L’azionariato critico

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Azionariato critico gli azionisti rompiscatole che migliorano l'etica delle aziende

Cosa è l’azionariato critico e perché migliora l’etica delle aziende

Le dimensioni e il ruolo della finanza sono diventati sempre più rilevanti negli ultimi anni.
Una delle conseguenze più evidenti di questa tendenza è la cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”.
Con questo termine si indica il progressivo trasferimento di risorse – e di potere – dall’economia produttiva verso i mercati finanziari. Il capitale azionario di un numero sempre maggiore di imprese è detenuto da investitori istituzionali, quali fondi pensione e di investimento, fondi hedge, private equity. L’obiettivo di questi soggetti non è lo sviluppo di lungo termine delle imprese ma la massimizzazione del profitto, in termini di dividendi e plusvalenza sui titoli detenuti. Per soddisfare le richieste di questi attori, quindi, i parametri di riferimento per i dirigenti delle imprese diventano l’aumento del prezzo dei titoli sui mercati finanziari e lo stacco di dividendi generosi, con obiettivi di breve periodo.

In termini più generali le imprese fanno sempre più l’interesse degli azionisti – shareholders – mettendo in secondo piano le aspettative di altri portatori d’interesse – stakeholders – come lavoratori, clienti, fornitori, comunità locali.
Se le conseguenze negative della “finanziarizzazione” sono evidenti, un uso responsabile degli strumenti finanziari può dare nuove possibilità per monitorare il comportamento socio-ambientale delle imprese e per fare pressione affinché siano rispettati i diritti umani e l’ambiente, messi in secondo piano in nome del profitto.

In molti Paesi, organizzazioni della società civile e reti di piccoli azionisti hanno dato vita a una nuova forma di intervento: l’azionariato critico.

Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi società multinazionali le violazioni dei diritti umani o le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte.
L’azionariato critico ha già dato risultati significativi.
Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti. Gli azionisti, infatti, in quanto “comproprietari”, acquistano il diritto di partecipare alla vita delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali che possano avere un impatto negativo sui risultati finanziari dell’impresa.
La grande sfida dell’azionariato critico è proprio questa: dimostrare alle imprese che se non si interessano sufficientemente alle conseguenze delle proprie azioni sul clima, sugli ecosistemi o sulle comunità di riferimento, la loro condotta potrebbe mettere in pericolo la stessa capacità di generare profitti per gli azionisti, a causa della sottovalutazione di rischi potenziali, possibili sanzioni, danni alla reputazione, e quindi al marchio che per molte società, in particolare quelle che si rivolgono direttamente ai consumatori, è uno dei beni più preziosi.

Inoltre, l’azionariato critico ha lo scopo di far capire agli amministratori che i “rompiscatole” sono fondamentali per mantenere vive le aziende, perché «nel cuore stesso delle organizzazioni c’è una lotta in corso tra coloro che cercano di affermare il potere e coloro che cercano di resistergli e forse distruggerlo. È questa lotta che dà alle organizzazioni un senso di vitalità e un impulso politico di rigenerazione».

 

Azionisti critici o attivi? Una differenza non solo formale

Mentre nel mondo anglosassone si usa generalmente il termine “shareholder engagement” per identificare tutte le iniziative di azionariato responsabile, in italiano si usano almeno due termini diversi, perché diversi possono essere gli attori, le condizioni di partenza, gli obiettivi, gli strumenti usati. In particolare si parla di “azionariato critico”, di cui tratta nello specifico questo rapporto, e di “azionariato attivo”.
In comune tra questi due concetti c’è il fatto di essere promossi da azionisti di una società, il desiderio di influenzare il comportamento di un’azienda di cui si possiedono azioni, l’idea di renderle più responsabili in termini ambientali, sociali e di governance (buon governo).
Ma ci sono anche molte differenze: nella scelta delle imprese con cui dialogare, nelle domande da porre in assemblea e non solo, negli obiettivi che si intende raggiungere.

In particolare, l’azionariato attivo ha lo scopo di migliorare ulteriormente il comportamento di imprese a cui viene spesso già riconosciuto un buon profilo di responsabilità sociale, che permette loro di essere selezionate, per esempio, all’interno dei portafogli di fondi comuni di investimento etici. Mentre l’azionariato critico è rivolto principalmente a imprese che sono accusate di gravi violazioni in campo socio-ambientale e di governance (per esempio per il sospetto coinvolgimento in casi di corruzione internazionale), e ha lo scopo di denunciare le conseguenze negative derivanti da tali comportamenti.
In Italia gli esempi più chiari di queste due strategie sono Fondazione Finanza Etica ed Etica Sgr.
Fondazione Finanza Etica promuove iniziative di azionariato critico dal 2007, acquistando un numero simbolico di azioni (spesso anche una sola) di aziende coinvolte in pratiche molto controverse che sono oggetto di campagne di associazioni ambientaliste, pacifiste o per la tutela dei diritti umani. Le azioni sono acquistate con il solo scopo di poter entrare a fare domande in assemblea e ottenere risposte come azionisti.
Etica Sgr, invece, investe attivamente (tramite i suoi fondi comuni di investimento etici) in imprese “buone”, selezionate in base a una serie di criteri ESG (ambiente, sociale, governance), di cui detiene consistenti pacchetti azionari.
Ecco come spiegano le due forme di azionariato responsabile i diretti protagonisti:

Aldo Bonati Etica Sgr  Aldo Bonati, Corporate engagement and networks manager di Etica sgr
«Le aziende con cui portiamo avanti attività di azionariato attivo sono presenti nel nostro portafoglio di investimento e, di conseguenza, hanno già superato una serie di selezioni. Per esempio escludiamo a priori aziende che producono armi, petrolio, tabacco. Sono quindi aziende che hanno superato un primo esame. Ma tutte hanno dei margini di miglioramento. Noi lavoriamo su questi, li individuiamo e poniamo delle domande al management, chiedendo anche modifiche e integrazioni nella strategia aziendale».

 

Andrea Baranes Banca Etica Andrea Baranes, già Presidente di Fondazione Finanza Etica e ora vice-presidente di Banca Etica.
«Fondazione Finanza Etica Utilizza l’azionariato critico come strumento per cercare di migliorare il comportamento di aziende che,a nostro avviso, non sono virtuose. Possiamo quindi parlare di vere e proprie critiche nei loro confronti. Scegliamo imprese che, in base alle nostre analisi e alle segnalazioni di realtà della società civile, hanno comportamenti altamente dannosi per l’ambiente o per i diritti umani. Imprese che costruiscono dighe con forti impatti sull’ambiente (come in passato Enel nella Patagonia cilena), che producono armi (come Leonardo e Rheinmetall), che continuano a estrarre petrolio (come Eni)».

 


In alcuni casi gli azionisti critici usano un linguaggio diverso, più aggressivo, rispetto agli azionisti attivi, che adottano un approccio più istituzionale. E, se necessario, accompagnano la partecipazione all’assemblea con manifestazioni o flash mob davanti alla sede dell’incontro o con l’esposizione di striscioni, in modo da attirare l’attenzione della stampa e degli altri azionisti.

 

 

Questo articolo ripende alcune pagine di Azionariato critico. Storia, strumenti e successi, a cura di Mauro Meggiolaro, il primo lavoro organico in Italia che descriva la storia dell’azionariato critico dalle sue origini.

 

Pastori, lupi e Black Rock

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Pastori, lupi e Black Rock

Ma se voi foste un pastore e durante la lunga giornata ai pascoli aveste necessità di assentarvi, chiedereste al lupo di prendersi cura del gregge ? Io credo proprio di no, giusto?
È un po’ quello che ha fatto l’Unione Europea attraverso la Direzione Generale FISMA, che ha assegnato l’incarico per uno studio sullo sviluppo di strumenti e meccanismi per l’integrazione dei fattori ESG nel Quadro della Vigilanza bancaria europea e nella Strategia del business bancario e delle politiche d’investimento niente di meno che a BlackRock.

BlackRock non è un gruppo musicale degli anni ’90, né una marca di profumo. È la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York. Gestisce un patrimonio totale di quasi 7.000 miliardi dollari, di cui un terzo in Europa.
Dal 1988 quando è stata fondata, Black Rock ha accresciuto la sua capacità finanziaria e di penetrazione in molti paesi del mondo, e anche la sua influenza.
Molti importanti investitori si affidano al sistema di analisi Aladdin della BlackRock Solutions. Diverse banche centrali come la Federal Reserve americana e la Banca centrale europea (BCE), i ministeri delle finanze e i fondi sovrani ricevono consigli dai loro esperti. BlackRock ha progettato il programma di cartolarizzazione dei prestiti della BCE quando la banca centrale aveva bisogno di competenze esterne. In Grecia e a Cipro BlackRock ha analizzato a fondo i bilanci delle banche, consigliando poi i governi. È intervenuta in Irlanda e Spagna in modo analogo.
Poi, improvvisamente nel 2020 nella sua lettera agli investitori, il CEO Larry Fink è stato folgorato sulla via di Damasco e ha maturato la svolta etica e green.

Fink (Black Rock) letter to investors

Il denaro che gestiamo non è nostro ma appartiene a persone che in dozzine di diversi Paesi si impegnano per finanziare progetti di lungo termine, come la pensione. Noi sentiamo una forte responsabilità”. Così inizia la sua lettera e prosegue con una professione di fede nella lotta al cambiamento climatico che “è divenuto per le società un fattore determinante da prendere in considerazione nell’elaborare le strategie di lungo periodo”. Molto bene, naturalmente.
Per inciso nella stessa lettera del 2019 neppure un cenno all’argomento, mentre il focus era scopo & profitto. “Lo scopo non è solo la ricerca del profitto, bensì la forza propulsiva per ottenerlo”.

Ma, come si è detto, BlackRock è molto influente e l’affidamento dello studio da parte della Commissione Europea sui fattori ESG alla società newyorkese lo dimostra.
A cosa serve questo studio? A definire come si integreranno i fattori rischio ESG nella gestione del rischio bancario generale a livello europeo e a integrare i rischi ESG nel sistema di vigilanza bancaria europea e nella strategia europea sul business bancario e sulle politiche d’investimento.

Diciamo, non proprio bruscolini in termini di regolamentazione europea nelle funzioni di controllo e di indirizzo del sistema bancario del continente.

Lo studio, per un valore di 550.000 € (noccioline per la BlackRock), deve realizzare:

  • un inventario di buone pratiche e principi per l’integrazione dei rischi ESG nei processi di gestione del rischio da parte delle banche a livello europeo e nell’attività di vigilanza europea
  • un’analisi su quali siano gli ostacoli allo sviluppo di un buon funzionamento del mercato europeo della finanza verde e degli investimenti sostenibili e, quindi, l’identificazione di strumenti e strategie di dimensionamento della finanza verde e del mercato per i prodotti finanziari sostenibili.

Il più grosso player nel settore della finanza (BlackRock) viene pagato dal regolatore (la Commissione Europea) per spiegare allo stesso come redigere normative che consentano al primo di fare al meglio i propri affari privati.

Cioè, il pastore dice al lupo: “ti lascio il gregge, pensaci tu”.
Il conflitto d’interesse è macroscopico e la caduta di credibilità della Commissione Europea e della sua Strategia sulla Finanza Sostenibile (che così tanto ha impegnato le istituzioni europee) sarebbe verticale.
Infatti, i due punti cardine di questa Strategia

verrebbero inficiati dallo svolgimento da parte di BlackRock di questa attività di consulenza.

Perché BlackRock è stato uno dei maggiori critici della normativa sulla Tassonomia della Ue e, dunque, ci si può domandare quale coerenza vi sia nel chiedere una consulenza su una parte fondamentale dell’agenda sulla finanza sostenibile al suo maggiore critico.
Inoltre, BlackRock è sostenitore dell’approccio alla finanza sostenibile che considera un solo lato della stessa, cioè l’impatto finanziario che i cambiamenti climatici possono avere sui conti delle aziende. Ma, come è noto, l’approccio della Commissione europea tiene sì in considerazione questo tema, ma lo bilancia considerando anche l’impatto che le imprese hanno sull’ambiente e sul cambiamento climatico.
La differenza di approccio non è meramente tecnica, bensì sostanziale.

È del tutto evidente l’incoerenza di un incarico così importante per la normativa e l’impianto stesso della Strategia europea sulla finanza sostenibile a un soggetto che si trova in così sostanziale distanza dall’impianto della stessa Strategia.

È del tutto verosimile che il lupo si mangerà gli agnelli e quando tornerà lo stolto pastore sarà ridotto in miseria.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Ecologia Integrale. Giustizia sociale e ambientale per contrastare le disuguaglianze.

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Ecologia Integrale: giustizia sociale e ambientale per contrastare le disuguaglianze

La crisi climatica rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo economico e un benessere equamente diffuso nel mondo.

La questione, oggi, non è se i cambiamenti climatici ci siano o meno e se la causa sia l’attuale modello di sviluppo basato sulle fonti fossili. Il 97% della comunità scientifica mondiale non ha dubbi. Il problema vero è se sia sufficiente sostituire il “propulsore energetico” dello sviluppo e quanto tempo abbiamo per intervenire, sapendo che la crisi climatica è una di quelle grandi questioni umane che non può essere affrontata con la guerra, ma, al contrario, ha bisogno della cooperazione di tutti, stati e persone. E proprio qui sta la grande opportunità, perché serve una visione lungimirante che orienti le scelte da mettere in campo subito e serve la partecipazione consapevole delle persone.

In un recente studio della Stanford University sono stati intrecciati i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 e il 2010. È risultato che tra i paesi più poveri il Pil pro capite si è ridotto tra il 17% e il 31% per effetto del riscaldamento globale. Dividendo, poi, tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si vede che tra il primo e l’ultimo gruppo il divario economico oggi è del 25% maggiore di quello che ci sarebbe stato in assenza del riscaldamento globale.
Risultati confermati dall’Onu, che parla di “apartheid climatico” nei confronti dei paesi più poveri perché la disuguaglianza sociale è destinata ad aumentare assieme alle temperature, con effetti devastanti su fame, povertà e migrazioni, che ad oggi sono l’unica politica di adattamento in campo: “Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà. La crisi ambientale potrebbe portare a oltre 120 milioni di indigenti in più entro il 2030 e avere l’impatto più grave nei paesi più poveri” (dichiarazione del relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà e i diritti umani, Philip Alston, giugno 2019).

Il contrasto alle disuguaglianze diviene, così, il nuovo fronte con cui il cambiamento ecologico si deve misurare. Non bastano l’innovazione tecnologica ed energetica, la mobilità sostenibile e l’economia circolare, le bonifiche e la difesa della biodiversità, se questi campi d’azione non si misurano con lo scoglio della giustizia sociale.

Oggi, senza attenzione al problema delle disuguaglianze, molte delle emergenze ambientali, a cominciare dalla lotta ai cambiamenti climatici, non hanno alcuna possibilità di essere affrontate con successo. Questo è vero non solo per i paesi poveri ma anche per i poveri dei paesi ricchi, quelli più esposti all’inquinamento, alle mancate bonifiche, alle ondate di calore, al degrado delle periferie, alla mancanza di servizi nelle aree interne, alle scuole insicure, al fenomeno della dispersione scolastica e della povertà educativa, alla fatiscenza del trasporto pubblico, al consumo di cibo scadente, alla convivenza con inquinamenti puntiformi come le mini discariche, all’espulsione verso le cinture metropolitane. Sono quelli esclusi dalle politiche di riqualificazione energetica e messa in sicurezza (come gli ecobonus) vincolate ai meccanismi della detrazione fiscale, che esclude le famiglie incapienti. Politiche incapaci di contrastare anche il nuovo fenomeno della povertà energetica, che, secondo i recenti dati di Banca d’Italia e Istat, in Italia colpisce l’11,7% della popolazione, ovvero più di 9 milioni di persone, a cui dobbiamo aggiungere i migranti espulsi dal sistema di accoglienza, i così detti clandestini, almeno altre 600.000 che abitano il nostro territorio in condizioni di estremo disagio.

A tutto ciò si aggiunge che il degrado ambientale genera nuova e ulteriore disuguaglianza sociale, perché impoverisce progressivamente il patrimonio di ricchezza comune e la qualità di vita a cui hanno accesso le persone e perché i costi della riparazione sottraggono risorse alla spesa pubblica e, quindi, riducono le disponibilità per il welfare. Inoltre, chi vive in aree a rischio o inquinate, se può, se ne va. Si determinano così nuove forme di segregazione nello spazio sociale e di vita, che provoca isolamento culturale e politico e crea nuove disuguaglianze tra territori.

Le diversità dei territori sono certamente una ricchezza per il paese, ma se sono provocate da povertà e distanza dai servizi essenziali, da degrado e inquinamento, producono nuove periferie, colpite da disuguaglianze sociali e culturali, di riconoscimento e di cittadinanza.
Periferie che possono anche collocarsi al centro della città storica, ma sempre sono segnate da una “lontananza” dal centro in quanto luogo metaforico della ricchezza, del benessere e del potere decisionale. E non ci sono solo le periferie, ci sono le terre di mezzo, aree ibride e vulnerabili, sospese tra sviluppo e abbandono, preda di paure e rancori. Perché i luoghi che non contano generano frustrazione e rabbia nelle persone che li abitano.

 

Più dimensioni

La novità grande rispetto al secolo scorso è che oggi ci dobbiamo misurare con la multidimensionalità delle disuguaglianze. Accanto a quelle di reddito e di ricchezza privata si sono consolidate disuguaglianze di genere, generazionali (come ben ci raccontano i Fridays for Future), territoriali e ambientali, di salute e di istruzione, di sicurezza e di speranza, di accesso alla cultura, alla mobilità, in una parola disuguaglianze di ricchezza comune che generano disuguaglianze nell’autostima e nella sensazione di contare qualcosa nella società, nel potere di decidere, nella partecipazione democratica.

E oggi sta crescendo la consapevolezza che la riduzione delle disuguaglianze, per come si presentano nella loro multidimensionalità, è, come spesso ripete Carlo Borgomeo, “la condizione per lo sviluppo, non una sua conseguenza”.

Tutto ci dice che non si può avviare nessun programma di miglioramento della giustizia sociale se non si migliora anche la giustizia ambientale. E viceversa.

Per due motivi fondamentali. Oggi non basta più affrontare la redistribuzione della ricchezza (che facilmente decade in assistenzialismo), ma occorre intervenire con misure strutturali sulla pre-distribuzione, aggredendo i meccanismi che creano le disuguaglianze di ricchezza privata, e in questo diviene fondamentale migliorare il diritto di accesso per tutti alla ricchezza comune.

Contemporaneamente occorre garantire che gli interventi per la giustizia ambientale siano socialmente accettabili. Questa è la vera sfida del Green New Deal. Lo diceva Alex Langer, e lo conferma recentemente la rivolta dei gilet gialli, o la transizione ecologica sarà desiderabile o non ci sarà. O le persone che più sono state marginalizzate da questo sviluppo vedono nella transizione ecologica una speranza e un orizzonte di emancipazione e benessere, oppure saranno contro.
Farsi carico oggi dei costi della transizione per averne benefici domani è inaccettabile per chi già vive ai limiti della povertà. E, lo ripetiamo con don Milani, “dividere in parti uguali tra disuguali, accentua le disuguaglianze”. Tenere insieme giustizia ambientale e giustizia sociale è oggi la condizione per costruire nuovo benessere, nuovo ben vivere per tutti.

 

Vittorio Cogliati Dezza
Forum sulle Disuguaglianze e Diversità, già presidente di Legambiente

 

Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.

 

Foto di Free Photos

Riparare la nostra casa comune. Ecco i documenti dell’incontro di Assisi

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Riparare la nostra casa comune

L’enciclica Laudato Sì individua nella finanza una delle cause principali della crisi ecologica, sociale e culturale del nostro pianeta.
Come diffondere un modello finanziario alternativo?

La finanza etica si interroga, discute e propone concrete risposte alla crisi del sistema per l’appuntamento internazionale di novembre 2020 The Economy of Francesco.
Esperti del settore bancario e finanziario insieme a giovani economisti e ricercatori under 35 hanno lavorato insieme a moderatori esperti per proporre soluzioni concrete sui temi dell’ecologia integrale, finanza etica e sostenibile, giustizia globale e ambiente.

LEGGI  i risultati dell’incontro.

Tempo scaduto. Una nuova economia dal basso per restare in vita

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Trading in borsa
Anche alla luce della Laudato Si’, le esperienze di economia e finanza alternative possono essere una via di uscita dal pensiero neoliberista dominante?

 

Un tempo l’aggettivo “alternativo/a” veniva associato a un’azione, a una prassi, a un comportamento che nascevano da una critica rispetto al pensiero/modello dominante (politica, economia, finanza, stile di vita ecc.). Chi proponeva un approccio alternativo veniva percepito come “altro” rispetto a chi, invece, rappresentava o si riconosceva in un presunto concetto di normalità, nell’opinione comune, nelle istituzioni ufficiali: un sognatore, un polemico, un ingenuo erano gli aggettivi più utilizzati per definire chi appariva come un ostacolo, un intralcio alle magnifiche sorti e progressive promesse da chi governava la politica, l’economia e la finanza. E questa percezione difficilmente permetteva di entrare nel merito delle questioni che l’alternativo poneva, anzi ci si infastidiva per il suo continuo richiamo a cambiare il nostro stile di vita, a rimetterci in discussione, a uscire dal comfort che un certo conformismo garantiva.

 

La grande crisi

Poi, però, è arrivata la grande crisi che, a differenza delle tante piccole crisi che l’avevano preceduta, impattava fortemente sul quotidiano.

L’hanno chiamata crisi finanziaria perché a far deragliare l’economia, si diceva, era stata una finanza che aveva perso di vista la sua funzione, ma in realtà un poco alla volta ci si è accorti che si trattava di una crisi sistemica che comprendeva la dimensione politica, sociale e ambientale, oltre a quella economico/finanziaria. Una crisi che, a ben guardare, nasceva dall’aver reso quasi antitetici gli interessi della comunità umana con quelli dell’economia, i valori profondi dell’uomo, in primis quello dell’umanità, con i dogmi del liberismo, dimenticando quali erano i capisaldi del progresso umano.
Con la contrazione delle risorse (crisi dei mercati, delle economie, del lavoro ecc.) e di conseguenza degli ammortizzatori sociali che permettevano agli stati di gestire situazioni problematiche, ecco che ci siamo
accorti del “fenomeno” dei flussi migratori, degli effetti dei cambiamenti climatici, delle guerre che, comunque, continuano ad essere presenti in molte parti del mondo.

All’improvviso ci siamo sentiti più fragili e più indifesi, vittime di quel pensiero assoluto che aveva governato le nostre vite, le nostre relazioni, le nostre economie. Eppure, avevamo tutti sotto gli occhi quel pensiero divergente che, seppur chiamato in tanti modi, ci indicava, attraverso esperienze concrete, un percorso diverso, che apriva al futuro grazie a una profonda consapevolezza di come questo era possibile solo tenendo assieme economia e finanza con il bene comune, con il rispetto dell’ambiente, con la tutela dei diritti umani e profondi dell’uomo, in primis quello dell’umanità, con i dogmi del liberismo, dimenticando quali erano i capisaldi del progresso umano. Con la contrazione delle risorse (crisi dei mercati, delle economie, del lavoro ecc.) e di conseguenza degli ammortizzatori sociali che permettevano agli stati di gestire situazioni problematiche, ecco che ci siamo accorti del “fenomeno” dei flussi migratori, degli effetti dei cambiamenti climatici, delle guerre che, comunque, continuano ad essere presenti in molte parti del mondo. Penso al mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica, al movimento del commercio equo e solidale, alla cooperazione sociale (prime intuizioni delle potenzialità dell’impresa sociale), alla finanza etica (a partire dalle Mag), allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, della mobilità sostenibile, per citare le principali. Esperienze molto diverse che avevano, però, in comune elementi come la solidarietà e la reciprocità, considerate come i veri punti di forza del nostro essere umani, l’inclusione e il rispetto dell’altro come caratteristiche imprescindibili di ogni comunità, l’amore per il pianeta che ci ospita, un senso di giustizia verso le generazioni che verranno, e infine anche una responsabilità economica che ci interrogava su come produrre e distribuire una ricchezza che tenesse assieme il bene del singolo con quello della comunità umana. Echi di una cultura underground che, all’improvviso, è stata richiamata e ripresa, in un quadro naturalmente più complesso, nell’enciclica Laudato Si’ ove si parla apertamente dello stretto rapporto tra economia ed ecologia integrale, affermando come la dimensione ambientale e quella sociale siano due facce della stessa medaglia, che la posta in gioco non è lo sviluppo economico, ma la vita stessa dell’uomo sul pianeta e che questa può essere garantita solo cambiando il nostro approccio all’economia e alla finanza.

 

Generatori di futuro

Anche alla luce della Laudato Si’, le esperienze di economia e finanza alternative possono essere una via di uscita dal pensiero neoliberista dominante?

Compito di questo articolo non è quello di approfondire la lettura di questa enciclica, ma di capire se e come, anche alla luce di questo documento, le esperienze di economia e finanza alternative possano rappresentare la base di un nuovo pensiero economico generatore di futuro. A ben vedere forse era proprio questo l’obiettivo dei movimenti sui nuovi stili di vita e delle bandiere della pace che avevano caratterizzato i primi anni Novanta (oltre tre milioni di bandiere svettavano nelle nostre case). Movimenti importanti che hanno avuto un notevole effetto sull’opinione pubblica, ma che sono rimasti solo sul piano delle buone intenzioni, senza arrivare a far comprendere fino in fondo che “l’alternativa” andava agita e che le varie proposte (commercio equo, cooperazione sociale, finanza etica, agricoltura biologica, ecc.) erano pezzi di una unica visione dello sviluppo umano, il cui valore era garantito solo nel tenerle assieme.

Qualche anno fa abbiamo percorso l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte, incontrando diverse esperienze che ritenevamo potessero essere collegate a un pensiero di economia alternativa o, come adesso si dice, alle economie trasformative. L’obiettivo era quello di analizzare se e quali cambiamenti queste realtà avessero generato nell’economia e nella cultura sociale dei loro territori. Volevamo capire se eravamo in presenza di esperienze, per quanto encomiabili, isolate o se invece queste rappresentavano un nuovo movimento, al netto degli aspetti ideologici o della dicotomia profit e non profit, in grado di organizzarsi dal basso per dare risposte efficaci ai bisogni dei loro territori. La metodologia d’indagine si è basata su una griglia di osservazione che analizzava le tre dimensioni della sostenibilità (economica, sociale e ambientale), declinandole in alcuni valori caratterizzanti. A questi tre pilastri ne è stato aggiunto un quarto: la democrazia, quale elemento che porta a valorizzare le competenze e i saperi diffusi, presenti nell’impresa e nel territorio, verso l’obiettivo del bene comune.

Grazie a questo lavoro, durato quasi due anni e che ci ha permesso di incontrare alcune centinaia di realtà, anche molto variegate tra di loro, sono emersi alcuni elementi comuni di cui vado a riassumerne i principali. Il primo è indubbiamente quello della “relazione”, intesa come fondamento per la costruzione di una buona vita di comunità, ma di cui oggi si avverte sempre maggior scarsità, a danno della coesione sociale e del senso di sicurezza delle persone. Ripartire dalla relazione, consente di ricreare una comunità attorno a valori condivisi, ponendo le basi per una ripresa del senso civico e dell’attenzione all’altro da sé. La cura delle relazioni permette di sviluppare i rapporti tra i soggetti della comunità, rafforzando i legami di fiducia, onestà e solidarietà, favorendo i comportamenti altruistici.

Il valore della relazione ci ha permesso di cogliere un secondo criterio, quello della “reciprocità”, ossia una più matura sinergia tra persone e organizzazioni che vivono e operano in un dato territorio, generando scambi sia di carattere contrattuale che di gratuità.

Un terzo criterio emerso, anch’esso fortemente legato allo sviluppo dei rapporti di fiducia e scambio all’interno di una comunità, è stato quello della “legalità”, intesa non solo come conformità alle norme, ma come scelta di trasparenza e di partecipazione alla costruzione di un contesto sociale, basato sul rispetto reciproco e sulla corresponsabilità rispetto agli impatti sociali e ambientali della propria attività sulla vita di tutti i soggetti sociali della comunità. La pratica e il valore di questi aspetti ci ha fatto comprendere come, grazie a questi, la comunità diventi terreno fertile non solo per l’innovazione dei servizi o del sistema economico, ma per una vera e propria “evoluzione sociale” della comunità, capace di arricchirsi sia internamente alle singole organizzazioni, pubbliche o private, sia di ideare piattaforme di mutualità nelle quali gli attori economici e sociali possano stabilire forme di collaborazione sempre più evolute.

Attraverso questo processo prende forma il valore della “dimensione comunitaria”, basata su una interdipendenza positiva tra tutti i suoi soggetti, che si traduce in una cultura della “responsabilità sociale di territorio” grazie alla quale attori diversi interagiscono in modo efficace, valorizzando sia il contributo di ciascuno alla creazione di valore (ogni soggetto è portatore di capitale civile), sia un’equa distribuzione dello stesso (profitto sociale).

 

Economie alternative

Vorrei concludere questo articolo non elencando i vari filoni dell’economia alternativa che si sono sviluppati in questi anni (li potete trovare in nota con i vari link) ma con una esortazione a comprendere come la sfida che abbiamo di fronte non sia quella di inseguire una nuova ideologia o di affermare chi è più etico, quanto piuttosto il creare una massa critica, frutto di coesione e collaborazione tra le reti che si riconoscono in un nuovo pensiero economico, che possa effettivamente agire da catalizzatore per un nuovo pensiero sociale che, a fronte di determinati valori (e tra questi il diritto al futuro di chi verrà dopo di noi), ci permetta di adottare quelle scelte e quei comportamenti economici grazie ai quali la ricerca della nostra felicità contempli anche quella degli altri.

 

Per approfondire

economia solidale

http://www.economiasolidale.net/

economia solidaria

https://www.reasred.org/
https://www.solidariusitalia.it/per-uneconomia-di-liberazione/

economia sociale solidale

https://www.euricse.eu/wp-content/uploads/2019/05/LEconomia-Sociale-e-Solidale-
e-il-Futuro-del-Lavoro-ILO-2017.pdf

economia di comunione

http://edc-online.org/it/

economia del bene comune

https://www.economia-del-bene-comune.it/it

economia civile

https://www.scuoladieconomiacivile.it/

https://www.benecomune.net/rivista/rubriche/parole/economia-civile-sociale-solidale/

economia del dono

http://economiadeldono.org/economia-del-dono/

https://www.oikonomia.it/index.php/it/oikonomia-2007/giugno-2007/622-ontologia-ed-economia-del-dono

economia francescana

http://www.osservatoreromano.va/it/news/economia-francescana-18giu

economia di liberazione/legalità

https://www.goel.coop/comunita-diliberazione.html

https://www.liberaterra.it/it/mondo-libera-terra/libera-terra-mediterraneo.php

http://www.ncocooperazione.com/ncco/referer/100/idPage/110/lang/it/Organi-Sociali.html

economia circolare

https://www.economiacircolare.com/cose-leconomia-circolare/

bioeconomia

https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/32/la-bioeconomia-unnuovo-modello-di-sviluppo

economia di comunità – prossimità – impresa sociale

https://valori.it/tag/economia-di-comunita/

http://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/item/117-cooperative

http://www.legacoop.coop/cooperativedicomunita/cosa-sono/

http://prossimita.net/

https://italianonprofit.it/risorse/definizioni/imprese-sociali/

https://www.federsolidarieta.confcooperative.it/

https://www.legacoopsociali.it/

http://www.impresasociale.net/

 

Marco Piccolo, presidente Fondazione Finanza Etica

 

Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.

 

Foto di Gerd Altmann

Nasce con-etica programma di erogazioni liberali della Fondazione

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Nasce con-etica programma di erogazioni liberali della Fondazione

Su con-etica si troveranno bandi per finanziamenti e microcrediti, call per sostegno a ricerche, sostegno a imprese sociali innovative.

Abbiamo imparato a riconoscere nei giorni della pandemia, l’importanza del web. Per tenerci connessi, l’uno con l’altro, in tante diverse comunità e funzioni. Abbiamo imparato a comunicare le nostre paure e preoccupazioni attraverso lo schermo di un pc. Abbiamo capito che, entro certi limiti, si può lavorare a distanza grazie alla rete. Internet è diventato uno spazio vitale, di esistenza, di formazione, di scambio culturale, di acquisizione e produzione di informazioni.
Tutto è avvenuto rapidamente, quasi istantaneamente e in pochi giorni abbiamo recuperato un paio di decenni di arretratezza. Le scuole hanno improvvisamente capito e realizzato che si può anche insegnare a distanza e fare test di esami. Le imprese, che si possono disegnare strategie di sviluppo. Addirittura le istituzioni che si può deliberare, decidere, finanche governare attraverso la rete.

Così la rete improvvisamente è uscita da quella dimensione di Far West, di jungla dove tendere tranelli, odiare, sbranarsi a vicenda a cui si stava riducendo (fino al giorno prima uno strumento social era efficiente se era una “Bestia”), per diventare un luogo di crescita democratica e anche di contatto umano.
Certo, non tutto può e deve smaterializzarsi. Non mi immagino di sentire lo stesso calore di un abbraccio fisico con la persona che ami attraverso Skype. Neppure possiamo immaginare che tutta la manifattura possa essere sostituita dalla informatica e le stampanti 3D alla fin fine producono pur sempre della materia.

Per noi della finanza etica, che siamo sostenitori di una finanza al servizio dell’economia reale e non della speculazione, che concepiamo la finanza come una strumento per una crescita economica socialmente e ambientalmente sostenibile, siamo ben consapevoli dei danni che l’uso a fini speculativi delle tecnologie informatiche hanno prodotto stravolgendo il senso stesso della finanza. Basti pensare al Bitcoin o alla High Frequency Trade che permette migliaia di transazioni finanziarie in pochi secondi a fini speculativi. Ma appunto il web è uno strumento che può plasmare in una direzione o in quella opposta il modo di informarsi, di lavorare, di vivere, infine.

Nasce con-etica.
Programma di erogazioni liberali e contributi di Fondazione Finanza Etica

Ecco perché aprire un nuovo sito internet dopo il Coronavirus non è più la stessa cosa di prima.

Con-etica l’abbiamo concepito prima della crisi pandemica, ma oggi che lo inauguriamo nell’epicentro di questa crisi, ci rendiamo conto del valore diverso che può avere. Senza troppa enfasi, ma neppure come una cosa di poco valore. Su questo sito troverete una parte significativa del lavoro che quotidianamente svolgiamo come Fondazione Finanza Etica. Inauguriamo, non a caso, con un bando per premiare tesi di laurea sulla finanza etica.

Su con-etica si troveranno bandi per finanziamenti e microcrediti, call per sostegno a ricerche, sostegno a imprese sociali innovative. E, nella tradizione di trasparenza che caratterizza la finanza etica, troverete le storie (i rendiconti sostanziali) dei progetti che abbiamo sostenuto e che sosterremo.

Già dalle prime opportunità e storie che troverete all’inaugurazione del sito (che nel corso dei mesi si arricchirà di contenuti, opportunità e iniziative) si può leggere in filigrana il profilo di un’Italia diversa, vitale, innovativa, sostenibile che anche grazie alla finanza etica cerca di cambiare la propria comunità, dimostrando che almeno un’altra realtà è possibile ed è in divenire.

Anche attraverso le pagine di con-etica spingiamo il nostro sguardo oltre questi giorni duri, difficile, segnati dal dolore, dalla paura e dal distacco, per comprendere che abbiamo sempre una alternativa, una possibilità, una speranza di un tempo migliore. Che lo sarà perché noi, insieme, lo immagineremo e lo costruiremo.

 

Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

 

Feudalesimo globale

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Disuguaglianze

Feudalesimo globale

La strana non morte del neoliberismo e altre storie.

 

L’ho rivisto di recente I, Daniel Blake, il magistrale film di Ken Loach. Racconta la farsa di uno stato sociale alle prese contro persone in difficoltà. L’accanimento di una burocrazia che sfinisce e umilia con un sistema di sanzioni coloro che, per eventi della vita, fuoriescono dal mondo del lavoro o lo cercano, il lavoro. Siamo nell’Inghilterra della rutilante ricchezza e vivacità finanziaria.

La quinta economia del pianeta. Ma accanto a quello lustrinato c’è un altro paese, un popolo che non si ferma al primo ostacolo ma arranca, nelle lunghe file davanti alle banche del cibo, spesso senza fissa dimora. In uno stato di prostrazione che ricorda le pagine di Dickens. Nel 2018 il ministero della Solitudine è stato istituito per ridurre i suicidi nel paese e Philip Alston, rapporteur dell’Onu su povertà estrema e diritti umani, ha raccontato la devastazione del corpo sociale inglese in un rapporto, impietoso e acuminato come il film. Sono 14 milioni le persone che vivono in povertà (un quinto della popolazione); 1,5 milioni sono indigenti, cioè incapaci di procurarsi l’essenziale. L’Istituto degli studi fiscali parla di bambini a rischio, di un aumento nella povertà infantile del 7% tra il 2015 e il 2022, con proiezioni di espansione al 40%. Invece del luminoso futuro promesso, Brexit potrà solo peggiorare le cose.

Viviamo in società sempre più inique, meno disposte a produrre beni pubblici o a coprire rischi collettivi. I prodotti della ricchezza che continua ad aumentare, indisturbata, premiano una minoranza che si assottiglia e si separa dal resto dell’umanità. Come scrive il filosofo francese Bruno Latour, le élite trincerate nel loro sferzante benessere hanno sospeso ogni pretesa di guidare il mondo. Quello che fanno è nascondersi, barricate dietro i confini dell’egoismo, al massimo per spingere il piede sull’acceleratore dell’espansionismo economico su tutti i fronti, infischiandosene di rispettare gli indispensabili diritti degli accordi internazionali. Perché non credono più all’esistenza di un mondo da condividere.

Ma come siamo arrivati fin qui? La domanda muove la redazione di Mosaico di Pace a concentrarsi sul tema dell’economia, sulle forme di sfruttamento sempre più rapaci che attraversano ogni ambito della vita, delle relazioni tra persone e tra stati. Esemplificazioni di una guerra contro l’umano, che è guerra anche contro il pianeta. Lo ricorda con argomenti inconfutabili la Laudato Si’ di papa Francesco, per noi disamina di riferimento.

Fare mosaico di pace significa indagare le radici di violenza di un sistema che produce disuguaglianza sociale, economica, politica. Disuguaglianze verticali (interne allo stesso ambito) e orizzontali (attraverso i gruppi sociali). Disuguaglianze territoriali e generazionali. Significa comprendere i meccanismi di governance che riproducono il circuito vizioso di ricchezze assiepate nelle mani di pochi, e di precarietà che si diffondono, a pervadere la vita dei più. Significa agire nella consapevolezza che viviamo in un tempo di concentrazione di potere economico, finanziario, legale e tecnologico mai visto prima nella storia – un feudalesimo globale che fa impallidire le circoscritte gerarchie del medioevo. Significa denominare la distruzione della classe lavoratrice. Una comunità, scrive Marta Fanache aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina di sveglia e coltiva il culto della insaziabilità, dell’avidità che si fa potere”. La frammentazione dei processi produttivi e la disintermediazione del lavoro sono solo due giganteschi e dolorosi fenomeni che impongono la costruzione di nuove avanguardie dello sfruttamento, capaci di coinvolgere i lavoratori immigrati della schiavitù agricola e quelli immigrati impegnati nella logistica, accanto ai lavoratori italiani della grande distribuzione e dei servizi pubblici, per far convergere le battaglie che fermentano sui territori, intorno alle singole vertenze: forme distinte della stessa estrazione del valore prodotto dal lavoro.

Eppure, fare mosaico di pace vuol dire molto di più. Significa insistere su un’alternativa che va pensata e progettata, nel solco di decenni di elaborazione teorica e pratica. Oggi come non mai la ricerca sulle economie alternative esige di imporsi, per superare i limiti della buona pratica e farsi politica. Visione comune strutturante che sgorga dall’urgenza del poco tempo che resta. La crisi climatica è la nostra tragica opportunità. Da questa prospettiva politica partiamo, per accelerare l’economia e la società del bene comune.

Nicoletta Dentico, redattrice di Mosaico di Pace

 

Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.

Crisi climatica e coronavirus: specificità e collegamenti

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coronavirus e crisi climatica

Crisi climatica e Corona virus: due emergenze e due minacce globali del nostro tempo che presentano specificità, eppure inaspettati collegamenti. Certamente reazioni diverse da parte della comunità internazionale e dei diversi attori presenti sulla scena.

 

Ci sono delle lezioni da imparare da questa crisi pandemica anche per quella climatica.
Spesso di segno contrastante.

Intanto, ve n’è una generale che attiene a come gli Stati e la comunità internazionale si sono dimostrati – in gradi diversi – capaci di indurre cambiamenti (talvolta forzati) nelle abitudini e stili di vita nei cittadini per contrastare la minaccia del virus. Perché è stato possibile per il Corona virus e non per i cambiamenti climatici? Ovviamente perché il virus ha prodotto perdite di vite umane qui ed ora, immediate e vicine a noi, dentro le nostre comunità, senza che né la politica né la tecnica ne avessero il controllo.

Un “nemico” capace di colpire con grande velocità ed efficacia e con una evidenza immediata. Mentre i cambiamenti climatici, che hanno potenzialmente e a larga scala degli effetti ben più devastanti, colpiscono con effetti più dilazionati nel tempo, in luoghi e modi più prevedibili e quindi dandoci l’illusione di avere sotto controllo il fenomeno. È’ una pericolosa illusione, però è così.

Ovviamente, tanto per il virus che per il clima abbiamo avuto i “negazionisti”, i “minimizzatori”, i “cinici”: come il premier britannico Boris Johnson con la sua teoria dell’immunità di gregge a fronte della quale si è detto pronto a sacrificare 318.000 cittadini. Ma in entrambi i casi, questi si sono dimostrati pericolosamente fallaci.

 

Ma questi cambiamenti di stili di vita e di organizzazione sociale, sono stati ottenuti da regimi politici assai diversi l’uno dall’altro.

Da regimi autoritari e autocratici (come la Cina) e da regimi democratici (come l’Italia e altri paesi europei), in paesi retti da leader populisti (Trump, Putin) e in repubbliche parlamentari (di nuovo, l’Italia mi sembra il caso più interessante). Un fenomeno interessante da osservare per i politologi ma, credo, di un qualche rilievo perché dimostra anche la forza (e anche la responsabilità) insospettabile della politica in regimi politici così diversi, anche in quelli in cui la politica da tempo si è ritratta dal ruolo di primo attore.

Allo stesso tempo, però, viene in evidenza la capacità delle comunità di mettere in campo risposte di cooperazione e coesione sociale che sono una risorsa importante, ben oltre la crisi immediata. Certo, anche qui non in modo univoco: penso ai cittadini in fuga dalle zone contagiate per cercare rifugio nel litorale delle case estive, o la riluttanza iniziale di alcuni paesi membri della UE ad attivare aiuti materiali per il paese membro più colpito. Ma il segno prevalente è quella della solidarietà.

 

Poi ci sono gli effetti diretti dell’una crisi sull’altra che, seppur sinteticamente, vale la pena qui segnalare.

Si può legittimamente immaginare che gli effetti pesanti e niente affatto di breve durata del virus sull’economia e sulla finanza potrebbero portare diversi paesi, le istituzioni internazionali e le imprese ad abbassare il loro impegno nella riduzione delle emissioni climalternati. In particolare la caduta del prezzo del petrolio può incoraggiarne il consumo e ridurre la domanda per prodotti a basso impatto, come i veicoli elettrici.

Insomma, si può pensare che le preoccupazioni per le emissioni possano diventare secondarie rispetto alla minaccia verso la salute pubblica, in qualche modo mettendo le due azioni in contrasto, mentre in effetti sono due facce della stessa medaglia (la salute pubblica).

 

Qualcuno ha anche messo in evidenza come alcune delle reazioni al Corona virus abbiano paradossalmente degli effetti benefici sulla lotta ai cambiamenti climatici.

Ad esempio lo sviluppo del telelavoro, se avesse una diffusione più ampia e duratura a seguito della crisi, potrebbe avere l’effetto di ridurre gli spostamenti casa-lavoro e dunque anche le emissioni.

E, almeno temporaneamente, l’effetto del Corona virus sarà quello di ridurre le emissioni: un rapporto di Carbon Brief evidenzia come in febbraio le emissioni di CO2 in Cina siano state del 25% inferiori a quelle dello stesso periodo del 2019, il consumo di carbone si sia ridotto del 36% e i livelli di NO2 del 37%. Ma lo stesso rapporto spiega come tale riduzione potrebbe essere assai inferiore a seconda della velocità del paese di superare la crisi del virus e di ritornare alla normalità.

Anche la cancellazione dei voli aerei, non solo in Cina, ha ridotto l’impatto di questo mezzo di trasporto sulle emissioni di gas climalteranti, ma – sostiene la International Air Transport Association – anche l’urgenza e l’impegno economico delle compagnie aeree a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione stabiliti al 2027: le perdite stimate di 113 miliardi di dollari per il 2020 e di 21 miliardi nel 2021 per le compagnie aeree statunitensi non inducono certo all’ottimismo in questo campo.

Insomma, l’obiettivo di ridurre significativamente le emissioni al 2030 del 55% e addirittura a zero nel 2050 stabiliti dall’European Green Deal dell’Unione Europea non può essere raggiunto neppure assumendo che il 2020 sarà un’anno di eccezionale riduzione elle emissioni, perché occorrono interventi strutturali.

Che pure hanno a che vedere con una questione di grande rilievo ma spesso sottovalutato. Infatti, le fonti fossili pesano per il 60% sulle emissioni, quindi se dobbiamo raggiungere l’obiettivo di neutralità nelle emissioni al 2050 e di forte riduzione al 2030, occorre agire anche su altri settori, fra i quali certamente gli allevamenti, soprattutto bovini: che da soli valgono più del 10% dell’emissione globale di CO2; ma anche oltre il 20% di quella di metano.

 

Questa considerazione mette in campo il tema del legame fra crisi climatica e crisi pandemica dovuto al nostro modo di relazionarci con tutto il vivente.

Come specie siamo cresciuti in un rapporto di partnership. Di simbiosi con il pianeta e con tutta la vita che vi è contenuta: quando cambi le regole di questa relazione, come avvenuto per il clima e in genere nel rapporto con le altre specie animali, non puoi aspettarti che questo non abbia una qualche ricaduta, nel bene e nel male, con la nostra salute, con la nostra vita.

E non solo perché nel caso del Corona virus abbiamo l’evidenza che il contagio sia partito dal rapporto fra uomini e pipistrelli in un ambito di mercato, ma perché più in generale i cambiamenti climatici stanno producendo alterazioni importanti nei comportamenti di intere specie, ad esempio spingendo le migrazioni verso i poli. La fuga da zone calde verso zone più temperate da parte di intere classi e specie animali coincide con l’espansione di agenti patogeni, come sempre più ricerche stanno dimostrando. E del resto l’aumento dell’inquinamento atmosferico, specificamente con l’aumento del particolato in atmosfera, rende più vulnerabili i nostri polmoni all’aggressione di batteri e virus patogeni. I fenomeni dell’urbanizzazione, l’incremento del trasporto aereo, sono altri elementi che incidono pesantemente sui cambiamenti climatici e, più in generale, cambiano profondamente il nostro rapporto con il mondo naturale, con il vivente, oltre a contribuire alla diffusione di malattie e di agenti patogeni.

Se vogliamo ridurre i rischi di diffusione di malattie e prevenire i cambiamenti climatici – fra loro così intimamente legati – è necessario riconsiderare il modo con cui ci relazioniamo con l’intera biosfera e con le altre specie.

Tutto è connesso: è questa la lezione, non nuova, che dobbiamo imparare dalla crisi del Corona virus per il futuro.

 

Simone Siliani, direttore Fondazione Finanza Etica