufficiali né strumenti di raccolta e validazione del dato in forma sistematica. Quindi è assai probabile che  il fenomeno osservato nella ricerca sia sottostimato rispetto a quello reale. Le violazioni di diritti umani connesse alle attività del settore bancario-assicurativo potrebbero essere ancora più sottostimate rispetto ad altri settori, poiché le banche sono generalmente meno monitorate delle imprese manifatturiere ed estrattive. Nel campione analizzato sono state osservate un totale di 180 violazioni-anno, un dato che include, ripetendoli, i casi di violazioni continuative che persistono per diversi anni.

 

Tracciare i soldi vuol dire domandarsi come vengono utilizzati e, come abbiamo visto, guerre, violazioni dei diritti umani, commercio e produzione di sistemi d’arma sono intrinsecamente legati a questo flusso di denaro. Non serve solo a sapere cosa succede, ma anche a definire una filiera di responsabilità, dalla quale noi risparmiatori non siamo alla fine esclusi. Possiamo scegliere, ma per farlo occorre un sistema più trasparente. Sarebbe questa una delle rivoluzioni più significative della nostra epoca.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Questo articolo è uscito nella decima edizione 2021 dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, realizzato dall’Associazione 46° Parallelo.

L’accesso al credito vince il premio Tesi di laurea sulla Finanza Etica 2021

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tesi di laurea

30 tesi candidate per il premio Tesi di Laurea sulla finanza etica, giunto quest’anno alla sua quarta edizione.

Impegnativo e stimolante il lavoro del comitato scientifico per arrivare alla short list di 8 tesi e quindi alla nomina della tesi vincitrice e alle due menzioni speciali.

Il premio quest’anno è andato a Serena Ruzzi, Università di Roma Tor Vergata, Corso di laurea in Economia dei mercati e degli intermediari finanziari, per la tesi Determinanti dell’accesso al credito per le famiglie italiane nel periodo post crisi finanziaria, che offre una

“interessante panoramica sulla microfinanza, l’esclusione finanziaria e le condizioni di vita delle persone. Lavoro empirico, rigoroso, con risultati interessanti, con una base dati molto utile ed originale”.

Le due Menzioni Speciali

A Sonia Stati, Università di Siena, Corso di laurea in Finanza, per la tesi Towards a Greenification: exploring the green bond premium, lavoro “condotto in modo robusto, con dettaglio dei controlli di validità, test statistici. Testo di facile lettura, ben organizzato, che suscita interesse. Pur essendo un tema ampiamente studiato, la ricerca è utile in quanto utilizza dati più recenti per un mercato in forte evoluzione”.

Gabriele Turco, Università di Napoli l’Orientale, Corso di laurea in Studi internazionali, ha presentato un lavoro su Finanza etica e sostenibile. Dai fondamenti teorici alle prassi internazionali e nazionali, testo che per la nostra giuria “prova a mettere in rassegna vari aspetti della finanza etica, cercando di delineare un quadro complessivo con le sue potenzialità e i suoi limiti, lamentando la carenza di letteratura e l’importanza di approfondire le ricerche sul piano filosofico, giuridico e di policy, guardando anche a filoni rilevanti quali i temi di genere, l’ecologia, le nuove tecnologie. Il testo è chiaro ed esposto con coerenza, nonostante la diversità di temi oggetto di indagine.”

 

L’emozione della premiazione in diretta

In diretta zoom, davanti ai loro colleghi e alle loro colleghe, a Simone Siliani, direttore della Fondazione e a Fabio Moliterni, Tommaso Rondinella e Domenico Villano, in rappresentanza del comitato scientifico, le 8 persone ammesse alla short list hanno presentato il loro lavoro con uno speech di tre minuti ciascuno, prima della proclamazione in diretta della vincitrice.

Le tre tesi entreranno a far parte della collana “Antonio Genovesi”, che raccoglie tutti i lavori premiati in questi anni.

La commissione scientifica di valutazione è composta da:

  • Andrea Barolini, direttore di Valori.it
  • Camilla Carabini, Consigliera di Indirizzo di Fondazione Finanza Etica
  • Maria Francesca Di Tullio, Consigliera di Indirizzo di Fondazione Finanza Etica e membro del Comitato Etico di Banca Etica
  • Simone Grillo, ricercatore di Banca Etica
  • Arnaldo Maviglia, vincitore Premio tesi di laurea Edizione 2020
  • Fabio Moliterni, analista e ricercatore di Etica Sgr
  • Tommaso Rondinella, Responsabile Ufficio Modelli di Impatto e VSA presso Banca Etica
  • Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica
  • Sofia Tonarelli, ricercatrice e collaboratrice di Fondazione Finanza Etica
  • Domenico Villano, ricercatore di Fondazione Finanza Etica

 

Per una campagna sulla Due Diligence

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Due Diligence

Una campagna sulla Due Diligence. Decisiva, necessaria, possibile.

 

Non è mica facile inventarsi una campagna sulla Due Diligence. Prima di tutto devi spiegare cosa vuol dire e cos’è. Tradotto nella lingua di Dante significa “diligenza dovuta” o “dovere di diligenza”. È un’attività di investigazione e approfondimento di dati e informazioni, finalizzata ad identificare rischi e problemi connessi a una attività economica, anche per predisporre adeguati strumenti di garanzia, di indennizzo o di risarcimento. Chi si assume questo compito ha il “dovere” di svolgerlo in modo “diligente”, con cura scrupolosa e indipendenza di giudizio. Purtroppo, non sempre così avviene nel mondo degli affari. Accade che questa attività, ben remunerata e prevista anche da normative specifiche, venga svolta su commissione dei diretti interessati e dunque si riveli nella realtà piuttosto prona ai desiderata dei committenti. 

Per fare una campagna seria su questo tema, devi individuare il target. Quando devi spiegare che l’obiettivo, il risultato atteso sarebbe una Direttiva della Commissione europea, cioè una norma cogente che regolamenti come la due diligence debba essere fatta, a quel punto ti sei già giocato tre quarti dell’uditorio.

Troppo complesso, poco cool, non c’è niente che scaldi il cuore, molta tecnica e poca passione. Vuoi mettere come è più pop la pace nel mondo, la lotta alla fame e il rispetto dei diritti umani.

Tuttavia questa campagna, così apparentemente fredda e senz’anima, è decisiva, necessaria e anche possibile. Oltre a contribuire alla pace nel mondo, all’eradicazione della fame e al rispetto dei diritti umani in forma niente affatto residuale.

Decisiva perché sono in ballo diritti umani concreti, quelli legati alle condizioni di lavoro materiali lungo le filiere produttive che dai luoghi più lontani del pianeta portano a noi i beni per il nostro consumo.

Necessaria perché ci sono lobby potenti, quelle delle grandi imprese che in verità non vogliono regole e controlli per poter continuare a sfruttare mano d’opera a basso costo e ancor più bassi diritti, per tenere bassi i costi e vendere più merce a noi, per i quali ogni giorno è black friday. Queste grandi imprese surrettiziamente si alleano con le piccole abbindolandole, raccontando la storiella che la due diligence è solo un aggravio economico, burocratico soprattutto per loro. Ma la realtà è che una seria, vera due diligence sarebbe per le grandi una regolamentazione che non sopportano.

Possibile perché troppi e dolorosi casi hanno dimostrato che una due diligence fatta male e truffaldina mette a rischio la salute dei lavoratori e dell’ambiente, ma anche la reputazione delle imprese. E come sta avvenendo per Amazon che viene multata per posizione dominante sul mercato, i tribunali statali e la normativa sovrastatale iniziano ad accorgersi e ad affrontare questi temi tipicamente globali e a istituire regole che travalicano i confini degli Stati.

 

La globalizzazione delle catene di fornitura è parte del più complessivo squilibrio fra capitale e lavoro

È del febbraio 2021 l’ordine esecutivo dell’Amministrazione Biden volto a “Costruire una catena di fornitura resiliente, rivitalizzare la manifattura americana, favorire una vasta crescita”, nel quale sono messi in risalto – per la prima volta – i costi sociali che le catene di fornitura globali hanno comportato.

Vi si legge:

“L’approccio alla produzione interna del settore privato e delle politiche pubbliche, che per anni ha privilegiato efficienza e bassi costi sulla sicurezza, sostenibilità e resilienza, ha provocato rischi nell’intera catena di fornitura”.

Il documento si chiede anche se catene di fornitura iper-globalizzate siano poi davvero così economicamente efficienti.

La risposta oggi non è più scontata come fino a pochi anni fa. Ovviamente le crisi finanziarie globali hanno scavato nelle inossidabili certezze che persistevano fino almeno alla crisi del 2008. Ma oggi preoccupa anche la globalizzazione delle catene di fornitura, che non riguardano soltanto lo scambio di merci e servizi, e che sono parte del più complessivo squilibrio fra capitale e lavoro. La corsa al ribasso dei costi finali di un prodotto, si riduce in una tendenza all’abbassamento dei costi del lavoro. Questo porta i manager a spostare le produzioni in paesi dove i salari sono più bassi e dove la frammentazione della catena di fornitura rende più difficile ai lavoratori una organizzazione collettiva a difesa dei propri interessi: un doppio vantaggio per il business. A cui si aggiungono quelli fiscali dato che questi paesi hanno di solito una giurisdizione fiscale più favorevole proprio per attrarre investimenti e capitali stranieri. Cosa quest’ultima che ha preoccupato l’Amministrazione USA che si è fatta promotrice di una pur timida cornice di comune cornice fiscale minima proprio per ridurre le fughe di capitali all’estero.

 

Impresa 2030 Diamoci una regolata. Campagna sulla direttiva UE sulla Due diligence

Ma questo porta con sé, fatalmente, anche una maggiore attenzione a normative di minore squilibrio relativo alle condizioni dei lavoratori in tutta la catena di fornitura. Non è, naturalmente, un meccanismo automatico e ci vuole coraggio e volontà politiche. Ma qualcosa si sta muovendo e forse questo è il momento per spingere per una regolamentazione almeno europea (per ridurre la competizione al ribasso interna alla Ue e omogeneizzare i comportamenti delle imprese di una delle economie più forti del pianeta, se considerata complessivamente).

Per questo 10 realtà della società civile organizzata italiana, fra le quali Fondazione Finanza Etica, hanno dato vita ad una campagna a sostegno di una regolamentazione europea stringente in tema di due diligence: Impresa 2030. Diamoci una regolata si è data il compito, difficile ma necessario, di costruire una lobby opposta a quella della deregulation, già abbastanza forte e organizzata che sta lavorando sulla Commissione Ue per annacquare la Direttiva. Che ha già subito due rinvii e che è attesa ora entro il 2022. Ma anche a livello europeo si è formata una analoga coalizione: European Coalition for Corporate Justice (ECCJ).

Forse le difficoltà di una campagna così “tecnica” potremmo superarle raccontando una storia, triste e dolorosa, ma non per questo meno esemplare. E chiama in causa l’Italia e il suo Governo.

 

Il disastro Ali Enterprises e la due diligence di RINA Services

Era un altro 11 settembre, quello del 2012, quando un incendio un incendio ha travolto la fabbrica di abbigliamento Ali Enterprises in Pakistan. Solo tre settimane prima RINA Services S.p.A., società di auditing italiana partecipata dal Ministero dei Trasporti italiano, aveva certificato l’azienda conforme alla norma SA8000, uno standard internazionale stabilito da Social Accountability International. Aveva cioè fatto una due diligence sulla sicurezza dell’impianto. Ma una asseverazione che, come hanno stabilito le indagini, ha trascurato una serie di obblighi di sicurezza, come la necessità di avere un sistema di allarme antincendio funzionante o uscite di emergenza sufficienti ed efficaci. Successivamente sono venute a galla una serie di altre violazioni dei diritti dei lavoratori ignorate dall’auditor.

In quell’incendio hanno perso la vita 250 persone che per il fatto di essere localizzate a Karachi in Pakistan non erano certo meno persone, non avevano meno affetti, non erano meno importanti per la sopravvivenza di figli, coniugi, comunità locali. Ci sono persone che piangono questi lavoratori e lavoratrici a Karachi, esattamente come le piangerebbero a Milano o a Parigi. Saeeda Khatoon, presidente dell’Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association (AEFFAA), ha perso suo figlio in quel rogo: perché il suo dolore dovrebbe valere meno di quello di una madre di Berlino o di Madrid? Perché il suo legittimo desiderio di giustizia, di spiegazioni non dovrebbe richiedere la stessa attenzione di quello di un lutto simile in Italia?

La società italiana RINA Services S.p.A. si è rifiutata di assumersi le sue responsabilità per aver certificato come sicura questa fabbrica. Il Governo italiano, che è proprietario in quanto azionista di riferimento della società non può non rispondere su quanto accaduto. Altrimenti ogni dichiarazione sui diritti umani o sulla democrazia, che anche in questi giorni è uscita dalla bocca dei nostri rappresentanti istituzionali, è solo vuota retorica e colpevole ignavia.

Ecco, così forse questa campagna “fredda” e “tecnica”, può essere spiegata e animata: una direttiva obbligatoria, con regolamentazione stringente e sanzioni per elusioni della stessa, avrebbe potuto oggi dare una risposta alla domanda di giustizia di Saeeda e magari evitato quel rogo in cui ha perso suo figlio. Scusate se è poco.

Simone Siliani, direttore Fondazione Finanza Etica