La crisi climatica rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo economico e un benessere equamente diffuso nel mondo.
La questione, oggi, non è se i cambiamenti climatici ci siano o meno e se la causa sia l’attuale modello di sviluppo basato sulle fonti fossili. Il 97% della comunità scientifica mondiale non ha dubbi. Il problema vero è se sia sufficiente sostituire il “propulsore energetico” dello sviluppo e quanto tempo abbiamo per intervenire, sapendo che la crisi climatica è una di quelle grandi questioni umane che non può essere affrontata con la guerra, ma, al contrario, ha bisogno della cooperazione di tutti, stati e persone. E proprio qui sta la grande opportunità, perché serve una visione lungimirante che orienti le scelte da mettere in campo subito e serve la partecipazione consapevole delle persone.
In un recente studio della Stanford University sono stati intrecciati i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 e il 2010. È risultato che tra i paesi più poveri il Pil pro capite si è ridotto tra il 17% e il 31% per effetto del riscaldamento globale. Dividendo, poi, tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si vede che tra il primo e l’ultimo gruppo il divario economico oggi è del 25% maggiore di quello che ci sarebbe stato in assenza del riscaldamento globale.
Risultati confermati dall’Onu, che parla di “apartheid climatico” nei confronti dei paesi più poveri perché la disuguaglianza sociale è destinata ad aumentare assieme alle temperature, con effetti devastanti su fame, povertà e migrazioni, che ad oggi sono l’unica politica di adattamento in campo: “Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà. La crisi ambientale potrebbe portare a oltre 120 milioni di indigenti in più entro il 2030 e avere l’impatto più grave nei paesi più poveri” (dichiarazione del relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà e i diritti umani, Philip Alston, giugno 2019).
Il contrasto alle disuguaglianze diviene, così, il nuovo fronte con cui il cambiamento ecologico si deve misurare. Non bastano l’innovazione tecnologica ed energetica, la mobilità sostenibile e l’economia circolare, le bonifiche e la difesa della biodiversità, se questi campi d’azione non si misurano con lo scoglio della giustizia sociale.
Oggi, senza attenzione al problema delle disuguaglianze, molte delle emergenze ambientali, a cominciare dalla lotta ai cambiamenti climatici, non hanno alcuna possibilità di essere affrontate con successo. Questo è vero non solo per i paesi poveri ma anche per i poveri dei paesi ricchi, quelli più esposti all’inquinamento, alle mancate bonifiche, alle ondate di calore, al degrado delle periferie, alla mancanza di servizi nelle aree interne, alle scuole insicure, al fenomeno della dispersione scolastica e della povertà educativa, alla fatiscenza del trasporto pubblico, al consumo di cibo scadente, alla convivenza con inquinamenti puntiformi come le mini discariche, all’espulsione verso le cinture metropolitane. Sono quelli esclusi dalle politiche di riqualificazione energetica e messa in sicurezza (come gli ecobonus) vincolate ai meccanismi della detrazione fiscale, che esclude le famiglie incapienti. Politiche incapaci di contrastare anche il nuovo fenomeno della povertà energetica, che, secondo i recenti dati di Banca d’Italia e Istat, in Italia colpisce l’11,7% della popolazione, ovvero più di 9 milioni di persone, a cui dobbiamo aggiungere i migranti espulsi dal sistema di accoglienza, i così detti clandestini, almeno altre 600.000 che abitano il nostro territorio in condizioni di estremo disagio.
A tutto ciò si aggiunge che il degrado ambientale genera nuova e ulteriore disuguaglianza sociale, perché impoverisce progressivamente il patrimonio di ricchezza comune e la qualità di vita a cui hanno accesso le persone e perché i costi della riparazione sottraggono risorse alla spesa pubblica e, quindi, riducono le disponibilità per il welfare. Inoltre, chi vive in aree a rischio o inquinate, se può, se ne va. Si determinano così nuove forme di segregazione nello spazio sociale e di vita, che provoca isolamento culturale e politico e crea nuove disuguaglianze tra territori.
Le diversità dei territori sono certamente una ricchezza per il paese, ma se sono provocate da povertà e distanza dai servizi essenziali, da degrado e inquinamento, producono nuove periferie, colpite da disuguaglianze sociali e culturali, di riconoscimento e di cittadinanza.
Periferie che possono anche collocarsi al centro della città storica, ma sempre sono segnate da una “lontananza” dal centro in quanto luogo metaforico della ricchezza, del benessere e del potere decisionale. E non ci sono solo le periferie, ci sono le terre di mezzo, aree ibride e vulnerabili, sospese tra sviluppo e abbandono, preda di paure e rancori. Perché i luoghi che non contano generano frustrazione e rabbia nelle persone che li abitano.
Più dimensioni
La novità grande rispetto al secolo scorso è che oggi ci dobbiamo misurare con la multidimensionalità delle disuguaglianze. Accanto a quelle di reddito e di ricchezza privata si sono consolidate disuguaglianze di genere, generazionali (come ben ci raccontano i Fridays for Future), territoriali e ambientali, di salute e di istruzione, di sicurezza e di speranza, di accesso alla cultura, alla mobilità, in una parola disuguaglianze di ricchezza comune che generano disuguaglianze nell’autostima e nella sensazione di contare qualcosa nella società, nel potere di decidere, nella partecipazione democratica.
E oggi sta crescendo la consapevolezza che la riduzione delle disuguaglianze, per come si presentano nella loro multidimensionalità, è, come spesso ripete Carlo Borgomeo, “la condizione per lo sviluppo, non una sua conseguenza”.
Tutto ci dice che non si può avviare nessun programma di miglioramento della giustizia sociale se non si migliora anche la giustizia ambientale. E viceversa.
Per due motivi fondamentali. Oggi non basta più affrontare la redistribuzione della ricchezza (che facilmente decade in assistenzialismo), ma occorre intervenire con misure strutturali sulla pre-distribuzione, aggredendo i meccanismi che creano le disuguaglianze di ricchezza privata, e in questo diviene fondamentale migliorare il diritto di accesso per tutti alla ricchezza comune.
Contemporaneamente occorre garantire che gli interventi per la giustizia ambientale siano socialmente accettabili. Questa è la vera sfida del Green New Deal. Lo diceva Alex Langer, e lo conferma recentemente la rivolta dei gilet gialli, o la transizione ecologica sarà desiderabile o non ci sarà. O le persone che più sono state marginalizzate da questo sviluppo vedono nella transizione ecologica una speranza e un orizzonte di emancipazione e benessere, oppure saranno contro.
Farsi carico oggi dei costi della transizione per averne benefici domani è inaccettabile per chi già vive ai limiti della povertà. E, lo ripetiamo con don Milani, “dividere in parti uguali tra disuguali, accentua le disuguaglianze”. Tenere insieme giustizia ambientale e giustizia sociale è oggi la condizione per costruire nuovo benessere, nuovo ben vivere per tutti.
Vittorio Cogliati Dezza
Forum sulle Disuguaglianze e Diversità, già presidente di Legambiente
Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.
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