CEO come allenatori di calcio. Sull’ultimo rapporto Mediobanca

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Il rapporto di Mediobanca sulle caratteristiche degli amministratori delle società bancarie e assicurative quotate con sede in Italia, “scopre” che in queste società gli amministratori arrivano a guadagnare fino a 183,4 volte il salario dei loro dipendenti. È importante che una fonte così autorevole attesti questa macroscopica disuguaglianza. Una sproporzione che sicuramente qualche problema “etico” lo pone. Infatti, perché altrimenti per definire “etico” un operatore bancario di finanza la legge italiana (art.111 bis Testo Unico Bancario) pone un tetto massimo alle politiche retributive che devono essere “tese a contenere al massimo la differenza tra la remunerazione maggiore e quella media della banca, il cui rapporto comunque non può superare il valore di 5”? Vuol dire che entro il rapporto di 5 a 1 si ritiene etica, equa o equilibrata una politica di retribuzione degli amministratori; e che oltre questo rapporto quanto meno l’eticità della retribuzione è opinabile. Diciamo che il rapporto 183,4 a 1 è molto opinabile.

Questo problema all’interno di un’azienda bancaria diventa intollerabile quando si trova a fronteggiare problemi di sostenibilità economica che possono mettere a repentaglio i posti di lavoro (di recente Unicredit) o gli investimenti dei risparmiatori (l’ultima di queste situazioni è la Banca Popolare di Bari); ma resta un problema anche quando l’azienda non è in crisi perché costituisce uno squilibrio interno non solo di denaro, ma anche di potere, sottrae risorse che possono essere impiegate per il bene comune dell’azienda, e le privatizza.

Il rapporto di Mediobanca colloca ai primi posti della classifica dei più ricchi di questa categoria, con una singola carica (perché, ovviamente, alcuni concentrano nella stessa persona la carica di presidente e amministratore delegato, dunque la massima concentrazione di potere e coincidenza di ruoli, come nel caso di Carlo Cimbri di Unipol), l’amministratore delegato di Assicurazioni Generali, Philippe Donnet, con 5,9 milioni di euro l’anno. Ben prima di Mediobanca, Fondazione Finanza Etica nella sua attività di azionariato critico, aveva interrogato i vertici di Generali su questo problema durante le Assemblee generali degli azionisti del 2018 e del 2019.

Nell’Assemblea del 2018 focalizzammo la nostra attenzione sull’abnorme dimensione che la parte variabile della retribuzione dell’AD (costituita da un bonus annuale in cash e un performance share plan di lungo periodo) poteva assumere rispetto a quella fissa: se tutti gli obiettivi fossero stati raggiunti, la remunerazione variabile sarebbe potuta arrivare fino al 519% della remunerazione fissa, che è pari a 1,4 milioni di euro. In totale, il tetto di remunerazione variabile che l’AD avrebbe potuto raggiungere era pari a circa 7,27 milioni di euro che, sommati alla remunerazione fissa, portavano a una remunerazione totale di 8,67 milioni di euro. Il rapporto fra parte fissa e parte variabile arrivava così a 437. Abbiamo notato e chiesto conto della sproporzione eccessiva fra parte variabile e parte fissa della retribuzione e chiesto all’azienda che cosa ne pensasse. La risposta in sala è stata che dovremmo essere contenti come azionisti che l’azienda paghi molto l’AD, perché vuol dire che egli raggiunge i risultati e che l’azienda va bene. La risposta a domanda scritta, comunque per noi insoddisfacente (tanto che abbiamo votato contro questo punto all’ordine del giorno), era che “Il pacchetto retributivo viene chiaramente definito in modo da garantire un bilanciamento tra componente fissa e variabile della remunerazione, nonché da favorire il raggiungimento di risultati sostenibili di lungo termine”. Tecnicamente una risposta tautologica, anche se condita da pareri del Comitato per le Nomine e la Remunerazione sulla base di “linee guida per la revisione della remunerazione e del pay-mix ove necessari, in linea con le tendenze di mercato e le analisi interne”. Tuttavia in questo piano di remunerazione si legge che, a partire dal 2018, il Gruppo Generali “ha consolidato un percorso interno di valorizzazione e focus sui temi legati alla sostenibilità, con l’obiettivo ultimo di includere i driver chiave dei fattori “ESG” (Environmental, Social and Governance) nelle balanced scorecard del Top Management di Gruppo. Sono previsti specifici indicatori di sostenibilità, rispettivamente focalizzati sull’aggiornamento della strategia di investimento sostenibile sui temi più rilevanti (ad es. Combustibili, Tabacco) e sull’implementazione di una policy di underwriting sostenibile”. Allora abbiamo chiesto dettagli su questi obiettivi e su come sono pesati all’interno del piano di remunerazione; su cosa si intenda per policy di underwriting sostenibile; su quali tipi di attività sarebbero escluse. Ma la risposta è stata ancora una volta elusiva.

L’anno dopo, nel 2019, siamo tornati su questo punto di trasparenza sugli obiettivi di sostenibilità nelle balanced scorecard del Top Management perché, nonostante le nostre richieste, tali obiettivi non sono stati esplicitati con sufficiente chiarezza nemmeno nel piano di remunerazione 2019, dove non si parla più di “ESG” e ci si limita a fare riferimento a dei “KPI (Key Performance Indicators) di sostenibilità, come ad esempio la percentuale di “green & social products”, di “green investments” o l’indicatore “quality of non financial information & reporting”. Ma anche nel 2019 la risposta è stata: “ sono previsti in tutte le balanced scorecard individuali dei manager due indicatori legati rispettivamente all’implementazione dei progetti strategici di Gruppo e locali – che includono iniziative KPI di sostenibilità (p.es. % green & social products, % green investments, quality of non financial information & reporting) – per il raggiungimento degli obiettivi del Piano”. La tautologia è un’arte, evidentemente; cioè la capacità di ripetere quanto già detto e significato in un’altra espressione o con un altro termine o elemento; in questo caso trasformare i termini della domanda in quelli della risposta senza però aggiungere niente e quindi eludendo la stessa domanda.

Non c’è dunque solo lo “scandalo” di retribuzioni abnormi, distanti dalla vita reale ed eticamente discutibili; ma anche non adeguatamente motivate e legate a parametri di sostenibilità, ESG e tutte queste cose che vanno così di moda oggi, che restano però evanescenti, flatus vocis o voci dal sen fuggite senza riscontro cogente nella realtà… se non la materiale e pesante retribuzione plurimilionaria di una categoria di persone sempre più circoscritta e sempre più ricca che, come gli allenatori di calcio, oggi guidano la Juventus, domani rescindono il contratto con buonuscita milionaria e vanno ad allenare il Liverpool e se la squadra non va bene vengono licenziati (con altra buonuscita milionaria) e vanno ad allenare l’Atletico Madrid.

 

Simone Siliani

 

 

Al mercato delle emissioni

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Oggi, giovedì 12 dicembre, alla COP25 di Madrid è la giornata contro il Mercato della CO2, indetta dall’alleanza di oltre 200 gruppi di base e indigeni americani e canadesi “It Takes Roots”.

Questa del Mercato della CO2 è una questione molto tecnica, con notevoli risvolti politici, certamente decisiva e controversa per la lotta al cambiamento climatico. Si tratta delle prima strategia sul tema adottata dalla comunità internazionale sulla base dell’accordo di Kyoto del 1997. Il mercato internazionale dellle emissioni di CO2, in teoria, dava ai paesi aderenti all’accordo degli incentivi per abbattere le emissioni, in quanto ricevevano crediti per i loro sforzi – su progetti di energia rinnovabile, conservazione delle foreste, ecc. – che potevano essere venduti ai paesi in difficoltà a raggiungere i loro obiettivi di abbattimento di emissioni. Questo strumento avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell’accordo, accelerare il raggiungimento complessivo dei limiti di emissioni previsti per mantenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto dei 2°C dei livelli preindustriali. In realtà è diventata un argomento molto controverso e dibattuto circa la sua efficacia ed è al centro del dibattito alla COP25 relativamente all’art.6 del Trattato di Parigi.

Secondo molti il mercato delle emissioni si è rivelato uno strumento non solo scarsamente efficiente, ma addirittura utile per ulteriore business, sfruttamento delle foreste e legittimazione ad inquinare. I contrari a questo strumento statale di controllo delle emissioni sostengono che esso consente alle compagnie petrolifere di investire in vasti progetti di mitigazione dei combustibili fossili in altri paesi invece di ridurre le proprie emissioni.

Infatti, chi sostiene lo strumento del mercato delle emissioni è soprattutto l’industria delle fossili, come l’International Emissions Trading Association, fra i cui membri spiccano BP, Chevron, Shell, che di recente hanno stimato come il mercato delle emissioni possa ridurre i costi per l’implementazione dell’accordo di Parigi di circa 250 miliardi di dollari l’anno fino al 2030.

Di questo mercato hanno fatto largo uso i paesi europei, costituendo il primo e più vasto mercato delle emissioni nel 2005 con l’Emission Trading System. Attraverso di esso questi paesi hanno elargito una quantità enorme di crediti alle loro industrie, ma il risultato è stato che il costo dell’inquinamento è diventato troppo basso per stimolare una reale riduzione delle emissioni di gas serra.

L’altro grande mercato delle emissioni, il Clean Development Mechanism istituito dall’art.12 del Protocollo di Kyoto – che permette ai paesi industrializzati di acquistare i Certificati di Riduzione delle Emissioni (CER) e di investirli in riduzioni di emissioni laddove ciò è meno oneroso nel mondo (i paesi in ritardo di sviluppo) – ha canalizzato oltre 138 miliardi di dollari in circa 8.000 progetti nei paesi terzi. Ma secondo un recente studio commissionato dalla Commissione Europea all’Öko-Institut di Berlino (centro di ricerca di ecologia applicata), l’85% di questi progetti avrebbero avuto luogo anche senza il Clean Development Mechanism, rendendo così il valore di quest’ultimo almeno discutibile. Tanto è vero che l’Emissions Trading System della UE ha cessato di emettere crediti CDM a favore di progetti in Brasile, India e Cina e il mercato delle emissioni californiano non ne accetta in assoluto. Questo ha portato a una svalutazione dei crediti, che nel 2008 valevano 23 dollari a tonnellata, mentre oggi, secondo le stime della Banca Mondiale, sono scesi al 30% di quel valore. Il rapporto della Banca Mondiale inoltre conclude evidenziando come solo il 20% delle emissioni globali di gas serra siano coperte da iniziative del mercato della CO2 e che di queste meno del 5% siano valutate a un prezzo coerente con il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi (stimato fra 40 $/ton.CO2 al 2020 e 50-100 $/ton.CO2 al 2030).

È pur vero che alcuni mercati delle emissioni hanno raggiunto alcuni obiettivi, come quello della California, che ha portato lo stato americano a superare già oggi gli obiettivi su energia rinnovabile previsti al 2020, e anche quello di alcuni stati del nordest degli USA, che hanno ridotto del 47% le emissioni di CO2 da produzione di energia a una velocità del 90% maggiore del resto del paese. Ma restano aperti alcuni problemi fondamentali relativi al conteggio, spesso duplicato, dei crediti per i progetti di riduzione delle emissioni da parte sia del paese emittente che dal paese ricevente (come nel caso del Brasile), problematiche di efficienza del sistema, ma anche di trasparenza e dunque di natura politica, che per l’appunto sono squadernati davanti ai negoziatori della COP25 a Madrid.

Simone Siliani

 

Unicredit: i dividendi non sono tutto

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Unicredit

Vince il profitto nel Paese disuguale”: così titola Massimo Giannini un suo articolo su Repubblica che parla della crisi di Unicredit che, con il suo nuovo piano industriale, taglia 8.000 posti di lavoro eppure, dall’altro lato, realizza 8 miliardi che distribuisce agli azionisti. Articolo interessante, certamente; finanche “radicale” diremmo. Viviamo in un mondo in cui regna la disuguaglianza: i ricchi incassano dividendi da capogiro e i lavoratori, che quei dividendi li producono, conoscono la precarietà e perdono l’unica fonte della propria sussistenza, il lavoro.
Analisi analoghe sono state pubblicate in molta stampa rilevante in Italia, e sembrerebbe una conversione non da poco. A venti anni dall’apparizione del movimento contrario alla disuguaglianza globale (si era a Seattle il 30 novembre 1999 quando il movimento irruppe sulla scena mondiale contestando l’allora simbolo di quella disuguaglianza, cioè il WTO, World Trade Organization) la stampa mainstream, che allora non guardava proprio con favore quel movimento e che considerava invece la globalizzazione come l’apertura di una fase nuova e progressiva della storia del pianeta, oggi scopre che la globalizzazione si è risolta in un acutizzarsi delle disuguaglianze e delle ingiustizie. Quel movimento, pur con tutti i suoi limiti e la sua fragilità, aveva letto e decrittato le contraddizioni del neoliberismo e della globalizzazione già da qualche decennio. L’errore che alcuni commentatori rischiano di fare ora è di non attribuire le criticità sociali di questo modello economico al neoliberismo, bensì ai robot.

A proposito di indipendenza, vi sarebbe poi da riflettere sulla pubblicità, diretta o indiretta, che i giornali e media, che oggi si scandalizzano per gli 8.000 esuberi, hanno avuto da Unicredit in questi anni per capire quanto di quel surplus, prodotto anche dai lavoratori, ha preso quella strada e quanti articoli a dir poco bonari verso Unicredit si sono fatti scrivere. Come la Exxon con il New York Times. Con la differenza che in America ci sta che qualche contraddizione emerga e finisca anche in tribunale, mentre qui in Italia tutto finisce a tarallucci e vino (molto).

D’altra parte, è noto che nelle pieghe delle attività bancarie si annidano tante cose non sempre specchiate: dalle transazioni di armi alla violazione dei diritti umani, dalle attività nocive per l’ambiente fino al sostegno a imprese dei combustibili fossili. Solo che non lo sappiamo o non vogliamo saperlo e quindi maturiamo l’erronea convinzione che le attività bancarie siano neutrali e che la loro efficacia sia misurabile solo in termini di saldo finanziario finale. Mentre, invece, esattamente come per ogni altra impresa, anche le scelte finanziarie delle banche hanno impatti sociali e ambientali importanti su cui azionisti, risparmiatori, clienti e media potrebbero riflettere. La nostra attività di azionariato critico in varie aziende quotate punta proprio a questo: rendere consapevoli gli azionisti degli effetti non economici delle scelte finanziarie e spiegare come i dividendi non sono tutto, né per l’azienda o gli azionisti, né tanto meno per gli stakeholder. Questo vale anche per le banche, come la recente storia di Unicredit sta lì, plasticamente, a dimostrare.

“La BCE deve agire ora sui cambiamenti climatici”. Lettera aperta a Christine Lagarde

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Questa è una traduzione dalla versione originale in inglese, disponibile qui.

 

Gentile Signora Lagarde,

Come nuova Presidente della Banca Centrale Europea si troverà ad affrontare molte sfide nei prossimi anni, ma la più importante è come la BCE combatterà i cambiamenti climatici e si adopererà per accelerare la transizione verso un’economia libera da emissioni di carbonio. Durante la Sua audizione al Parlamento Europeo, si è giustamente impegnata a mettere “la protezione dell’ambiente al centro della missione della BCE”. In qualità di accademici, rappresentanti della società civile e dei sindacati, imprenditori e cittadini profondamente preoccupati dai cambiamenti climatici, riteniamo che l’istituzione finanziaria più potente d’Europa non possa rimanere passiva di fronte alla crescente crisi ambientale.

I cambiamenti climatici non solo mettono in pericolo la nostra sopravvivenza, ma compromettono anche la stabilità finanziaria, l’economia reale e l’occupazione. È stato stimato che, senza un effettivo impegno per mitigarli, i rischi fisici legati ai cambiamenti climatici potrebbero comportare perdite fino a 24 trilioni di dollari del valore degli asset finanziari globali[1]. Per tutte queste ragioni, si rende necessario un massiccio trasferimento di flussi finanziari per ottenere una transizione a basse emissioni di carbonio e socialmente equa, e ciò non può essere fatto senza che le banche centrali spingano attivamente il sistema finanziario nella giusta direzione. Questo non solo renderà la nostra economia più sostenibile, ma faciliterà la creazione di posti di lavoro in settori a minore intensità di carbonio.

Sappiamo che la questione è oggetto di discussione tra molte banche centrali che fanno parte del “Network for Greening the Financial System”, compresa la BCE. Ma i progressi sono troppo lenti e il tempo stringe. Non possiamo aspettare anni per studiare i rischi finanziari a lungo termine; le banche centrali devono utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per prevenire proattivamente tali rischi. A questo proposito, desta profonda preoccupazione constatare che la BCE – in nome della neutralità dei mercati – stia ancora acquistando su larga scala asset da società che operano in settori ad alta intensità di carbonio e legati ai combustibili fossili. Se la BCE è veramente preoccupata dei rischi legati al clima, dovrebbe riconoscere che la sua attuale politica monetaria è parte del problema e sta rafforzando un pericoloso status quo.

Senza ulteriori indugi, la BCE dovrebbe impegnarsi a eliminare gradualmente dal proprio portafoglio asset ad alta intensità di carbonio, iniziando con l’immediato disinvestimento dalle attività connesse ai fossili. Senza attendere la “tassonomia verde” sviluppata dalla Commissione Europea, i criteri di impatto climatico dovrebbero essere utilizzati per controllare tutte le attività attualmente ammissibili per operazioni di politica monetaria.

Come ha dimostrato la risposta all’emergenza dell’ultima crisi finanziaria, le banche centrali non mancano di immaginazione quando la situazione lo richiede. Sotto la Sua guida, la BCE potrebbe impiegare una analoga creatività nell’affrontare le minacce dei cambiamenti climatici, riprogettando o rifinanziando operazioni di “Quantitative Easing” per garantire il sostegno a investimenti che contribuiscano alla transizione verde.

Dovrà inevitabilmente affrontare la resistenza ideologica di coloro che pensano che le banche centrali dovrebbero lasciare ad altri le politiche climatiche e rimanere neutrali rispetto ai mercati. Ma è ora di rivedere questo principio. Se si è d’accordo con Nicholas Stern che “il cambiamento climatico è un risultato del più grande fallimento del mercato che il mondo abbia visto“, l’idea che la politica monetaria dovrebbe semplicemente rispecchiare il mercato equivale ad aggiungere un fallimento normativo a quello di mercato.

D’altro canto, troverà anche un forte sostegno politico a supporto di un’azione risoluta in questa direzione. La lotta ai cambiamenti climatici è uno dei principali obiettivi politici dell’UE e, in quanto tale, rientra nel Suo mandato come definito dall’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come è stato confermato più volte dal Parlamento europeo[2]. Inoltre, la BCE, in quanto istituzione dell’UE, è giuridicamente vincolata dall’Accordo di Parigi sul clima. In caso di dubbi su questo punto in futuro, può avere piena fiducia che il Parlamento europeo – al quale la BCE è tenuta a rispondere – fornisca ulteriori chiarimenti e orientamenti sul ruolo che la BCE dovrebbe svolgere nell’ambito della più ampia strategia climatica dell’UE.

Se Lei è seriamente intenzionata a porre la BCE in prima linea nella lotta contro il cambiamento climatico, può contare sul nostro sostegno per contribuire a questo dibattito in modo costruttivo e democratico.

 

[1] Dietz, Simon, Bowen, Alex, Dixon, Charlie and Gradwell, Philip (2016) ‘Climate value at risk’ of global financial assets. Nature Climate Change, 6. pp. 676-679. ISSN 1758-678X

[2] European Parliament resolution on sustainable finance, April 2018 https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2018-0215_EN.html

 

Firme dalle organizzazioni
  1. Secours Catholique – Caritas France
  2. Potsdam Institute for Climate Impact Research
  3. Finnish Confederation of Professionals (STTK)
  4. Greenpeace Netherlands
  5. Confédération française démocratique du travail
  6. European Federation of Ethical and Alternative Banks & Financiers (FEBEA)
  7. UNI-Europa
  8. Stockholm Resilience Centre
  9. Finance Watch
  10. Institute for Climate economics (I4CE)
  11. WWF European Policy Office
  12. Fondazione Finanza Etica
  13. World Future Council
  14. Finanzwende
  15. ASUFIN
  16. FEPS
  17. IPSO ECB Trade Union
  18. The Club of Rome
  19. Positive Money Europe
  20. Veblen Institute for Economic Reforms
  21. Centre des Jeunes Dirigeants
  22. Greenpeace France
  23. Fondation Nicolas Hulot
  24. Attac Germany
  25. The Shift Project
  26. Rethinking Economics
  27. Institut Louis Bachelier
  28. KEDGE Business School
  29. WEED – World Economy, Ecology & Development
  30. Attac France
  31. AXYLIA
  32. org
  33. Society for International Development (SID)
  34. Fondation Copernic
  35. Urgewald
  36. Sauvons l’Europe
  37. BankTrack
  38. Chaire Positive Business – Université Paris Nanterre
  39. PowerShift e.V.
  40. FISAC/CGIL
  41. Sunrise Project
  42. Green Economy Coalition
  43. SOMO
  44. Greentervention
  45. The Green New Deal for Europe
  46. European Alternatives
  47. Greenpeace International
  48. Réseau Action Climat
  49. Fair Finance Institute
  50. Federazione degli Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (FOCSIV)
  51. Monetative e.V.
  52. Observatorio de la Deuda en la Globalización
  53. Attac Austria
  54. Asociación de las Comunidades Autofinanciadas
  55. Réseau International de recherche sur les Organisations et le Développement Durable (RIODD)
  56. Schutzstation Wattenmeer
  57. SDSN France
  58. Edgeryders
  59. WECF France
  60. FISAC/CGIL
  61. Banca Etica
  62. Alofa Tuvalu

 

Firme dagli esperti individuali
  1. Adam Tooze, Professor, Columbia University, European Institute, USA
  2. Adair Turner, Chairman, Energy Transitions Commission & Former Chairman of the UK Financial Services Authority, UK
  3. Tim Jackson, Professor, University of Surrey, UK
  4. Herman Wijffels, Former CEO at Rabobank, Netherlands
  5. Panicos Demetriades, Professor of Financial Economics, University of Leicester, UK
  6. Jézabel Couppey-Soubeyran, Professeur, Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne, France
  7. Nick Robins, Professor, Grantham Institute on climate change and the Environment, UK
  8. Rens van Tilburg, Director, Sustainable Finance Lab, Netherlands
  9. Francesco Papadia, Senior Fellow, Bruegel, Belgium
  10. Dominique Plihon, Professeur émérite, Université Sorbonne Paris Nord, France
  11. Vincent Aussilloux, Head of the Economics Department, France Stratégie, France
  12. Benjamin Braun, Senior Researcher, Max Planck Institute for the Study of Societies, Germany
  13. Andrew Watt, Macroeconomic Policy Institute (IMK), Germany
  14. Miguel Otero-Iglesias, Professor, IE School of Global and Public Affairs, Spain
  15. Jacob Funk Kirkegaard, Senior Fellow, PIIE, USA
  16. Jeroen van den Bergh, Professor of environmental economics, Universitat Autònoma de Barcelona, ICREA & Vrije Universiteit Amsterdam, Spain & The Netherlands
  17. Jacqueline Cramer, Professor & Former Minister of the Environment, Utrecht University, Netherlands
  18. Rick van der Ploeg, Professor of Economics, University of Oxford, UK
  19. Hans Schenk, Emeritus Professor, Utrecht University, Netherlands
  20. Dirk Schoenmaker, Professor of Banking and Finance, Erasmus University Rotterdam, Netherlands
  21. Irene van Staveren, Professor of pluralist development economics, Erasmus University Rotterdam, Netherlands
  22. Pier Vellinga, chairman of various boards and academic professor, Netherlands
  23. Bert de Vries, Prof. em., Utrecht University / SFL, Netherlands
  24. Lara Lázaro Touza, Lecturer, Universidad Complutense de Madrid, Spain
  25. Alain Grandjean, Fondateur, Carbone4, France
  26. Mark Blyth, Professor, Brown University, USA
  27. Joze Damijan, Professor of Economics, University of Ljubljana, Slovenia
  28. Koen Schoors, Professor Economics, Ghent University, Belgium
  29. Dirk Ehnts, Technical University of Chemnitz, Germany
  30. Eric Lonergan, Economist, UK
  31. Sergio Rossi, Professor of Economics, University of Fribourg, Switzerland
  32. Henk de Vos, Retired associate professor, Netherlands
  33. Hubert Kempf, Professor, Ecole Normale Supérieure Paris Saclay, France
  34. Michaël Malquarti, Promoter of a monetary reform and published author, Switzerland
  35. Hugues Chenet, Honorary Senior Research Associate, University College London, France
  36. Jean Hetzel, Expert Green Finance, France Nature Environnement, France
  37. Nadia Ameli, University College London, UK
  38. Yamina Tadjeddine, Professeure de sciences économiques, Université de Lorraine, France
  39. Sebastian Diessner, Researcher, European University Institute (EUI), Italy
  40. Catherine Karyotis, NEOMA Business School, France
  41. Jean Christophe Carteron, CSR Director, KEDGE BS, France
  42. Laurence Le Poder, Associate Professor, Kedge Business School, France
  43. Nicolas Mottis, Professor, Ecole Polytechnique, France
  44. Tim Foxon, Professor of Sustainability Transitions, SPRU, University of Sussex, UK
  45. Luis Reyes, Professor of Finance, Kedge Business School, France
  46. Jörg Haas, Head of Division International Politics, Heinrich Böll Stiftung, Germany
  47. Frank Van Lerven, Senior researcher, New Economics Foundation
  48. Oliver Picek, Senior Economist, Momentum Institut, Austria
  49. Irene Monasterolo, Assistant Professor, Climate Economics and Finance, Vienna University of Economics and Business (WU), Austria
  50. Denis Dupré, Professor of finance and ethics, Université Grenoble-Alpes, France
  51. Philippe Givry, Professor of finance, Kedge Business School, France
  52. Paul Dermine, Expert in EMU Law, Maastricht University, Belgium
  53. Léo Charles, Maître de conférence, Université Rennes 2, France
  54. Regis Marodon, Conseiller finance durable, Agence Française de Développement, France
  55. Pierre Cours-Salies, Professeur émérite Sociologie, France
  56. Anaïs Henneguelle, Assistant Professor in Economics, Université de Rennes 2, France
  57. Léo Malherbe, PhD student, Université de Bordeaux, France
  58. Ludovic Suttor-Sorel, Research officer, Finance Watch – TEG member, Belgium
  59. Christiane Bernard, CGT, France
  60. Johann Walter, Prof. Dr., Westfälische Hochschule Gelsenkirchen (University of Applied Sciences), Germany
  61. David Bourghelle, Professor, Lille University, France
  62. Enrico Giovannini, Full professor of statistics and economics, University of Rome Tor Vergata, Italy
  63. Olivier Gergaud, Professor, Kedge Business School, France
  64. Nicoletta Dentico, Director, Health Innovation in Practice (HIP), Italy
  65. Lídia Brun Carrasco, Economist, Université Libre de Bruxelles, Spain
  66. Claude Calame, Directeur d’études EHESS, ATTAC, France
  67. Janie Arneguy, Conseillère Municipale Ensemble, Ensemble, France
  68. Carlos Alvarez-Pereira, President, Innaxis Foundation, Spain
  69. Matthias Kroll, Chief Economist, World Future Council, Germany
  70. Marion Cohen, President, MC Conseil, France
  71. Axel Troost, Geschäftsführer, Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik e.V., Germany
  72. Esther Regnier, Doctor, University of Brest, France
  73. Nicholas Dorn, Part-time course lecturer, Financial sociologist, Institute of Advanced Legal Studies, London, UK
  74. Padraic Kenna, Director, Centre for Housing Law Rights and Policy, Ireland
  75. Nicolas Huchet, lecturer, Université de Toulon, France
  76. François Chantran, Attac, France
  77. Frederique Dejean, Professor, Paris Dauphine PSL, France
  78. Marc Lenglet, Associate Professor, NEOMA Business School, France
  79. Aurélien Decamps, Associate Professor, KEDGE Business School / Sulitest.org, France
  80. Nicolas Rose, Chargé de mission innovation & Référent développement durable, Région Nouvelle-Aquitaine, France
  81. Jens van’t Klooster, FWO Postdoctoral Fellow, KU Leuven, Belgium
  82. Stephanie Jalabert, Adjunct professor in Management accounting, International University of Monaco
  83. Pierre Lachaize, Directeur, Innovation Durable Consulting, France
  84. Nicolas Postel, Professor of economics, University of Lille, France
  85. Dimbi Ramonjy, Associate professor, La Rochelle Business School – Excelia group, France
  86. Janina Urban, Research Assistant, Research Institute for Societal Development, Germany
  87. Magalie Marais, Associate Professor/Enseignante-Chercheure, Montpellier Business School, France
  88. Clément Séhier, IMT Lille-Douai, France
  89. Roland Pérez, Professeur (hon.), Université Montpellier, France
  90. Morgane Fritz, Associate Professor in Supply Chain Management, La Rochelle Business School – Excelia Group, France
  91. Michel Capron, Professeur honoraire des universités, Université Paris 8 – Saint Denis, France
  92. Corinne Vercher-Chaptal, Professor, Université Paris 13, France
  93. Dilip Subramanian, Associate Professor, NEOMA Business School, France
  94. Robin Jarvis, Professor, Brunel University, UK
  95. Valentina Carbone, Professor, ESCP Europe, France
  96. Dorothea Schäfer, Research Director in the Macroeconomics Department, DIW Berlin, Germany
  97. Rudolf Hickel, Vorsitzender, Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik e.V., Germany
  98. Thomas Korbun, Scientific Director, Institute for Ecological Economy Research (IOEW), Berlin, Germany
  99. Steffen Lange, Postdoctoral Researcher, Institute for Ecological Economy Research (IOEW), Berlin, Germany
  100. Davide Castro, Digital Communications and Strategy, DiEM25, Belgium
  101. Matthias Schmelzer, Researcher, Konzeptwerk Neue Ökonomie e.V., Germany
  102. Esther Jeffers, economist, Université de Picardie Jules Verne (UPJV), France

 

 

 

Economia di pace e fraternità

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Economia di pace e fraternità

Seminario “Economia di Pace e Fraternità”. Perugia ottobre 2018

Noi, che partecipiamo alla Marcia della Pace e della Fraternità 2018 da Perugia ad Assisi perché abbiamo deciso di fare della nostra vita un percorso di solidarietà e di pace, affermiamo la nostra aspirazione a ricondurre l’economia verso una gestione sapiente della convivenza umana, affinché questa importante attività sia, come deve essere, al servizio dello sviluppo integrale delle persone e promotrice di giustizia, di prosperità, di pace e benessere per tutti e tutte, su questa terra.

L’economia è forse la più grande palestra di relazione umane, costituita da tutte le attività di produzione di beni e servizi che possono essere negoziati, scambiati o comprati da chi ne ha bisogno o vi trova un interesse, personale e collettivo. Essa implica l’attivazione e la gestione di tutte le risorse necessarie a questo scopo. Il mercato nasce come promessa, e non come utopia, di una vita civile , come strumento di liberazione dalla dipendenza feudale. Se indirizzato bene un sistema economico può promuovere la dignità delle donne e degli uomini del nostro tempo, sostenere la creatività umana nel rispetto dell’ambiente naturale di cui fa parte, essere fattore di pace.

L’economia liberale che si è venuta affermando negli ultimi decenni produce certo grandi quantità di ricchezze ma è dannosa e va nella direzione sbagliata in quanto ci porta a consumare più di un terzo di quello che sarebbe possibile. Il suo orizzonte è l’ossessiva generazione di profitti e non la soddisfazione dei bisogni. Il suo impianto poggia sulla deregolamentazione fatta sistema e sul ruolo dello Stato che consiste, in buona sostanza, nel correggere le storture del mercato attraverso incentivi ed ammortizzatori. La speculazione finanziaria è il vero volto dell’economia del nostro tempo che si prende cura solo della massimizzazione a breve termine dell’investimento: un capitalismo finanziario (o finanzcapitalismo) che ignora i bisogni fondamentali della persona (cibo, acqua, casa, lavoro, educazione, salute, cultura, trasporti, energia) e anzi è disposto a scommettere sulla violazione dei diritti umani per accumulare capitale. Mentre la ricchezza globale nel 2017 è cresciuta del 6,4% (762 miliardi di dollari in 12 mesi) *, superando la percentuale della crescita demografica mondiale con un’impennata che avrebbe potuto porre fine alla povertà estrema sette volte **, povertà, fame e mancanza d’acqua potabile uccidono ancora un bambino ogni 6 secondi.

Il modello economico dominante genera enorme insicurezza e disuguaglianze crescenti nel nord e nel sud del mondo. Non rispetta l’ambiente, impoverisce suoli, aria e oceani, riduce drasticamente la biodiversità e produce cambiamenti climatici irreversibile su scala mondiale ***. Costringe uomini e donne ad accettare viaggi pericolosissimi e in condizioni inumane, perché, come scriveva Alessandro Leogrande,”sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile”. Non assicura lavoro, ma considera il lavoro un costo da minimizzare anziché un modo per ciascuna persona di contribuire alla società ed al bene comune e disporre dei mezzi necessari per vivere una vita dignitosa. Rende tutti vulnerabili a crisi finanziarie che periodicamente fanno vacillare in un attimo produzioni e scambi, precipitando a intervalli imprevedibili milioni di persone nella umiliazione della disoccupazione e della povertà. E’ questa l’essenza della terza guerra mondiale di cui spesso parla Papa Francesco: il diritto all’esclusione, a fronte di un modello di sviluppo insostenibile, considerato come non negoziabile.

Soprattutto ci mette in competizioni gli uni contro gli altri a tutti i livelli, in tutti gli ambiti e quasi tutti i campi, allorché in un mondo di risorse naturali limitate che va verso i 10 miliardi di esseri umani, dunque nel quale ormai siamo tutti indipendenti, la ragione comanda di fare squadra e di prendere cura gli uni degli altri.

L’economia dominante è concepita su di un paradigma bellico. Non solo le guerre del passato, combattute in zone strategiche per l’accaparramento e il controllo delle materie prime, con la scusa della difesa della democrazia; non solo le guerre regionali, in nome di deliranti egemonie locali; non solo le “nuove guerre” per aprire sempre più vaste aree offshore destinate alle sperimentazioni sociali e finanziarie criminali. Ma una violenza ancora più efferata. Una guerra globale dichiarata ormai verso il prossimo, in cui ciascuna persona si trova mobilitata a difesa del proprio stile di vita. Intanto, la precarietà diffusa acutizza la polarizzazione fra chi ha e chi non ha.

Il mercato globale e i nuovi sistemi dell’informazione giocano sulla paura e siamo ormai insensibili alle sorti di chi vive lontano a noi, e pure di chi ci sta accanto. Come scrive Timothy Garton Ash, rischiamo la “de civilizzazione”, che è l’erosione delle basi fondamentali della vita civile ed organizzata, il ricorso alla guerra come strumento per risolvere le controversie e affermare la propria presunta civiltà, la fine della politica e dei corpi intermedi che ne facevano esercizio tanto nella gestione dei conflitti quanto nella pedagogia sociale, la delegittimazione di tutte le istituzioni – sovranazionali, nazionali, locali – in nome di nuove forme plebiscitarie di consenso. Dentro la stessa Europa, la fine dell’universalismo ed il rancore delle persone rimaste prive di garanzie, in un sistema che le esclude ma ancora le attira, è la cifra di una politica schiacciata su un eterno presente, incapace di una visione che non sia un incubo.

Bisogna quindi lavorare per costruire un modello economico in grado di superare la logica di regole commerciali ingiuste, degli scambi disuguali, dello sfruttamento di suoli, territori e persone. Commercio equo e cooperazione tra gli Stati sono ben più di un dovere morale, sono imperativi di buon governo, di buona economia (letteralmente “norme di gestione della casa”):
vogliamo mettere l’economia al servizio dell’essere umano e dell’ambiente, entrambi attori fondamentali per la sopravvivenza su questo pianeta;
vogliamo ripensare lavori e stili di vita, costruendo modelli nuovi di economia improntati alla sobrietà, al riuso, alle piccole produzioni, all’auto-mutuo aiuto, a nuove e più umane relazioni di mercato e di convivenza;
vogliamo che i paesi impoveriti non solo riescano ad uscire dalla loro condizione di fragilità, ma possano fare la loro parte degli investimenti necessari per fermare il cambiamento climatico e le sue conseguenze disastrose per l’intero pianeta, oltre che assicurare il benessere dei loro abitanti;
vogliamo fare crescere una economia diversa, fondata sul bene comune, sui bisogni essenziali, sui diritti di ogni persona, e rispettosa della natura. Una economia che non produca “umanità di scarto” e non lasci nessuno indietro (come affermano anche le Nazioni Unite con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, SDGs)

In altre parole vogliamo passare da una economia di predazione tra individui, imprese e nazioni ad una economia della responsabilità in cui ciascuna persona valuta consapevolmente le conseguenze delle proprie azioni per se stessa, prendendosi cura della qualità della vita degli altri e delle generazioni che verranno.

Non dobbiamo cominciare da capo. Da molto tempo in Italia e nel mondo sono nate numerose iniziative che, grazie all’impegno di cittadini, associazioni, organizzazioni, si sono proposte di riportare l’economia e la finanza al servizio del bene comune. Le banche etiche, le cooperative, le mutue assicuratrici, le strutture di commercio equo, le imprese soaicli, i gruppi di acquisto solidale e gli organismi di benevolenza hanno dimostrato il valore e la robustezza di una economia sociale e solidale, mentre già cominciano ad emergere sperimentazioni attorno a nuovi modelli quali l’economia di comunione, del bene comune, circolare, della conoscenza aperta.

Sono le vie del futuro. Sostituiscono la cooperazione e la reciprocità alla concorrenza, il recupero e il riciclo allo spreco, la mutualità all’arricchimento personale, la gestione orizzontale e collettiva nella produzione dei beni e dei servizi al mero profitto, il benessere della comunità all’interesse del singolo, l’uso del denaro per promuovere la democrazia economica alla speculazione finanziaria, la condivisione delle conoscenza alla privatizzazione e mercificazione dei saperi, l’attenzione ed il coinvolgimento dei più deboli al loro sfruttamento. Sono forme di organizzazione economica e sociale che non trasformano gli individui in concorrenti condannati a competere sempre tra di loro ma ne fanno dei soggetti responsabili di se stessi e degli altri, riducendo lo stress, la paura e la solitudine, facendo venir meno molte regioni di conflitto. A partire da queste scelte e pratiche quotidiane ognuno di noi può partecipare alla generazione di una cultura della pace.

L’economia sociale e solidale comprende oggi una grande varietà di imprese private, istituzioni e altre strutture che hanno in comune valori, obiettivi e forme di organizzazione. Queste realtà non mirano a massimizzare i profitti ma investono i proventi delle loro attività a beneficio delle comunità in cui operano. Svolgono le loro attività economiche con un approccio di “mercato dentro la società” piuttosto che di “società di mercato”. Hanno a cuore la giustizia sociale, la solidarietà, la reciprocità, la mutualità e sono strutturate attorno ad un modello di gestione democratico in cui vengono privilegiati criteri e processi partecipativi e inclusivi. Senza nascondere i conflitti che si generano tra le persone per la presenza di interessi diversi e potenzialmente contrapposti (produttore/consumatore, risparmiatore/fruitore del credito, operatore/utente ecc.) valorizzano la dimensione fiduciaria che è insita nelle relazioni umane, stimolano il dialogo e promuovono la mediazione per arrivare a soluzioni di cui tutti possano beneficiare.

Per avanzare verso la pace è dunque urgente che ci impegniamo a capire meglio la rilevanza e l’impatto delle scelte economiche che facciamo sulla nostra vita e su quella degli altri, sulla sopravvivenza del pianeta e sulle possibilità di esistenza delle generazioni che verranno. E’ anche urgente agire di conseguenza per mettere il bene comune e i beni comuni al centro delle nostre attività e farne una discriminante della vita politica. Per questo invitiamo:

ciascuna persona a prendere coscienza delle varie forme di scambi economici e finanziari esistenti, del significato profondo, in termini umani, del loro uso e della necessità di scelte che mettano al centro le persone e l’ambiente;
le persone, le imprese, gli enti pubblici e le istituzioni a privilegiare nei loro acquisti i prodotti e servizi provenienti da chi segue modelli di economia sociale e solidale;
I cittadini e le cittadine a imparare dalle buone pratiche di partecipazione per contrastare le forme di abuso e a rivolgersi alle persone perché queste si impegnino a livello locale, nazionale e internazionale con giuste politiche economiche per lo sviluppo e la dignità umani;
i cittadini e le cittadine di ogni paese a fare dell’impegno a favore dell’economia sociale e solidale una discriminante assoluta al momento di scegliere i loro rappresentanti a funzioni elettive per incarichi pubblici e di responsabilità sociale;
i cittadini, i movimenti, le associazioni, le nuove imprese a prendere parte alla realizzazione del Forum Sociale Mondiale delle economie trasformatrici promosso da vari movimenti e reti internazionali;
gli operatori economici a mettere al centro delle loro attività produttive e commerciali la ricerca del bene comune e l’attenzione ai bisogni delle persone, del pianete, nel segno della trasparenza, della legalità, dei diritti umani e della democrazia;
gli enti locali a mettere le loro strutture, competenze e potere di convocazione e attivazione delle dinamiche cittadine al servizio della crescita di una economia di pace nei rispettivi territori, ispirandosi alle molteplici iniziative già in corso nel mondo e collegandosi agli altri enti locali attraverso le reti internazionali già esistenti;
i decisori politici nazionali (governi e parlamenti) ad adottare misure tese a favorire lo sviluppo delle varie forme di questa nuova economia, ispirandosi alle migliori pratiche in materia e sostanziarne la realizzazione con i finanziamenti necessari;
a insegnare alle nuove generazioni, sin dai primi anni di scuola, gli approcci di una economia compatibile con i diritti, con il bene degli esseri umani, con la natura;ù
i governi ad incrementare la cooperazione internazionale allo sviluppo, a fare della promozione dell’economia solidale e sociale un asse portante degli impegni in materia e impegnare le agenzie, i fondi e i programmi dell’Onu per lo sviluppo a farne una loro priorità;
i governi ad entrare nel Gruppo Pilota dell’Onu per l’economia sociale e solidale.

Vigileremo attentamente e con responsabilità su questi percorsi individuali e collettivi. Con spirito di cittadinanza attiva impugneremo le azioni sbagliate ovvero la mancanza di azione da parte delle persone elette, e ne trarremo le conseguenze. Si è globalizzato il mercato, ora è il momento dei diritti. E’ l’ora di tradurre nei fatti la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che proclama al suo primo articolo: “Tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.