Follow the money: banche, armi e diritti umani

  |   By  |  0 Comments

Follow the money

 

La frase di “Gola profonda” in Tutti gli uomini del presidente è drammaticamente vera. Seguite da dove vengono i soldi per finanziare ed esportare armi e capirete molte cose dei conflitti in corso sul pianeta. 

Uno dei pochi strumenti a disposizione per tentare di seguire questi flussi di denaro verso il sistema produttivo militare è la Relazione del Governo al Parlamento “sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” prevista dalla L.185/90. Una relazione voluminosa (quasi 1.700 pagine, comprese le schede), complessa e con alcuni tratti di opacità. Tuttavia importante per chi vuole farsi un’idea di come si alimentino conflitti e violazioni dei diritti umani.

 

L’Egitto è il principale paese importatore di armi italiane

La Relazione sull’anno 2020 dice alcune cose interessanti al riguardo.

Il paese importatore di armi italiane che fa la parte del leone è l’Egitto di Al Sisi, non proprio un campione dei diritti umani: con 991,2 milioni di euro di commesse è in testa alla classifica e supera del doppio il secondo paese, gli Stati Uniti d’America (456,4 milioni). Si tratta di circa il 25% di tutte le esportazioni di armi italiane nel mondo (pari a 4,647 miliardi di euro).

L’Egitto diventa cliente privilegiato dell’Italia nel 2019, compiendo un balzo dai 69 milioni del 2018 a 871,7 milioni, quando: Al Sisi aveva già dimostrato il suo disprezzo per i diritti umani; Giulio Regeni era già stato ucciso e il regime egiziano aveva dimostrato la scarsa volontà di collaborare con la giustizia italiana. Patrick Zaki sarà incarcerato nel febbraio 2020.

 

Il caso egiziano non è isolato

Nell’elenco dei paesi clienti dell’industria bellica italiana ne troviamo diversi  problematici sotto il profilo dei principi della L.185/90, che vieta l’esportazione verso paesi implicati nella violazione dei diritti umani e in conflitto. L’Arabia Saudita (144,4 milioni di esportazioni), il Qatar (212,2 milioni), gli Emirati Arabi Uniti (117,6 milioni), la Turchia (34,6 milioni), la Cina (35 milioni).

Questo comporta una pesante considerazione sulla politica estera italiana. Infatti, scrive il Governo nella Relazione che

i trasferimenti di materiali di armamento devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e regolamentate dallo Stato.

Queste transazioni di armi sono quindi autorizzate dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento del Ministero degli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. Di conseguenza, il sostegno militare a questi regimi, che in altre sedi il Governo italiano non esita a condannare e stigmatizzare, è parte integrante della politica estera italiana.

 

Il conflitto di interessi del Governo italiano

Il Governo italiano (Ministero Esteri) che autorizza le esportazioni è l’azionista di riferimento (Ministero Economia e Finanze) delle prime due aziende beneficiarie delle autorizzazioni: Leonardo (31,58%) e Fincantieri (25,27%). Una condizione di privilegio per queste aziende che le rende dominanti sul mercato; e che, alla fine dell’anno finanziario, staccano significative cedole sugli utili agli azionisti, di cui il maggiore è di nuovo lo Stato. 

Coerenza con la politica estera e oggettivo interesse ad ampliare il mercato degli armamenti da parte dello Stato. E, ovviamente, le armi si vendono meglio a chi intende usarle, in un modo o nell’altro. Così Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar (quest’ultimo fino al 2017) hanno usato le armi italiane nella devastante guerra, mai dichiarata, dello Yemen. Fino alla revoca delle autorizzazioni decisa, finalmente, dal Governo Conte nel gennaio 2021. 

 

I risultati dell’azionariato critico di Fondazione Finanza Etica

Accanto a questa decisione del Governo, Fondazione Finanza Etica ha registrato un risultato importante con l’attività di azionariato critico su Rheinmetall, la casa madre tedesca di RWM, protagonista indiscussa delle transazioni di bombe verso il teatro di conflitto yemenita.

Dal 2017 Fondazione Finanza Etica partecipa all’assemblea degli azionisti di Rheinmetall insieme a Bank für Kirche und Caritas, la banca della chiesa cattolica tedesca.  All’impresa si è sempre chiesto più trasparenza sulle commesse verso i paesi coinvolti nel conflitto yemenita, realizzate tramite la controllata italiana RWM. Le risposte sono state sempre evasive, fino a raggiungere spesso il rifiuto a rispondere. Il motivo? Non volere divulgare dati sui propri clienti.

Un risultato confortante è venuto dal Comitato Etico del Fondo Pensioni Norvegese (il più grande fondo pensioni del mondo) e dal Parlamento norvegese.  Nel 2020 abbiamo scritto al Comitato Etico del Fondo pensione (che detiene il 2,57% di azioni di Rheinmetall), chiedendo di suggerire di disinvestire dalla società. Il Comitato Etico si è rivolto all’azionista di riferimento del Fondo, lo Stato norvegese e l’8 giugno il Parlamento ha approvato il nuovo criterio di esclusione per l’investimento in armi. È un primo passo che probabilmente porterà il Fondo pensione a disinvestire da Rheinmetall. Forse, dunque, qualcosa si sta muovendo e il piccolo David talvolta può stendere (o almeno creare qualche problema) al gigante Golia.

 

Seguire il denaro non è sempre possibile o facile

Nella Relazione del Governo al Parlamento è possibile sapere quanta percentuale e finanziamenti della quota complessiva  di transazioni autorizzate vanno ai diversi Paesi clienti:  4,647 miliardi di euro nel 2020, in calo del 10,18% rispetto all’anno precedente. Anche quali sistemi d’arma o componentistica l’impresa ha prodotto e venduto. Così come quante transazioni sono state autorizzate e per quali importi a ogni singola impresa. Non è possibile invece sapere a quale paese cliente sono andate le armi vendute. Il che rende davvero difficile capire chi ha venduto cosa a chi.

Rete Pace e Disarmo, con la quale Fondazione collabora nell’azionariato critico su Leonardo e Rheinmetall, riesce a ricostruire alcune di queste tracce, ma con grande difficoltà. È in corso anche un engagement con il Governo perché su questo e altri aspetti dell’attuazione della L.185/90 vi sia un diverso approccio, più trasparente, ed è stata avanzata anche l’ipotesi di una modifica della legge.

Intanto, però, continuiamo a esportare soprattutto nell’area nordafricana e mediorientale (38,57%), una delle aree del mondo a maggior incidenza di conflitti endemici e dove governi democratici che rispettano i diritti umani sono più rari dei pinguini all’equatore.

 

Cosa succede con i nostri soldi una volta depositati in banca?

L’adagio follow the money vale anche per le problematiche dei diritti umani. 

Quali imprese finanziano? In quali paesi? Siamo sicuri che con i nostri soldi non si vadano a finanziare stati, imprese o istituzioni finanziarie che violano i diritti umani?

Se fate parte della crescente categoria di persone a cui il fatto che la vostra banca sia implicata in casi di violazioni di diritti umani fa venire i bordoni, potreste trovarvi nella spiacevole situazione che la vostra banca lo sia, a vostra insaputa.

Non credo che l’impiegato allo sportello quando aprite il conto corrente o quando comprate dei fondi di investimento vi avverta: 

“Guardi signore, la nostra banca è indifferente al tema dei diritti umani: il nostro obiettivo è esclusivamente quello di garantire i suoi soldi e assicurarle una rendita significativa. E, si sa, se si va troppo per il sottile si rischia di mancare l’obiettivo”.

Più verosimilmente l’impiegato vi dirà: “guardi signore, noi abbiamo fondi d’investimento e altri strumenti finanziari green e social. Abbiamo questi rating che ci fa la tale società internazionale. Non investiamo in imprese che operano in settori esclusi dai trattati internazionali ratificati dall’Italia”.

Ma si dimenticherà di dirvi che, per esempio, l’Italia non ha ratificato il recente trattato sulla messa al bando delle armi nucleari, perché ne ospitiamo nel nostro paese. Imprese che forse producono componentistica per questi sistema d’arma è probabile che ci siano, quindi, in questi fondi green e social.

 

I fondi sostenibili investono in armi

Oppure vi dirà “i nostri fondi sono coerenti con la recente normativa europea sulla finanza sostenibile”. Altra parola magica: sostenibilità. Oggi tutto è promosso e venduto come sostenibile: dallo yogurt alle assicurazioni, dalle auto all’acqua minerale. Ma se tutto è sostenibile, cosa è insostenibile?

Fondazione Finanza Etica, nel suo recente Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa è andata a indagare su alcuni dei fondi delle maggiori società di gestione del risparmio italiane: Generali, Gruppo Amundi e Intesa-San Paolo.

 

I fondi sostenibili sotto la nostra lente di ingrandimento

Amundi presenta 896 fondi, di cui 408 definiti sostenibili secondo gli articolo 8 e 9 del Regolamento UE. L’altra metà non segue alcun criterio di sostenibilità. Ma anche i fondi sostenibili sono piuttosto critici. “Amundi MSCI World Climate Paris Aligned PAB”, un fondo climatico che investe in imprese allineate agli obiettivi di Parigi, investe anche in: Bae Systems, impresa britannica del settore armamenti che fa parte della lista di produttori di armi nucleari del rapporto Don’t Bank on the Bomb”;.TC Energy, impresa canadese che possiede gasdotti e oleodotti, tra cui il controverso oleodotto Keystone XL. questo oleodotto dovrebbe trasportare negli Stati Uniti anche petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta (Canada), ed è stato recentemente bloccato dall’amministrazione Biden.

Mentre Generali se la cava molto meglio sotto questo profilo, Intesa-San Paolo presenta diversi problemi. Abbiamo analizzato Eurizon, la più importante delle società di gestione del risparmio del gruppo. I fondi sostenibili secondo la normativa europea sarebbero il 19%, 123 su 640. Prendiamo il caso del fondo ESG “Equity North America LTE”: investe, fra le altre, in imprese USA del settore difesa tra cui Raytheon Technologies, Lockheed Martin, Textron e Northrop Grumman. queste sono incluse nella lista dei produttori di armi nucleari di PAX/ICAN; così come nelle imprese canadesi TC Energy e Suncor Energy (sabbie bituminose).

Naturalmente la valutazione è molto complessa e possono esservi molte motivazioni, anche plausibili, per queste scelte, ma la nostra domanda è:

“l’investitore sa ed è d’accordo nell’investire in questi fondi, che ritiene legittimamente scevri da problematiche inerenti gli armamenti e i combustibili fossili? O invece è convinto di investire in imprese non include in questi settori?”.

Non vale l’eventuale giustificazione che se si escludessero completamente questi settori di investimento non si potrebbero confezionare fondi d’investimento. Vi sono infatti fondi che escludono a priori questo tipo di imprese e, peraltro, vanno benissimo. Anzi, investire o impiegare i risparmi in imprese “problematiche” oggi non produce grandi ricavi, anzi presenta rischi reputazionali e di performance significativi.

 

Banche e diritti umani

Il coinvolgimento delle banche in vicende di violazione dei diritti umani è un fatto niente affatto infrequente e implica rischi reputazionali ed economici importanti.

Sempre nel Rapporto sulla Finanza Etica  Sostenibile in Europa abbiamo ricompreso una ricerca realizzata  dal centro “REMARC – Responsible Management Research Center” dell’Università di Pisa su Banking on human rights”. Il lavoro è coordinato dalla professoressa Elisa Giuliani con il contributo di Fondazione Finanza Etica, grazie all’erogazione liberale ricevuta nel 2018 da Etica Sgr.

L’obiettivo principale del progetto era quello di elaborare un indicatore per misurare gli impatti sui diritti umani del Settore Bancario e Assicurativo. La ricerca si è basata su evidenze relative al loro coinvolgimento diretto o indiretto in abusi di diritti umani, definiti, in linea con i Principi Guida su Impresa e Diritti Umani (UNGP), sulla base della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite del 1948 e dai successivi patti e trattati. Le fonti dei dati, tutti riscontrati, sono diverse e molte si riferiscono a ONG come Business and Human Rights Resource Center.

È stato possibile codificare violazioni dei diritti umani legate all’attività di impresa, soprattutto in relazione all’industria manifatturiera ed estrattiva. Da questa codifica è stata elaborata una analisi quantitiva, stabilendo un indicatore per 170 banche e assicurazioni in 27 Paesi, osservate nel periodo 2000-2015. Esso misura il grado di coinvolgimento relativo di una banca in violazioni di diritti umani su una scala che varia da 0 (minimo) a 100 (massimo).

 

Il 26% delle banche osservate è associata ad abusi di diritti umani

Il dato grezzo delle violazioni osservate per ogni anno mostra chiaramente la crescita dei casi di violazione nel tempo. Nel periodo 2000-2015, 47 delle 178 banche osservate (il 26%) è associata ad abusi di diritti umani. Questo trend di crescita si riferisce però solo al dato osservato, non necessariamente al dato reale, e può essere dovuto a una crescente attenzione da parte dei media o al crescente monitoraggio in materia di impresa e diritti umani. A differenza di altri dati economici e sociali, nel caso delle violazioni di diritti umani connesse all’attività di impresa (compresa quella bancaria), non esistono statistiche ufficiali né strumenti di raccolta e validazione del dato in forma sistematica. Quindi è assai probabile che  il fenomeno osservato nella ricerca sia sottostimato rispetto a quello reale. Le violazioni di diritti umani connesse alle attività del settore bancario-assicurativo potrebbero essere ancora più sottostimate rispetto ad altri settori, poiché le banche sono generalmente meno monitorate delle imprese manifatturiere ed estrattive. Nel campione analizzato sono state osservate un totale di 180 violazioni-anno, un dato che include, ripetendoli, i casi di violazioni continuative che persistono per diversi anni.

 

Tracciare i soldi vuol dire domandarsi come vengono utilizzati e, come abbiamo visto, guerre, violazioni dei diritti umani, commercio e produzione di sistemi d’arma sono intrinsecamente legati a questo flusso di denaro. Non serve solo a sapere cosa succede, ma anche a definire una filiera di responsabilità, dalla quale noi risparmiatori non siamo alla fine esclusi. Possiamo scegliere, ma per farlo occorre un sistema più trasparente. Sarebbe questa una delle rivoluzioni più significative della nostra epoca.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Questo articolo è uscito nella decima edizione 2021 dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, realizzato dall’Associazione 46° Parallelo.

Lettera al fondo sovrano norvegese perché disinvesta da Rheinmetall

  |   By  |  0 Comments

Lettera degli azionisti critici al Fondo sovrano norvegese affinché disinvesta dal colosso tedesco delle armi Rheinmetall

Pagare le pensioni coi profitti delle armi? Non è etico ed espone a rischi finanziari

Lettera degli azionisti critici, guidati dalla Fondazione, da Shareholders for Change-SfC, Bank für Kirche und Caritas (BKC) e insieme a un gruppo di investitori istituzionali e ONG europee, al Fondo sovrano norvegese affinché disinvesta dal colosso tedesco delle armi Rheinmetall.

Il fondo pensione norvegese, istituito nel 1990 per investire gli utili pubblici del settore petrolifero norvegese, è il più grande fondo sovrano del mondo con un patrimonio complessivo in gestione di oltre 930 miliardi di euro. È stato uno dei primi colossi a dotarsi di una policy di selezione degli investimenti secondo criteri di sostenibilità. Eppure il fondo è attualmente uno dei principali azionisti del produttore di armi tedesco Rheinmetall; la sua partecipazione è del 2,57% (circa 116 milioni di euro).

 

I contenuti della lettera al fondo sovrano norvegese

Gli investitori critici chiedono al fondo sovrano norvegese di riconsiderare il suo investimento in Rheinmetall, che fornisce bombe all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen, e di avviare un dialogo critico con l’azienda sulle sue pratiche di esportazione di armi.

 «Dal 2004 il fondo sovrano norvegese investe secondo precise linee guida di sostenibilità e disinveste regolarmente dalle aziende che non vi aderiscono», spiega Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica. «Riteniamo che investire in Rheinmetall sia in netto contrasto con le linee guida del fondo». «Il Fondo infatti non investe in società che producono armi che violino i diritti umani fondamentali». 

Tommy Piemonte, responsabile della ricerca sulla sostenibilità presso BKC, descrive così le ragioni dell’appello:

«Gli investitori dovrebbero smettere di sostenere le aziende che esportano armi in Paesi coinvolti in violazioni dei diritti umani o che contribuiscono a tali violazioni. Soprattutto se questo è in contrasto con le loro politiche di investimento».

 

La guerra nello Yemen non ha alcuna legittimità dal punto di vista del diritto internazionale.

Dal 2015 ha già ucciso oltre 100.000 persone, tra cui 12.000 civili in attacchi diretti. Nel corso del conflitto, un gran numero di bombe utilizzate dall’alleanza guidata dall’Arabia Saudita sono state prodotte e fornite dalla controllata italiana di Rheinmetall RWM Italia SpA.  

 L’11 dicembre 2019, un gruppo di organizzazioni per i diritti umani guidate dal Centro europeo per i diritti umani e costituzionali di Berlino (ECCHR), dall’organizzazione yemenita per i diritti umani Mwatana e da Rete Italiana per il Disarmo, ha presentato alla Corte penale internazionale dell’Aia un esposto contro i produttori di armi che avrebbero consapevolmente sostenuto le violazioni dei diritti umani nello Yemen, fornendo armi all’Arabia Saudita. 

 

L’engagement degli azionisti critici a Rheinmetall

Già dal 2017 Bank für Kirche und Caritas e Fondazione Finanza Etica partecipano alle assemblee annuali degli azionisti di Rheinmetall, chiedendo al Consiglio di Amministrazione di interrompere l’esportazione di armi verso Paesi che sono coinvolti in violazioni dei diritti umani. Finora Rheinmetall ha ignorato gli appelli degli azionisti.

Ma le sue pratiche di esportazione potrebbero comportare azioni legali e sanzioni per l’azienda in una causa per violazione dei diritti umani. Questo causerebbe perdite finanziarie che non piacerebbero agli azionisti.

«Speriamo di riuscire a convincere il fondo pensione norvegese a fare pressione sugli amministratori di Rheinmetall. Potrà così evitare i rischi reputazionali e legali legati a Rheinmetall e i conseguenti, possibili rischi finanziari». Aggiunge Tommy Piemonte.

La lettera è stata co-firmata da una ventina di investitori e ONG tedeschi e italiani tra cui Rete Italiana per il Disarmo, Comitato Riconversione RWM, GLS Bank, Pax Bank, Steyler Bank, Greenpeace Germany, ECCHR, Urgewald e CRIC (Corporate Responsibility Interface Centre). 

 

 

 

 

 

 

Economia di pace e fraternità

  |   By  |  0 Comments

Economia di pace e fraternità

Seminario “Economia di Pace e Fraternità”. Perugia ottobre 2018

Noi, che partecipiamo alla Marcia della Pace e della Fraternità 2018 da Perugia ad Assisi perché abbiamo deciso di fare della nostra vita un percorso di solidarietà e di pace, affermiamo la nostra aspirazione a ricondurre l’economia verso una gestione sapiente della convivenza umana, affinché questa importante attività sia, come deve essere, al servizio dello sviluppo integrale delle persone e promotrice di giustizia, di prosperità, di pace e benessere per tutti e tutte, su questa terra.

L’economia è forse la più grande palestra di relazione umane, costituita da tutte le attività di produzione di beni e servizi che possono essere negoziati, scambiati o comprati da chi ne ha bisogno o vi trova un interesse, personale e collettivo. Essa implica l’attivazione e la gestione di tutte le risorse necessarie a questo scopo. Il mercato nasce come promessa, e non come utopia, di una vita civile , come strumento di liberazione dalla dipendenza feudale. Se indirizzato bene un sistema economico può promuovere la dignità delle donne e degli uomini del nostro tempo, sostenere la creatività umana nel rispetto dell’ambiente naturale di cui fa parte, essere fattore di pace.

L’economia liberale che si è venuta affermando negli ultimi decenni produce certo grandi quantità di ricchezze ma è dannosa e va nella direzione sbagliata in quanto ci porta a consumare più di un terzo di quello che sarebbe possibile. Il suo orizzonte è l’ossessiva generazione di profitti e non la soddisfazione dei bisogni. Il suo impianto poggia sulla deregolamentazione fatta sistema e sul ruolo dello Stato che consiste, in buona sostanza, nel correggere le storture del mercato attraverso incentivi ed ammortizzatori. La speculazione finanziaria è il vero volto dell’economia del nostro tempo che si prende cura solo della massimizzazione a breve termine dell’investimento: un capitalismo finanziario (o finanzcapitalismo) che ignora i bisogni fondamentali della persona (cibo, acqua, casa, lavoro, educazione, salute, cultura, trasporti, energia) e anzi è disposto a scommettere sulla violazione dei diritti umani per accumulare capitale. Mentre la ricchezza globale nel 2017 è cresciuta del 6,4% (762 miliardi di dollari in 12 mesi) *, superando la percentuale della crescita demografica mondiale con un’impennata che avrebbe potuto porre fine alla povertà estrema sette volte **, povertà, fame e mancanza d’acqua potabile uccidono ancora un bambino ogni 6 secondi.

Il modello economico dominante genera enorme insicurezza e disuguaglianze crescenti nel nord e nel sud del mondo. Non rispetta l’ambiente, impoverisce suoli, aria e oceani, riduce drasticamente la biodiversità e produce cambiamenti climatici irreversibile su scala mondiale ***. Costringe uomini e donne ad accettare viaggi pericolosissimi e in condizioni inumane, perché, come scriveva Alessandro Leogrande,”sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile”. Non assicura lavoro, ma considera il lavoro un costo da minimizzare anziché un modo per ciascuna persona di contribuire alla società ed al bene comune e disporre dei mezzi necessari per vivere una vita dignitosa. Rende tutti vulnerabili a crisi finanziarie che periodicamente fanno vacillare in un attimo produzioni e scambi, precipitando a intervalli imprevedibili milioni di persone nella umiliazione della disoccupazione e della povertà. E’ questa l’essenza della terza guerra mondiale di cui spesso parla Papa Francesco: il diritto all’esclusione, a fronte di un modello di sviluppo insostenibile, considerato come non negoziabile.

Soprattutto ci mette in competizioni gli uni contro gli altri a tutti i livelli, in tutti gli ambiti e quasi tutti i campi, allorché in un mondo di risorse naturali limitate che va verso i 10 miliardi di esseri umani, dunque nel quale ormai siamo tutti indipendenti, la ragione comanda di fare squadra e di prendere cura gli uni degli altri.

L’economia dominante è concepita su di un paradigma bellico. Non solo le guerre del passato, combattute in zone strategiche per l’accaparramento e il controllo delle materie prime, con la scusa della difesa della democrazia; non solo le guerre regionali, in nome di deliranti egemonie locali; non solo le “nuove guerre” per aprire sempre più vaste aree offshore destinate alle sperimentazioni sociali e finanziarie criminali. Ma una violenza ancora più efferata. Una guerra globale dichiarata ormai verso il prossimo, in cui ciascuna persona si trova mobilitata a difesa del proprio stile di vita. Intanto, la precarietà diffusa acutizza la polarizzazione fra chi ha e chi non ha.

Il mercato globale e i nuovi sistemi dell’informazione giocano sulla paura e siamo ormai insensibili alle sorti di chi vive lontano a noi, e pure di chi ci sta accanto. Come scrive Timothy Garton Ash, rischiamo la “de civilizzazione”, che è l’erosione delle basi fondamentali della vita civile ed organizzata, il ricorso alla guerra come strumento per risolvere le controversie e affermare la propria presunta civiltà, la fine della politica e dei corpi intermedi che ne facevano esercizio tanto nella gestione dei conflitti quanto nella pedagogia sociale, la delegittimazione di tutte le istituzioni – sovranazionali, nazionali, locali – in nome di nuove forme plebiscitarie di consenso. Dentro la stessa Europa, la fine dell’universalismo ed il rancore delle persone rimaste prive di garanzie, in un sistema che le esclude ma ancora le attira, è la cifra di una politica schiacciata su un eterno presente, incapace di una visione che non sia un incubo.

Bisogna quindi lavorare per costruire un modello economico in grado di superare la logica di regole commerciali ingiuste, degli scambi disuguali, dello sfruttamento di suoli, territori e persone. Commercio equo e cooperazione tra gli Stati sono ben più di un dovere morale, sono imperativi di buon governo, di buona economia (letteralmente “norme di gestione della casa”):
vogliamo mettere l’economia al servizio dell’essere umano e dell’ambiente, entrambi attori fondamentali per la sopravvivenza su questo pianeta;
vogliamo ripensare lavori e stili di vita, costruendo modelli nuovi di economia improntati alla sobrietà, al riuso, alle piccole produzioni, all’auto-mutuo aiuto, a nuove e più umane relazioni di mercato e di convivenza;
vogliamo che i paesi impoveriti non solo riescano ad uscire dalla loro condizione di fragilità, ma possano fare la loro parte degli investimenti necessari per fermare il cambiamento climatico e le sue conseguenze disastrose per l’intero pianeta, oltre che assicurare il benessere dei loro abitanti;
vogliamo fare crescere una economia diversa, fondata sul bene comune, sui bisogni essenziali, sui diritti di ogni persona, e rispettosa della natura. Una economia che non produca “umanità di scarto” e non lasci nessuno indietro (come affermano anche le Nazioni Unite con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, SDGs)

In altre parole vogliamo passare da una economia di predazione tra individui, imprese e nazioni ad una economia della responsabilità in cui ciascuna persona valuta consapevolmente le conseguenze delle proprie azioni per se stessa, prendendosi cura della qualità della vita degli altri e delle generazioni che verranno.

Non dobbiamo cominciare da capo. Da molto tempo in Italia e nel mondo sono nate numerose iniziative che, grazie all’impegno di cittadini, associazioni, organizzazioni, si sono proposte di riportare l’economia e la finanza al servizio del bene comune. Le banche etiche, le cooperative, le mutue assicuratrici, le strutture di commercio equo, le imprese soaicli, i gruppi di acquisto solidale e gli organismi di benevolenza hanno dimostrato il valore e la robustezza di una economia sociale e solidale, mentre già cominciano ad emergere sperimentazioni attorno a nuovi modelli quali l’economia di comunione, del bene comune, circolare, della conoscenza aperta.

Sono le vie del futuro. Sostituiscono la cooperazione e la reciprocità alla concorrenza, il recupero e il riciclo allo spreco, la mutualità all’arricchimento personale, la gestione orizzontale e collettiva nella produzione dei beni e dei servizi al mero profitto, il benessere della comunità all’interesse del singolo, l’uso del denaro per promuovere la democrazia economica alla speculazione finanziaria, la condivisione delle conoscenza alla privatizzazione e mercificazione dei saperi, l’attenzione ed il coinvolgimento dei più deboli al loro sfruttamento. Sono forme di organizzazione economica e sociale che non trasformano gli individui in concorrenti condannati a competere sempre tra di loro ma ne fanno dei soggetti responsabili di se stessi e degli altri, riducendo lo stress, la paura e la solitudine, facendo venir meno molte regioni di conflitto. A partire da queste scelte e pratiche quotidiane ognuno di noi può partecipare alla generazione di una cultura della pace.

L’economia sociale e solidale comprende oggi una grande varietà di imprese private, istituzioni e altre strutture che hanno in comune valori, obiettivi e forme di organizzazione. Queste realtà non mirano a massimizzare i profitti ma investono i proventi delle loro attività a beneficio delle comunità in cui operano. Svolgono le loro attività economiche con un approccio di “mercato dentro la società” piuttosto che di “società di mercato”. Hanno a cuore la giustizia sociale, la solidarietà, la reciprocità, la mutualità e sono strutturate attorno ad un modello di gestione democratico in cui vengono privilegiati criteri e processi partecipativi e inclusivi. Senza nascondere i conflitti che si generano tra le persone per la presenza di interessi diversi e potenzialmente contrapposti (produttore/consumatore, risparmiatore/fruitore del credito, operatore/utente ecc.) valorizzano la dimensione fiduciaria che è insita nelle relazioni umane, stimolano il dialogo e promuovono la mediazione per arrivare a soluzioni di cui tutti possano beneficiare.

Per avanzare verso la pace è dunque urgente che ci impegniamo a capire meglio la rilevanza e l’impatto delle scelte economiche che facciamo sulla nostra vita e su quella degli altri, sulla sopravvivenza del pianeta e sulle possibilità di esistenza delle generazioni che verranno. E’ anche urgente agire di conseguenza per mettere il bene comune e i beni comuni al centro delle nostre attività e farne una discriminante della vita politica. Per questo invitiamo:

ciascuna persona a prendere coscienza delle varie forme di scambi economici e finanziari esistenti, del significato profondo, in termini umani, del loro uso e della necessità di scelte che mettano al centro le persone e l’ambiente;
le persone, le imprese, gli enti pubblici e le istituzioni a privilegiare nei loro acquisti i prodotti e servizi provenienti da chi segue modelli di economia sociale e solidale;
I cittadini e le cittadine a imparare dalle buone pratiche di partecipazione per contrastare le forme di abuso e a rivolgersi alle persone perché queste si impegnino a livello locale, nazionale e internazionale con giuste politiche economiche per lo sviluppo e la dignità umani;
i cittadini e le cittadine di ogni paese a fare dell’impegno a favore dell’economia sociale e solidale una discriminante assoluta al momento di scegliere i loro rappresentanti a funzioni elettive per incarichi pubblici e di responsabilità sociale;
i cittadini, i movimenti, le associazioni, le nuove imprese a prendere parte alla realizzazione del Forum Sociale Mondiale delle economie trasformatrici promosso da vari movimenti e reti internazionali;
gli operatori economici a mettere al centro delle loro attività produttive e commerciali la ricerca del bene comune e l’attenzione ai bisogni delle persone, del pianete, nel segno della trasparenza, della legalità, dei diritti umani e della democrazia;
gli enti locali a mettere le loro strutture, competenze e potere di convocazione e attivazione delle dinamiche cittadine al servizio della crescita di una economia di pace nei rispettivi territori, ispirandosi alle molteplici iniziative già in corso nel mondo e collegandosi agli altri enti locali attraverso le reti internazionali già esistenti;
i decisori politici nazionali (governi e parlamenti) ad adottare misure tese a favorire lo sviluppo delle varie forme di questa nuova economia, ispirandosi alle migliori pratiche in materia e sostanziarne la realizzazione con i finanziamenti necessari;
a insegnare alle nuove generazioni, sin dai primi anni di scuola, gli approcci di una economia compatibile con i diritti, con il bene degli esseri umani, con la natura;ù
i governi ad incrementare la cooperazione internazionale allo sviluppo, a fare della promozione dell’economia solidale e sociale un asse portante degli impegni in materia e impegnare le agenzie, i fondi e i programmi dell’Onu per lo sviluppo a farne una loro priorità;
i governi ad entrare nel Gruppo Pilota dell’Onu per l’economia sociale e solidale.

Vigileremo attentamente e con responsabilità su questi percorsi individuali e collettivi. Con spirito di cittadinanza attiva impugneremo le azioni sbagliate ovvero la mancanza di azione da parte delle persone elette, e ne trarremo le conseguenze. Si è globalizzato il mercato, ora è il momento dei diritti. E’ l’ora di tradurre nei fatti la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che proclama al suo primo articolo: “Tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.