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Guerra nello Yemen, “Made in Europe”

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Guerra in Yemen, made in Europe

Oggi Giornata di azione contro le vendite di armi europee alla Coalizione saudita, nel quinto anniversario dell’inizio dei bombardamenti aerei

 

➡ Azioni di protesta virtuale per ricordare la “guerra dimenticata” nello Yemen, nel quinto anniversario dell’inizio dei bombardamenti

➡ Attivisti e Ong di 10 paesi europei (e in Italia la Coalizione di organizzazioni della società civile che lavora continuamente dal 2015) criticano le esportazioni di armi europee verso la Coalizione militare guidata dai sauditi

➡ Negli ultimi anni i governi europei hanno concesso licenze di armamenti per un valore di 42 miliardi di euro verso la Coalizione saudita

La notte del 25 marzo 2015, la Coalizione militare guidata dai sauditi lanciò il suo primo attacco contro lo Yemen. La guerra che infuria da allora nel Golfo di Aden è descritta dalle Nazioni Unite come “il peggior disastro umanitario causato dall’uomo”. Solo nel 2019, ci sono stati più di 3.000 decessi diretti e 24 milioni di persone dipendono attualmente dall’aiuto umanitario.

Dal 2015 tutte le parti coinvolte nel confitto hanno commesso gravi e ripetute violazioni del diritto internazionale umanitario. Le forze Huthi, che controllano buona parte dello Yemen, hanno bombardato indiscriminatamente centri abitati e lanciato missili, in modo altrettanto indiscriminato, verso l’Arabia Saudita. La Coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che appoggia il governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, continua dal canto suo a bombardare infrastrutture civili e a compiere attacchi indiscriminati, che uccidono e feriscono centinaia di civili.

Tutte le parti in conflitto hanno soppresso la libertà d’espressione ricorrendo a detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture.

La popolazione civile è intrappolata nel conflitto e sopporta le conseguenze peggiori. Tra morti e feriti, le vittime di questi cinque anni sono state oltre 233.000. Sono invece 12.366 i morti tra la popolazione civile tra il 25 marzo 2015 e il 7 marzo di quest’anno. La crescente crisi umanitaria ha portato circa 14 milioni di persone alla fame, e in cinque anni di conflitto ha fatto aumentare di 4,7 milioni il numero di persone sui 17 totali (di cui 7 in modo acuto) che soffrono di insicurezza alimentare. La situazione è stata esacerbata da anni di cattivo governo, che hanno favorito la diffusione della povertà e dato luogo a immense sofferenze.

Inevitabilmente, data la natura prolungata del conflitto e l’uso di tattiche militari illegali da parte di tutti i soggetti coinvolti, l’assistenza alla popolazione civile è a un punto di rottura. La sopravvivenza di circa 24 milioni di yemeniti dipende dall’assistenza umanitaria. Inoltre un nuovo problema si profila all’orizzonte: se in Italia il Covid-19 sta provocando la più grave emergenza sanitaria ed economica dalla fine della seconda guerra mondiale, non riusciamo davvero ad immaginare le conseguenze del contagio in un paese distrutto e poverissimo come lo Yemen. Un Paese in cui solo il 50% delle strutture sanitarie è in funzione, essendo gli ospedali ancora bombardati, l’80% della popolazione non ha quasi nulla, si contano milioni di sfollati e si sono già registrati oltre 2,3 milioni di casi di colera. Se la nuova pandemia da Covid-19 colpisse lo Yemen, gli effetti sarebbero devastanti e si potrebbe verificare una crescita esponenziale di casi, che andrebbero a sommarsi a quelli di colera che già riguardano milioni di persone.

Un’ampia alleanza di campagne, gruppi, movimenti e Ong della società civile di dieci paesi europei – tra cui l’Italia – rinnova in questo anniversario la richiesta di porre fine alle vendite di armi destinate ad alimentare questo drammatico conflitto e di fermare qualsiasi ruolo degli stati europei nella sofferenza causata alla popolazione yemenita. Infatti solo tra il 2015 e il 2018 i governi europei hanno concesso licenze per 42 miliardi di euro di armi in controvalore alla Coalizione a guida saudita, che le ha utilizzate nel conflitto dello Yemen.

Solo recentemente alcuni stati hanno introdotto limitazioni alla vendita di armi. In alcuni paesi queste si estendono anche gli Emirati Arabi Uniti, ma spesso esistono ancora delle lacune in queste decisioni. Le fabbriche di armi stanno facendo pressione sui singoli governi per giungere ad una prossima eliminazione delle restrizioni nazionali esistenti, sebbene la guerra non abbia perso nulla della sua brutalità.

Per questo motivo le organizzazioni della società civile avevano organizzato per oggi una “Giornata di azione” europea pianificando eventi, flash mob e spettacoli contro le esportazioni di armi verso gli stati in guerra nello Yemen, purtroppo ora cancellati a causa della pandemia di Covid-19. La mobilitazione si è quindi trasformata in una serie di proteste virtuali che vengono proposte a cittadini ed attivisti: una foto con lo slogan “Stop Arming Saudi – Basta armi in Yemen”, la condivisione della richiesta delle nostre organizzazioni e il rilancio delle infografiche sul conflitto pubblicate oggi, l’uso di hashtag come #StopArmingSaudi e #StopBombingYemen sui social, rilanciando quanto pubblicato dalle organizzazioni promotrici di tutta Europa.

La richiesta è chiara: imporre un embargo sulle armi in tutta l’Unione europea nei confronti di tutti gli stati membri della Coalizione guidata dai sauditi e tutte le parti in causa nel conflitto. Questo embargo non dovrebbe consentire alcuna eccezione per le licenze di esportazione già concesse o le consegne di componenti nell’ambito di progetti comuni europei.

Amnesty International Italia – Comitato Riconversione RWM – Fondazione Finanza Etica, Movimento dei Focolari – Oxfam Italia – Rete Italiana per il Disarmo – Rete della Pace

A livello europeo prendono parte all’azione le seguenti organizzazioni:

CAAT, Regno Unito
Urgewald, Germania
Ohne Rüstung leben, Germania
Stop Wapenhandel, Paesi Bassi
Vredesactie, Belgio
Centre Delàs per la Pau J.M. Delàs, Spagna
NESEHNUTÍ, Repubblica Ceca
Agir pour la Paix, Belgio
Svenska Freds, Svezia
Sadankomitea, Finlandia
Stop Fueling War, Francia
Aktion Aufschrei, Germania
DFG-VK, Germania

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per maggiori informazioni: segreteria@disarmo.org – 328/3399267

Feudalesimo globale

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Disuguaglianze

Feudalesimo globale

La strana non morte del neoliberismo e altre storie.

 

L’ho rivisto di recente I, Daniel Blake, il magistrale film di Ken Loach. Racconta la farsa di uno stato sociale alle prese contro persone in difficoltà. L’accanimento di una burocrazia che sfinisce e umilia con un sistema di sanzioni coloro che, per eventi della vita, fuoriescono dal mondo del lavoro o lo cercano, il lavoro. Siamo nell’Inghilterra della rutilante ricchezza e vivacità finanziaria.

La quinta economia del pianeta. Ma accanto a quello lustrinato c’è un altro paese, un popolo che non si ferma al primo ostacolo ma arranca, nelle lunghe file davanti alle banche del cibo, spesso senza fissa dimora. In uno stato di prostrazione che ricorda le pagine di Dickens. Nel 2018 il ministero della Solitudine è stato istituito per ridurre i suicidi nel paese e Philip Alston, rapporteur dell’Onu su povertà estrema e diritti umani, ha raccontato la devastazione del corpo sociale inglese in un rapporto, impietoso e acuminato come il film. Sono 14 milioni le persone che vivono in povertà (un quinto della popolazione); 1,5 milioni sono indigenti, cioè incapaci di procurarsi l’essenziale. L’Istituto degli studi fiscali parla di bambini a rischio, di un aumento nella povertà infantile del 7% tra il 2015 e il 2022, con proiezioni di espansione al 40%. Invece del luminoso futuro promesso, Brexit potrà solo peggiorare le cose.

Viviamo in società sempre più inique, meno disposte a produrre beni pubblici o a coprire rischi collettivi. I prodotti della ricchezza che continua ad aumentare, indisturbata, premiano una minoranza che si assottiglia e si separa dal resto dell’umanità. Come scrive il filosofo francese Bruno Latour, le élite trincerate nel loro sferzante benessere hanno sospeso ogni pretesa di guidare il mondo. Quello che fanno è nascondersi, barricate dietro i confini dell’egoismo, al massimo per spingere il piede sull’acceleratore dell’espansionismo economico su tutti i fronti, infischiandosene di rispettare gli indispensabili diritti degli accordi internazionali. Perché non credono più all’esistenza di un mondo da condividere.

Ma come siamo arrivati fin qui? La domanda muove la redazione di Mosaico di Pace a concentrarsi sul tema dell’economia, sulle forme di sfruttamento sempre più rapaci che attraversano ogni ambito della vita, delle relazioni tra persone e tra stati. Esemplificazioni di una guerra contro l’umano, che è guerra anche contro il pianeta. Lo ricorda con argomenti inconfutabili la Laudato Si’ di papa Francesco, per noi disamina di riferimento.

Fare mosaico di pace significa indagare le radici di violenza di un sistema che produce disuguaglianza sociale, economica, politica. Disuguaglianze verticali (interne allo stesso ambito) e orizzontali (attraverso i gruppi sociali). Disuguaglianze territoriali e generazionali. Significa comprendere i meccanismi di governance che riproducono il circuito vizioso di ricchezze assiepate nelle mani di pochi, e di precarietà che si diffondono, a pervadere la vita dei più. Significa agire nella consapevolezza che viviamo in un tempo di concentrazione di potere economico, finanziario, legale e tecnologico mai visto prima nella storia – un feudalesimo globale che fa impallidire le circoscritte gerarchie del medioevo. Significa denominare la distruzione della classe lavoratrice. Una comunità, scrive Marta Fanache aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina di sveglia e coltiva il culto della insaziabilità, dell’avidità che si fa potere”. La frammentazione dei processi produttivi e la disintermediazione del lavoro sono solo due giganteschi e dolorosi fenomeni che impongono la costruzione di nuove avanguardie dello sfruttamento, capaci di coinvolgere i lavoratori immigrati della schiavitù agricola e quelli immigrati impegnati nella logistica, accanto ai lavoratori italiani della grande distribuzione e dei servizi pubblici, per far convergere le battaglie che fermentano sui territori, intorno alle singole vertenze: forme distinte della stessa estrazione del valore prodotto dal lavoro.

Eppure, fare mosaico di pace vuol dire molto di più. Significa insistere su un’alternativa che va pensata e progettata, nel solco di decenni di elaborazione teorica e pratica. Oggi come non mai la ricerca sulle economie alternative esige di imporsi, per superare i limiti della buona pratica e farsi politica. Visione comune strutturante che sgorga dall’urgenza del poco tempo che resta. La crisi climatica è la nostra tragica opportunità. Da questa prospettiva politica partiamo, per accelerare l’economia e la società del bene comune.

Nicoletta Dentico, redattrice di Mosaico di Pace

 

Questo articolo è parte del Dossier “Economie per un futuro del pianeta“, a cura di Nicoletta Dentico e Marco Piccolo, pubblicato sul numero di marzo 2020 della rivista Mosaico di Pace, che ringraziamo per la disponibilità a ripubblicare.

Crisi climatica e coronavirus: specificità e collegamenti

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coronavirus e crisi climatica

Crisi climatica e Corona virus: due emergenze e due minacce globali del nostro tempo che presentano specificità, eppure inaspettati collegamenti. Certamente reazioni diverse da parte della comunità internazionale e dei diversi attori presenti sulla scena.

 

Ci sono delle lezioni da imparare da questa crisi pandemica anche per quella climatica.
Spesso di segno contrastante.

Intanto, ve n’è una generale che attiene a come gli Stati e la comunità internazionale si sono dimostrati – in gradi diversi – capaci di indurre cambiamenti (talvolta forzati) nelle abitudini e stili di vita nei cittadini per contrastare la minaccia del virus. Perché è stato possibile per il Corona virus e non per i cambiamenti climatici? Ovviamente perché il virus ha prodotto perdite di vite umane qui ed ora, immediate e vicine a noi, dentro le nostre comunità, senza che né la politica né la tecnica ne avessero il controllo.

Un “nemico” capace di colpire con grande velocità ed efficacia e con una evidenza immediata. Mentre i cambiamenti climatici, che hanno potenzialmente e a larga scala degli effetti ben più devastanti, colpiscono con effetti più dilazionati nel tempo, in luoghi e modi più prevedibili e quindi dandoci l’illusione di avere sotto controllo il fenomeno. È’ una pericolosa illusione, però è così.

Ovviamente, tanto per il virus che per il clima abbiamo avuto i “negazionisti”, i “minimizzatori”, i “cinici”: come il premier britannico Boris Johnson con la sua teoria dell’immunità di gregge a fronte della quale si è detto pronto a sacrificare 318.000 cittadini. Ma in entrambi i casi, questi si sono dimostrati pericolosamente fallaci.

 

Ma questi cambiamenti di stili di vita e di organizzazione sociale, sono stati ottenuti da regimi politici assai diversi l’uno dall’altro.

Da regimi autoritari e autocratici (come la Cina) e da regimi democratici (come l’Italia e altri paesi europei), in paesi retti da leader populisti (Trump, Putin) e in repubbliche parlamentari (di nuovo, l’Italia mi sembra il caso più interessante). Un fenomeno interessante da osservare per i politologi ma, credo, di un qualche rilievo perché dimostra anche la forza (e anche la responsabilità) insospettabile della politica in regimi politici così diversi, anche in quelli in cui la politica da tempo si è ritratta dal ruolo di primo attore.

Allo stesso tempo, però, viene in evidenza la capacità delle comunità di mettere in campo risposte di cooperazione e coesione sociale che sono una risorsa importante, ben oltre la crisi immediata. Certo, anche qui non in modo univoco: penso ai cittadini in fuga dalle zone contagiate per cercare rifugio nel litorale delle case estive, o la riluttanza iniziale di alcuni paesi membri della UE ad attivare aiuti materiali per il paese membro più colpito. Ma il segno prevalente è quella della solidarietà.

 

Poi ci sono gli effetti diretti dell’una crisi sull’altra che, seppur sinteticamente, vale la pena qui segnalare.

Si può legittimamente immaginare che gli effetti pesanti e niente affatto di breve durata del virus sull’economia e sulla finanza potrebbero portare diversi paesi, le istituzioni internazionali e le imprese ad abbassare il loro impegno nella riduzione delle emissioni climalternati. In particolare la caduta del prezzo del petrolio può incoraggiarne il consumo e ridurre la domanda per prodotti a basso impatto, come i veicoli elettrici.

Insomma, si può pensare che le preoccupazioni per le emissioni possano diventare secondarie rispetto alla minaccia verso la salute pubblica, in qualche modo mettendo le due azioni in contrasto, mentre in effetti sono due facce della stessa medaglia (la salute pubblica).

 

Qualcuno ha anche messo in evidenza come alcune delle reazioni al Corona virus abbiano paradossalmente degli effetti benefici sulla lotta ai cambiamenti climatici.

Ad esempio lo sviluppo del telelavoro, se avesse una diffusione più ampia e duratura a seguito della crisi, potrebbe avere l’effetto di ridurre gli spostamenti casa-lavoro e dunque anche le emissioni.

E, almeno temporaneamente, l’effetto del Corona virus sarà quello di ridurre le emissioni: un rapporto di Carbon Brief evidenzia come in febbraio le emissioni di CO2 in Cina siano state del 25% inferiori a quelle dello stesso periodo del 2019, il consumo di carbone si sia ridotto del 36% e i livelli di NO2 del 37%. Ma lo stesso rapporto spiega come tale riduzione potrebbe essere assai inferiore a seconda della velocità del paese di superare la crisi del virus e di ritornare alla normalità.

Anche la cancellazione dei voli aerei, non solo in Cina, ha ridotto l’impatto di questo mezzo di trasporto sulle emissioni di gas climalteranti, ma – sostiene la International Air Transport Association – anche l’urgenza e l’impegno economico delle compagnie aeree a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione stabiliti al 2027: le perdite stimate di 113 miliardi di dollari per il 2020 e di 21 miliardi nel 2021 per le compagnie aeree statunitensi non inducono certo all’ottimismo in questo campo.

Insomma, l’obiettivo di ridurre significativamente le emissioni al 2030 del 55% e addirittura a zero nel 2050 stabiliti dall’European Green Deal dell’Unione Europea non può essere raggiunto neppure assumendo che il 2020 sarà un’anno di eccezionale riduzione elle emissioni, perché occorrono interventi strutturali.

Che pure hanno a che vedere con una questione di grande rilievo ma spesso sottovalutato. Infatti, le fonti fossili pesano per il 60% sulle emissioni, quindi se dobbiamo raggiungere l’obiettivo di neutralità nelle emissioni al 2050 e di forte riduzione al 2030, occorre agire anche su altri settori, fra i quali certamente gli allevamenti, soprattutto bovini: che da soli valgono più del 10% dell’emissione globale di CO2; ma anche oltre il 20% di quella di metano.

 

Questa considerazione mette in campo il tema del legame fra crisi climatica e crisi pandemica dovuto al nostro modo di relazionarci con tutto il vivente.

Come specie siamo cresciuti in un rapporto di partnership. Di simbiosi con il pianeta e con tutta la vita che vi è contenuta: quando cambi le regole di questa relazione, come avvenuto per il clima e in genere nel rapporto con le altre specie animali, non puoi aspettarti che questo non abbia una qualche ricaduta, nel bene e nel male, con la nostra salute, con la nostra vita.

E non solo perché nel caso del Corona virus abbiamo l’evidenza che il contagio sia partito dal rapporto fra uomini e pipistrelli in un ambito di mercato, ma perché più in generale i cambiamenti climatici stanno producendo alterazioni importanti nei comportamenti di intere specie, ad esempio spingendo le migrazioni verso i poli. La fuga da zone calde verso zone più temperate da parte di intere classi e specie animali coincide con l’espansione di agenti patogeni, come sempre più ricerche stanno dimostrando. E del resto l’aumento dell’inquinamento atmosferico, specificamente con l’aumento del particolato in atmosfera, rende più vulnerabili i nostri polmoni all’aggressione di batteri e virus patogeni. I fenomeni dell’urbanizzazione, l’incremento del trasporto aereo, sono altri elementi che incidono pesantemente sui cambiamenti climatici e, più in generale, cambiano profondamente il nostro rapporto con il mondo naturale, con il vivente, oltre a contribuire alla diffusione di malattie e di agenti patogeni.

Se vogliamo ridurre i rischi di diffusione di malattie e prevenire i cambiamenti climatici – fra loro così intimamente legati – è necessario riconsiderare il modo con cui ci relazioniamo con l’intera biosfera e con le altre specie.

Tutto è connesso: è questa la lezione, non nuova, che dobbiamo imparare dalla crisi del Corona virus per il futuro.

 

Simone Siliani, direttore Fondazione Finanza Etica

Coronavirus e monitoraggio dei dati personali

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Monitoraggio e trattamento dati personali

Coronavirus e monitoraggio dei dati personali.

Cerchiamo di capirne di più

 

Tra i temi che stanno emergendo sulle modalità di monitoraggio per evitare il diffondersi del contagio c’è quello del rapporto tra controllo e protezione dei dati personali.

Oggi ospitiamo sul nostro sito una parte dei contenuto della newsletter di Carola Frediani “Guerre di Rete”, che ringraziamo per la disponibilità.

In particolare oggi, mercoledì 18 marzo, molti quotidiani italiani aprono con l’allarme del Viminale sul fatto che ancora troppa gente esce di casa senza giustificato motivo.

Sul Corriere della Sera Cesare Giuzzi spiega come la Regione, in considerazione del fatto che gli spostamenti si sono ridotti solo del 60%, stia utilizzando da qualche giorno un “sistema di analisi degli spostamenti «da cella a cella» dei cellulari per capire quanti abitanti si muovono sul suo territorio. E lo fa grazie alle compagnie telefoniche che hanno messo a disposizione i dati del traffico dei ripetitori e l’indice dei «segnali» che si muovono da una cella all’altra della telefonia mobile. Non si tratta di una sorveglianza da 007 che consente di tracciare il singolo cellulare, anche perché le norme sulla privacy non lo consentirebbero, ma di una tecnologia che permette di ricavare quanti spostamenti in meno si verificano rispetto a un determinato periodo”.

Abbiamo quindi chiesto aiuto a Carola Frediani, per capirne un po’ di più, vista la delicatezza del tema.

La tentazione del monitoraggio in Italia

Sulla protezione dei dati, in Italia mancano tutele normative sia durante che dopo l’emergenza.
Nel decreto legge dello scorso 9 marzo “manca una clausola di salvaguardia. E bisogna inserirla prima che venga convertito in legge”, avverte Luca Bolognini, presidente dell’Istituto per la privacy”, su Business Insider Italia. “Uno dei rischi è che gli strumenti di controllo dei contagi utilizzati durante questo periodo non vengano poi “disattivati” non solo dopo, ma anche in una fase meno acuta dell’epidemia”. Parere simile di Emilio Tosi, professore di Diritto Privato Università degli Studi di Milano Bicocca: “è necessario che il governo, più in generale il parlamento in sede di conversione del decreto, fornisca precise garanzie di cancellazione o anonimizzazione di questi dati in futuro”.

E in Europa

Il tema si pone anche a livello europeo. Anche perché c’è chi sta seguendo un modello cinese o sudcoreano. Ricercatori di una scuola medica tedesca di Hannover, insieme a una società di Amburgo, Ubilabs, stanno sviluppando una app di tracciamento e monitoraggio delle persone (attraverso il Gps dei telefoni) basata proprio su un esempio sudcoreano, anche se insistono sul fatto che la loro sarebbe più attenta alla privacy. E che comunque i dati sarebbero volontari, di contagiati e non. “In base alla posizione dei proprietari negli ultimi 14 giorni, viene stabilito se possono essere stati in contatto con persone infette”, scrive Neuste Nachrichten. Inoltre “una mappa interattiva mostra le aree con alti tassi di infezione che possono essere evitate dall’utente”. In un’Europa in cui l’emergenza coronavirus si sta allargando, la tentazione di adottare tecnologie di monitoraggio invasive crescerà, scrive Politico.

Un nuovo strumento di controllo è per sempre

Intanto in Cina, mentre i numeri dei contagi di coronavirus stanno scendendo, molti si chiedono se le misure drastiche di monitoraggio e tracciamento degli abitanti adottate (la cui efficacia è per altro contestata) debbano ancora restare in piedi. E alcuni ritengono che sia un’occasione per stringere ancora di più le maglie del controllo sociale. The Guardian

App iraniana rimossa

Invece in Iran Google ha rimosso una app Android sviluppata dal governo del Paese per testare e monitorare le infezioni da coronavirus. Apparentemente la motivazione è legata, dice Zdnet, ad affermazioni fuorvianti, cioè all’idea che la app potesse individuare casi di coronavirus attraverso un questionario sui sintomi. Ma la preoccupazione era anche che questa potesse essere usata dal governo iraniano come un ulteriore mezzo di sorveglianza della popolazione. L’app infatti, chiamata AC19, sostiene di poter individuare se una persona è infetta. Una volta scaricata, e verificato il numero di telefono, chiede il permesso di inviare i dati di geolocalizzazione al governo (ma, come spiega Vice, la richiesta di permesso per varie ragioni spesso non appare o non è compresa).

Sanità, meno risorse al pubblico più favori ai privati e ora il virus ci presenta il conto

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Porta di un ospedale

*questo articolo è uscito su strisciarossa, che ringraziamo.

 

Con il progredire del contagio da Corona Virus di questi giorni, aumentano le preoccupazioni per la tenuta del nostro Sistema Sanitario Nazionale (di cui celebriamo quest’anno il 40° compleanno). Cioè, ci rendiamo conto, improvvisamente, di fronte ad una crisi certo eccezionale (ma a queste devono far fronte i sistemi di protezione, sanitaria come idrogeologico o sismico), che questo sistema così come oggi è configurato, non è in grado di assicurare un servizio universalistico di tutela forse del più sacro dei beni comuni, cioè la salute pubblica. L’epicentro di questa crisi si colloca non in uno dei territori in cui la qualità del sistema sanitario è, secondo i Livelli essenziali di assistenza (LEA), al di sotto del punteggio minimo accettabile, bensì in uno dei più eccellenti, tanto da essere definito un “modello” (Lombardia o Veneto). Possiamo immaginare cosa potrà succedere quando e se saranno colpite con la stessa intensità le Regioni del sud. Ma la fragilità del nostro Sistema Sanitario Nazionale davanti alla crisi non è come una delle dieci piaghe d’Egitto mandate dal Signore per punire il popolo egizio: è piuttosto uno degli esiti di almeno 20 anni di rimodellamento e riduzione del sistema. Un esito ampiamente prevedibile e previsto; grave ma, forse, non irreversibile. Purché ci si predisponga a riflettere sulle lezioni che questa crisi ci consegna. Propongo in tal senso di assumere la lectio corretta dell’esegesi biblica per cui solo la prima delle 10 piaghe è definita tale, mentre le altre nove sono dette «prodigi» o «segni». Accogliamo dunque i segni che ci può lasciare questa crisi.

Numeri che dicono tutto

Numeri. L’Italia ha ridotto progressivamente dal 1997 al 2015 il numero dei posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva del 51%, passando da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Infatti, per correre ai ripari (ma direi con colpevole ritardo), si è dovuto fare una gara-lampo della Consip per dotarsi di 1.100 nuovi posti letto nelle terapie intensive e sub intensive italiane. Entro 3 giorni saranno consegnati 119 ventilatori, 200 tra 4 e 7 giorni e 886 tra 8 e 15 giorni. Per altri 2.713, che consentono l’allestimento di altrettanti posti letto, la consegna è prevista tra 16 e 45 giorni. Così ci informa un’ANSA del 10 marzo.

I fondi per gli investimenti sanitari fra il 2014 e il 2017 hanno subito una drastica riduzione del 42% che, come dichiara la Corte dei Conti, comporta il rischio di …riverberarsi sulle possibilità di garantire i livelli di assistenza e sulla qualità dei servizi offerti”. Il nostro patrimonio tecnologico, per quanto dotato di attrezzature, è obsoleto, mal distribuito e ha un livello di utilizzo pari a circa il 25% di altri paesi UE.

La spesa sanitaria italiana è prevista per il 6,5% del PIL nei prossimi anni, quando era il 7,1% nel 2009; in Germania è al 9,6%, in Francia al 9,5%.

Fra il 2009 e il 2017 il nostro Sistema Sanitario Nazionale ha perso 46.000 unità di personale dipendente (-6,7%): fra questi 8.000 medici (che oggi hanno una età media talmente alta da far prevedere un collocamento in pensione di 2 medici specialisti e 9 di famiglia al giorno nei prossimi anni… a meno di non accedere alla proposta, solo assurda al pensiero, di farli lavorare fino a 70 anni) e 13.000 infermieri. In condizioni “normali” l’elevata età media, il numero ridotto e turni di lavoro sulle 24 ore rende poco sostenibile ed efficiente il loro lavoro: possiamo seriamente sorprenderci, allora, delle foto del personale sanitario distrutto dal superlavoro di questi giorni?

Depauperamento

Perché questo depauperamento della sanità pubblica è potuto avvenire? Da un lato esso ha fatto parte di un modello “culturale” complessivo che voleva presentare la riduzione della spesa pubblica come una virtù. L’Unione Europea ha certificato e validato questo modello. Un recente studio ha evidenziato che da quando è stato istituito il Semestre Europeo (2011, sotto l’egida del Patto di Stabilità e Sviluppo, 1997) la Commissione Europea ha inviato ben 63 raccomandazioni agli Stati membri per ridurre i costi del sistema sanitario e per introdurre il privato nei servizi socio-sanitari. E queste raccomandazioni hanno trovato governi ben lieti di ottemperare a queste raccomandazioni e le hanno seguite in modo pedissequo.

È cambiato, o sta cambiando, il modello della sanità anche in Italia, da “diritto fondamentale” (con perdita progressiva del suo carattere universalistico) a qualcosa che assomiglia piuttosto ad una “merce”, che ha un valore economico che puoi comprare, di qualità più o meno alta a seconda della tua disponibilità economica. Così, si è spostata l’attenzione verso le prestazioni specialistiche (soprattutto a pagamento), distogliendola dalle cure primarie (che sono meno costose, riducono la pressione ingiustificate su ospedali e pronto soccorso, e sono maggiormente inclusive e capaci di prendere in carico complessivamente il cittadino, soprattutto quello più vulnerabile). Così, si è ridotta l’integrazione tra la presa in carico di tipo sociale e quella di tipo sanitaria, perdendo la capacità di occuparsi e comprendere i bisogni complessivi della persona. Qui hanno perso rilevanza il territorio e gli enti locali, che sarebbero importanti non perché coinvolti nelle nomine delle strutture, ma in quanto in grado di far collaborare il personale sanitario del SSN con quello comunale dei servizi alla persona di tipo sociale, ma anche formativo e culturale. In questo “nuovo” modello si è allargata la forbice delle disuguaglianze fra coloro in grado di “comprarsi” (anche attraverso la sanità integrativa) cure migliori e chi deve accontentarsi di quel che passa il pubblico. A questo corrisponde una perdita di ruolo della sanità pubblica che è quello essenzialmente di garantire l’uguaglianza dei cittadini davanti alla malattia e anche di perequare in questo ambito fra le diverse possibilità di ciascuno. Per questo è diventata funzionale a questo modello anche l’idea, che talvolta fa breccia anche in campo progressista (penso alle posizioni di Emma Bonino e di +Europa), di togliere i più ricchi dalla contribuzione al sistema sanitario nazionale consentendo loro di comprarsi una sanità completamente privata: in questa prospettiva verrebbe completamente meno la funzione perequatrice, legata non al solo gettito IVA ma alla tassazione progressiva sui redditi delle persone fisiche, della sanità pubblica.

Una revisione necessaria

Tutto questo sforzo economicista, di rendere meno costosa la sanità pubblica, per quanto immotivato sul piano del confronto con gli altri paesi europei (che spendono molto più di noi), ha premiato la logica dei Piani di rientro per contenere i disavanzi, distraendo le politiche pubbliche dal vero obiettivo che sarebbe stato quello della riqualificazione dei servizi.

Ora, è possibile invertire questa tendenza? Certamente, se – assumendo il “segno” della crisi del Corona Virus – sapremo cambiare radicalmente direzione, investendo più risorse per un periodo di tempo non breve e quindi con un indirizzo di politica di spesa pubblica strutturale nel ricambio e nell’aumento del personale sanitario, nella revisione sostanziale della sanità integrativa (rendendola effettivamente integrativa e non sostitutiva), armonizzando l’offerta con i principi di appropriatezza e sicurezza previsti dai LEA, evitando la strada dell’autonomia differenziata delle sanità regionali (che, come ci dimostra il caso lombardo, ma anche quello veneto, è una pericolosa illusione), centrando sui livelli essenziali delle prestazioni relativi ai diritti civili e sociali, integrando servizi sociali, educativi e sanitari sul territorio.

Un virata netta e stabile in una diversa direzione. È possibile e necessario, altrimenti passato il Corona forse non reggeremo al prossimo virus.

 

SImone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica

Una proposta della Fondazione ai tempi del coronavirus

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We are alive. Un proposta della Fondazione ai tempi del coronavirus

Una proposta della Fondazione ai tempi del coronavirus

We are alive We are alive. Se vuoi uscire, fallo restando a casa.

Consigli di lettura o di visione o di ascolto da Fondazione Finanza Etica

 

Sono tempi duri questi del coronavirus: oltre ai pericoli oggettivi per la salute pubblica e privata, c’è la paura che “ammazza” e l’allentamento dei rapporti sociali e umani che sembrano necessari per ridurre la virulenza del contagio.

Viene chiesto a tutti un atto di responsabilità, restando a casa: rinunciare a un po’ (ad un bel po’, a dire il vero) di alcune libertà e piaceri individuali per il bene comune, per la salute di tutti. È un bel ribaltamento di prospettiva per il nostro Occidente opulento ed egoista, ma anche costruito sull’esercizio di questa libertà e di questi “piaceri”. C’è da sperare soltanto che sia una rinuncia momentanea e che qualcuno non si faccia prendere la mano. Però, anche per evitare derive spiacevoli, dobbiamo saper separare il grano dall’oglio e mantenere viva, con forme diverse e non pericolose per il bene comune, la capacità di riflettere, di attivare il cervello e il cuore e di interagire fra di noi.

In questo momento in cui tutto è un po’ più fermo e si resta a casa vi proponiamo un altro modo di uscire: attraverso i nostri social, consigli di lettura, di visione o di ascolto. Un film, un libro, un lungo articolo, l’ascolto di un concerto o di un CD o vinile che  abbiamo visto, letto, ascoltato e possiamo consigliare con cognizione di causa.

Il titolo della rubrica “We are alive” richiama una meravigliosa canzone di Bruce Springsteen, e questo ascolto è il primo che vi consigliamo.

#IoRestoACasa

 

Banche etiche e sostenibili e sindacati

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Amalgamated Bank

Banche etiche e sostenibili e sindacati

A cura di Keith Mestrich, Presidente e CEO di Amalgamated Bank

In occasione della presentazione del 3 Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa di Fondazione Finanza Etica

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Ecco il discorso che il CEO di Amalgamated Bank, Keith Mestrich, aveva preparato per l’incontro promosso da Banca Etica e Fondazione Finanza Etica intitolato “Una finanza utile al lavoro”.

A causa delle restrizioni imposte per contenere i contagi da covid-19 Mr. Mestrich non è potuto venire in Italia, ma ha voluto comunque condividere con noi la sua esperienza.

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Grazie. È un onore essere qui con voi stamattina.

Alcuni di noi rientrano dall’incontro annuale della Global Alliance for Banking on Values a Berna. È stato meraviglioso passare un po’ di tempo con i colleghi che lavorano nell’industria finanziaria e che aspirano a una società migliore. È veramente stimolante. Essere circondati anche qui dai rappresentanti del movimento sindacale internazionale, per me amici e alleati, è davvero una cosa preziosa. Voglio quindi iniziare ringraziandovi per il vostro lavoro, per la vostra dedizione a creare un mondo migliore per tutti, portare dignità al lavoro. E per la vostra resistenza a continuare a lottare.

Voglio anche ringraziare Banca Etica per averci ospitato. La vostra missione di fornire una gestione più trasparente e responsabile delle risorse finanziarie, sostenendo al contempo iniziative socio-economiche ispirate ai valori dello sviluppo sociale e umano sostenibile, è una testimonianza di come il sistema finanziario possa davvero funzionare per le persone. È la vostra leadership che ci ha portato qui tutti insieme oggi.

Come per Banca Etica, anche Amalgamated Bank è nata dall’idea che il sistema finanziario debba essere accessibile a tutti. Nel 1923, Sidney Hillman e gli altri dirigenti della Amalgamated Clothing Workers of America decisero che era giunto il momento che i lavoratori e le loro famiglie avessero lo stesso accesso a servizi bancari di qualità e a prezzi accessibili di cui godono le grandi imprese e le persone benestanti. Questa semplice idea si è trasformata nel nostro leitmotiv per tutto il XX secolo – che il Il sistema finanziario debba essere aperto e accessibile a tutti.

Abbiamo offerto conti correnti gratuiti a uomini e donne che lavoravano in un’epoca in cui le banche erano rivolte ai ricchi e ai privilegiati. Abbiamo sviluppato alcuni dei primi prodotti di credito non garantiti, in modo che le sarte e i sarti in difficoltà potessero ottenere un prestito per mandare un figlio all’università, aprire una piccola impresa o fare un importante acquisto per la casa. E abbiamo lavorato con altre banche, partiti politici e sindacati in Europa per creare il primo sistema di rimesse all’estero, affinché i lavoratori immigrati potessero rimandare le risorse alle loro famiglie che vivevano con difficoltà in un’Europa in difficoltà.

La creatività e l’innovazione hanno segnato i nostri primi 97 anni ed è ancora oggi al centro di ciò che siamo. Ci battiamo ancora per le libertà sociali, per un sistema bancario equo che serva tutti, non solo i ricchi, per la giustizia economica e per l’equità in tutti gli aspetti della nostra vita.

Per quasi novant’anni ci siamo dedicati a lavorare con il movimento operaio negli Stati Uniti. Abbiamo lavorato con i sindacati per finanziare alloggi a prezzi accessibili per i loro associati. Abbiamo fornito capitale circolante ai sindacati che si preparavano a scioperare per inviare un forte segnale ai loro datori di lavoro che i sindacati avevano sostanziosi finanziatori. Abbiamo sviluppato prodotti affinity in modo che i lavoratori potessero accedere a prezzi accessibili al sistema di pagamento. Abbiamo aperto filiali nei quartieri della classe operaia in modo che le famiglie dei lavoratori potessero avere un posto sicuro per i loro risparmi, chiedere prestiti per l’acquisto di auto e finanziare le loro case. E abbiamo sviluppato una piattaforma di deposito e prodotti di gestione degli investimenti per aiutare i sindacati a pianificare le loro risorse per le pensioni e il welfare.

Ma il nostro lavoro ha anche dovuto affrontare delle sfide. Come molte banche in tutto il mondo, abbiamo ricevuto un brutto colpo dalla crollo economico nel 2008. Abbiamo dovuto considerare l’ipotesi che la nostra visione della giustizia economica potesse non realizzarsi. Abbiamo visto il credito deteriorarsi e la liquidità prosciugarsi. Ci siamo scoperti sottocapitalizzati e sotto un eccessivo controllo normativo. SInceramente, abbiamo quasi rischiato di fallire. Tutto questo si è verificato mentre il movimento operaio negli Stati Uniti stava vivendo decenni di declino in termini numerici e con scarse prospettive di crescita.

In sostanza, il nostro fino ad allora vincente modello di business, quello cioè di essere un partner leale del movimento operaio, era sottoposto a forte pressione.

Di fronte a questi grandi cambiamenti, abbiamo abbracciato l’incertezza e siamo andati in cerca di opportunità, portando la banca verso una nuova evoluzione. L’economia stava cambiando e il nostro modello di business si doveva adattare a questo cambiamento. Siamo passati da essere principalmente una banca per il lavoro e per la comunità non bancabile a istituto finanziario organizzato per essere al servizio di una comunità molto più ampia. Lavorando sulla reputazione e sull’influenza che ci eravamo guadagnati con i partner sociali, abbiamo iniziato a estendere il nostro raggio d’azione al mondo politico, un mondo in cui ora Amalgamated opera come banca per candidati progressisti in corsa per la carica, dai più piccoli incarichi di Consigliere Comunale, fino a quella di Presidente degli Stati Uniti. Abbiamo iniziato a lavorare con enti no profit, comitati di azione politica, organizzazioni di advocacy e filantropi – tutti con l’obiettivo di far progredire l’agenda progressista.

Ampliando il nostro modello di business, abbiamo abbracciato un’agenda sociale molto più ampia e la nostra banca ha di conseguenza ricominciato a crescere.

Il sistema finanziario è la linfa vitale dell’economia a livello locale, nazionale e globale. Schierarsi con le organizzazioni che lavorano per sostenere, difendere e proteggere questa economia ci permette di svolgere un ruolo positivo nel sostenere una miriade di attività; di cercare equità oltre il colore della pelle, il genere e lo status economico, per costruire un futuro più sostenibile, per sostenere gli sforzi di riduzione della povertà e per vedere la piena realizzazione dei diritti umani. C’è questo straordinaria opportunità di crescita per soddisfare la domanda di responsabilità sociale e di un sistema finanziario sostenibile che è più strettamente allineata con la nostra visione collettiva della sostenibilità sociale.

Per questo motivo, abbiamo pensato in modo più olistico a come fornire prodotti e servizi per costruire un mondo migliore.

Il nostro impegno per la tutela dell’ambiente ne è un buon esempio.

Per fare la nostra parte per invertire gli effetti della crisi climatica, abbiamo assunto impegni significativi ed evoluti che avranno un impatto diretto su tutti i settori dell’economia.

Amalgamated ha integrato la sostenibilità in ogni aspetto delle proprie operazioni, impegnandosi a misurare e rendicontare la propria impronta di carbone, a non concedere prestiti o a non investire nei combustibili fossili, fornendo investimenti senza uso di combustibili fossili ai nostri clienti, e impegnandosi con la società in cui i nostri clienti investono per spingere verso l’allineamento con l’Accordo sul clima di Parigi. Siamo anche fieri della collaborazione con molti dei nostri partner nell’attività di azionariato attivo, affinché le aziende aumentino il livello di responsabilità sociale e di investimenti sostenibili. E stiamo guidando l’impegno delle banche nordamericane allo sviluppo di una serie di principi per il calcolo del carbonio, in modo da poter misurare l’impatto che i nostri portafogli di prestiti e titoli hanno sul clima. Misurando questo impatto, possiamo iniziare a prendere provvedimenti per ridurre il numero di progetti che hanno un impatto negativo e utilizzare il nostro portafoglio prestiti per creare un vero e proprio cambiamento.

Il nostro impegno a lavorare con i nostri partner non è solo impegnarsi per una solida e coerente tutela dell’ambiente. Il nostro impegno per la responsabilità sociale è più ampio.

Le società in cui strati della popolazione soffrono di povertà estrema, emarginazione e discriminazione, non hanno accesso all’assistenza sanitaria di base e all’istruzione, non godono delle libertà democratiche di base o devono far fronte a istituzioni pubbliche disfunzionali, corrotte o irresponsabili creano pressioni sociali che, a loro volta, mettono a dura prova le risorse ambientali ed economiche. È difficile, se non impossibile, rispondere alle esigenze di un pianeta sostenibile senza tener conto del ruolo critico che svolge una società sostenibile. Di conseguenza, un futuro sostenibile per tutti richiede una visione coerente di come gli strati della società, dell’economia, dell’ambiente e della finanza interagiscono tra loro, e del ruolo del sistema finanziario nel facilitare fonti di reddito e società sostenibili.

Diritti economici più ampi come il diritto al lavoro, il diritto alla sicurezza sociale e il diritto all’istruzione e all’assistenza sanitaria sono obiettivi economici chiave che contribuiscono a sostenere lo sviluppo, la crescita e la stabilità sociale, fornendo istituzioni responsabili, lavoratori sani, istruiti e qualificati, garanzie per le persone anziane e una rete di sicurezza in tempi di crisi economica.

La nostra attività consiste nell’essere il partner finanziario delle organizzazioni che lavorano per questo tipo di cambiamento sociale. Nel mio Paese non c’è davvero nessun’altra banca che abbia questo mandato. Come partner di organizzazioni di lavoratori, gruppi ambientalisti, organizzazioni governative e candidati a cariche pubbliche, contribuiamo a rendere la nostra società più sostenibile e giusta. Lo facciamo in modi piuttosto noiosi, ma importanti – facciamo funzionare le transazioni, ascoltiamo attentamente ed eliminiamo gli attriti finanziari che creano preoccupazioni ai nostri clienti e li distolgono dal buon lavoro che fanno, concediamo prestiti di capitale circolante, per far sì che possano continuare a lavorare anche quando i finanziamenti potrebbero essere limitati, e sviluppiamo approcci integrati agli apporti di capitale che permettono ai nostri clienti di pensare ancora più in grande e li aiutano a raggiungere i nobili obiettivi che si prefiggono.

Quindi. Siamo sopravvissuti alla crisi finanziaria e di fatto ne siamo usciti come un’istituzione più forte di quanto non fossimo prima. Il nostro patrimonio è cresciuto di quasi il 50% e ora gestiamo quasi cinque miliardi e mezzo di dollari di attività commerciali. La nostra azienda fiduciaria investe quasi 50 miliardi di dollari di capitale dei lavoratori, fornendo titoli pensionistici a milioni di lavoratori americani e usando la nostra voce come azionista verso altre aziende. Abbiamo più di 4 miliardi di dollari di prestiti che forniscono alloggi a prezzi accessibili, finanziano le energie rinnovabili e stimolano lo sviluppo della comunità. Abbiamo uffici a New York, Washington e San Francisco. Siamo una B-Corp certificata e siamo stati la prima società di proprietà del sindacato a raccogliere fondi nei mercati pubblici, dandoci una moneta liquida per crescere ancora di più e fare di più.

E non lo facciamo come gesto di carità. Siamo un’azienda viva che genera profitti e, grazie alla nostra rinnovate iniziative mirate, il 2019 è stato l’anno più redditizio dal 1997.

E non abbiamo finito. Mentre ci avviciniamo al nostro centenario, la Banca ha aperto un dialogo con i nostri clienti rispetto a ciò che non funziona per loro nell’attuale sistema finanziario. Stiamo imparando molto e stiamo pensando a quale sarà la prossima serie di prodotti e servizi che potremo offrire ai nostri clienti. Proprio come i nostri fondatori, che hanno sviluppato prodotti bancari per una comunità di lavoratori trascurata, forniremo per questo nuovo secolo prodotti e servizi per le organizzazioni trascurate dal sistema finanziario che lavorano ogni giorno per la giustizia economica e sociale.

Il mio è un gran bel lavoro, lo devo ammettere. Sono al servizio di una comunità di organizzazioni che si battono per un mondo migliore. Questo è ciò che penso quando penso all’attività bancaria etica e sono molto orgoglioso del lavoro che svolgiamo.

Grazie.

Terzo Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa

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3 Rapporto Finanza Etica e Sostenibile in Europa

Il Terzo Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa mostra numeri alla mano, come un diverso modello sia non solo possibile, ma già concretamente praticato.

 

È stato pubblicato il Terzo Rapporto sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa. Come per le precedenti edizioni, il rapporto fornisce una panoramica sulle banche etiche e sostenibili sia in termini assoluti sia in confronto con le altre banche.

Il rapporto di quest’anno presenta diverse novità. Il confronto non è stato fatto unicamente rispetto alle banche di maggiori dimensioni (quelle cosiddette too big to fail) ma all’insieme del sistema bancario europeo. Il taglio è poi ancora più europeo, con un focus su diversi Paesi. Sono inoltre delle novità gli approfondimenti sulle paghe dei manager e sull’attività di azionariato critico in Europa.

Come per le precedenti edizioni, il rapporto evidenzia delle differenze sostanziali tra le banche etiche e sostenibili e le altre.

Le prime hanno un rapporto tra prestiti erogati e totale dell’attivo pari al 76%, a fronte di un 39,8% della media europea. Pur in maniera approssimativa e con le dovute cautele, un indicatore di quanto una banca eroghi credito per l’economia e la creazione di posti di lavoro. Una tale differenza di valori non evidenzia una prestazione diversa, ma un modello e un approccio diversi.

A fronte di questa maggiore capacità di sostenere l’economia, le banche etiche nell’ultimo decennio hanno anche avuto un rendimento migliore della media europea. Il ROE (indicatore del rendimento del capitale) è stato del 3,57% per le prime, della metà (1,79%) per le seconde.

Confronto tra Banche Etiche europee e sistema bancario

 

Il mondo della finanza etica e sostenibile si dimostra quindi migliore non “solo” dal punto di vista degli impatti ambientali o sociali o della trasparenza, ma in maniera altrettante evidente riguardo la performance economica.

Una conferma viene anche dalla crescita del settore. Attivi, depositi e patrimonio netto delle banche etiche e sostenibili sono cresciuti a ritmi intorno al 10% nell’ultimo decennio, mentre il sistema bancario nel suo insieme viveva una stagnazione. Gli attivi per le banche etiche sono infatti cresciuti del 9,9% l’anno mentre la media del settore marca un -0,3%, mentre i crediti hanno superato il 10% di crescita annua per le prime a fronte di uno 0,4% per le seconde.

 

Il Terzo Rapporto sulla finanza etica e sostenibile analizza poi nella seconda parte le paghe dei manager. Anche qui, non parliamo di semplici differenze, ma di approcci radicalmente diversi.

Equità nelle retribuzioni

 

Quasi tutte le banche etiche e sostenibili prevedono rapporti tra la paga massima e quella minima e/o quella media al loro interno. Al contrario, in molte banche tradizionali non è raro vedere alti dirigenti con retribuzioni che sono decine, se non centinaia di volte quelle dei loro dipendenti. Retribuzioni dei top manager legate inoltre alla crescita del valore delle azioni nel brevissimo termine e non a obiettivi di lungo periodo.

 

In ultimo, il Rapporto esamina le iniziative di azionariato attivo e critico. Si tratta di utilizzare i diritti legati al proprio un investimento azionario – a partire da quello di voto e di intervento durante l’assemblea – per porre alcune questioni di natura sociale o ambientale e spingere l’impresa a comportamenti più virtuosi.

Sono diversi i successi che vengono presentati nel Rapporto, mostrando in qualche modo come il potere della finanza possa essere incanalato per spingere verso una maggiore sostenibilità l’insieme del sistema economico.

Un modello di successo, da molti punti di vista, quindi.

 

Proprio in ragione di tale successo, e prima ancora grazie alla crescente attenzione del pubblico e dei risparmiatori verso i temi ambientali e sociali, oggi sia le istituzioni sia lo stesso sistema bancario si stanno accorgendo della finanza etica e sostenibile. L’UE ha avviato un percorso per definirla e promuoverla. Per chi da decenni, come Banca Etica in Italia, lavora esclusivamente in questo ambito, tale nuova spinta rappresenta un’opportunità ma anche un rischio.

Lo testimonia l’approccio europeo, dove la sostenibilità è letta quasi esclusivamente in chiave ambientale. La questione dei cambiamenti climatici è tanto importante quanto urgente, ma rappresenta solo una delle dimensioni della sostenibilità. Mancano quasi totalmente nel lavoro europeo le dimensioni sociali e di governance; ovvero due delle tre gambe del tradizionale approccio ESG – Environment, Social, Governance alla sostenibilità.

In maniera forse ancora più incredibile, parlando di finanza e guardando ai recenti disastri, dalla bolla dei subprime in poi, nell’approccio europeo manca completamente il tema della speculazione. Nulla sull’utilizzo distorto di derivati o altri strumenti complessi, nulla sui paradisi fiscali. Nulla persino sugli obiettivi di brevissimo termini del sistema finanziario, uno dei principali motori che spinge le imprese a trascurare i propri impatti ambientali e sociali pur di massimizzare i profitti a breve, inseguendo l’appetito insaziabile degli speculatori.

Tali rischi sono ancora più evidenti se guardiamo alle iniziative promosse dallo stesso sistema bancario e finanziario. Oggi quasi tutti i gruppi di maggiori dimensioni sbandierano la propria sostenibilità. Se però andiamo a vedere il merito di tali iniziative, ci accorgiamo che troppo spesso appaiono più di marketing, se non greenwashing. Una “lavata di verde” per ripulire la propria reputazione senza incidere sul business.

Un dato tra i tanti per confermare tali preoccupazioni. Nei pochi anni dalla firma dell’Accordo di Parigi a oggi, i grandi gruppi bancari hanno finanziato per 1.400 miliardi di dollari i combustibili fossili. Molte di queste banche erano in prima fila al Forum economico di Davos e in altri contesti a stracciarsi le vesti – a parole – sull’emergenza clima. Il pianeta, ben prima del movimento della finanza etica, non può permettersi una simile “bolla” della sostenibilità.

Il mondo della finanza etica e sostenibile mostra al contrario, numeri alla mano, come un diverso modello sia non solo possibile, ma già concretamente praticato da milioni di persone in tutto il mondo. Se i numeri sono ancora piccoli rispetto a quelli della finanza globale, molto dipende dalle nostre scelte e da una riflessione sull’uso dei nostri soldi.

I nostri risparmi sono una goccia nel mare, ma l’insieme di queste gocce crea il sistema finanziario. I maggiori investitori sui mercati internazionali sono banche, fondi pensione, fondi di investimento, assicurazioni. Tutti soggetti che si alimentano con i nostri soldi.

Sappiamo dove finiscono e come vengono utilizzati? Una volta incanalati nel sistema bancario e finanziario, i nostri risparmi creano posti di lavoro o alimentano delocalizzazioni e precarietà? Quale impatto hanno sull’ambiente e il clima? Sono un moltiplicatore per sviluppare l’economia di un territorio o finiscono in qualche paradiso fiscale sottraendosi al fisco e indebolendo l’economia?

Con le nostre scelte rischiamo di essere complici inconsapevoli del sistema di cui siamo vittime. O al contrario possiamo scegliere di sottrarre i nostri risparmi a un modello speculativo e ambientalmente insostenibile per promuoverne uno in cui la finanza torna a essere uno strumento al servizio della società e del pianeta. Il Terzo Rapporto sulla finanza etica e sostenibile in Europa ci aiuta a capire come farlo e perché.

Andrea Baranes, vice-presidente Banca Etica

 

Una finanza utile al lavoro

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Una finanza utile al lavoro

Una finanza utile al lavoro

Come gestire il denaro per favorire occupazione, diritti e ambiente

 

28 Febbraio, 10.30 – 13.00
Centro Astalli, sala Assunta • via degli Astalli 17, Roma

 

Da troppo tempo sembriamo rassegnati a una finanza “nemica” del lavoro che cerca il massimo rendimento nel minor tempo possibile e per farlo sacrifica i diritti dei lavoratori e – spesso – l’esistenza stesse delle aziende che creano occupazione, per non parlare dei disastri ambientali consumati in nome del profitto.
Ma la finanza può essere diversa!
La finanza etica si basa su scelte radicali definite oltre 20 anni fa: sostenere l’economia reale e non quella speculativa; disinvestire dalle imprese coinvolte nella produzione di armi e nei combustibili fossili e sostenere invece imprese attente all’ambiente, ai diritti di chi lavora e delle comunità locali.
Oggi finalmente – sulla spinta dell’opinione pubblica e di alcuni investitori istituzionali, tra cui anche i sindacati di alcuni Paesi europei e nordamericani – anche la finanza tradizionale inizia a porsi queste questioni, aprendo la strada un maggiore ottimismo senza trascurare la necessità di vigilare contro il rischio di greenwashing.

 

Ne parliamo con

Roberto Gualtieri, Ministro dell’Economia e delle Finanze

Maurizio Landini, Segretario Generale della CGIL

Keith Mestrich, Presidente di Amalgamated Bank. L’esperienza della più importante banca sociale statunitense, fondata cento anni fa dal sindacato del settore tessile e oggi punto di riferimento per la finanza etica nordamericana

Andrea Baranes, vice-Presidente Banca Etica. Presentazione del Terzo Rapporto Sulla Finanza Etica e Sostenibile in Europa, con un focus sul tema delle remunerazioni

 

Tavola rotonda con

Anna Fasano, Presidente di Banca Etica

Salvatore Casabona, Responsabile previdenza complementare CGIL

Pier Paolo Baretta, Sottosegretario presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze

Modera: Patrizia Pallara, RadioArticolo1

 

La partecipazione all’evento è gratuita previa registrazione.

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