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CEO come allenatori di calcio. Sull’ultimo rapporto Mediobanca

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Il rapporto di Mediobanca sulle caratteristiche degli amministratori delle società bancarie e assicurative quotate con sede in Italia, “scopre” che in queste società gli amministratori arrivano a guadagnare fino a 183,4 volte il salario dei loro dipendenti. È importante che una fonte così autorevole attesti questa macroscopica disuguaglianza. Una sproporzione che sicuramente qualche problema “etico” lo pone. Infatti, perché altrimenti per definire “etico” un operatore bancario di finanza la legge italiana (art.111 bis Testo Unico Bancario) pone un tetto massimo alle politiche retributive che devono essere “tese a contenere al massimo la differenza tra la remunerazione maggiore e quella media della banca, il cui rapporto comunque non può superare il valore di 5”? Vuol dire che entro il rapporto di 5 a 1 si ritiene etica, equa o equilibrata una politica di retribuzione degli amministratori; e che oltre questo rapporto quanto meno l’eticità della retribuzione è opinabile. Diciamo che il rapporto 183,4 a 1 è molto opinabile.

Questo problema all’interno di un’azienda bancaria diventa intollerabile quando si trova a fronteggiare problemi di sostenibilità economica che possono mettere a repentaglio i posti di lavoro (di recente Unicredit) o gli investimenti dei risparmiatori (l’ultima di queste situazioni è la Banca Popolare di Bari); ma resta un problema anche quando l’azienda non è in crisi perché costituisce uno squilibrio interno non solo di denaro, ma anche di potere, sottrae risorse che possono essere impiegate per il bene comune dell’azienda, e le privatizza.

Il rapporto di Mediobanca colloca ai primi posti della classifica dei più ricchi di questa categoria, con una singola carica (perché, ovviamente, alcuni concentrano nella stessa persona la carica di presidente e amministratore delegato, dunque la massima concentrazione di potere e coincidenza di ruoli, come nel caso di Carlo Cimbri di Unipol), l’amministratore delegato di Assicurazioni Generali, Philippe Donnet, con 5,9 milioni di euro l’anno. Ben prima di Mediobanca, Fondazione Finanza Etica nella sua attività di azionariato critico, aveva interrogato i vertici di Generali su questo problema durante le Assemblee generali degli azionisti del 2018 e del 2019.

Nell’Assemblea del 2018 focalizzammo la nostra attenzione sull’abnorme dimensione che la parte variabile della retribuzione dell’AD (costituita da un bonus annuale in cash e un performance share plan di lungo periodo) poteva assumere rispetto a quella fissa: se tutti gli obiettivi fossero stati raggiunti, la remunerazione variabile sarebbe potuta arrivare fino al 519% della remunerazione fissa, che è pari a 1,4 milioni di euro. In totale, il tetto di remunerazione variabile che l’AD avrebbe potuto raggiungere era pari a circa 7,27 milioni di euro che, sommati alla remunerazione fissa, portavano a una remunerazione totale di 8,67 milioni di euro. Il rapporto fra parte fissa e parte variabile arrivava così a 437. Abbiamo notato e chiesto conto della sproporzione eccessiva fra parte variabile e parte fissa della retribuzione e chiesto all’azienda che cosa ne pensasse. La risposta in sala è stata che dovremmo essere contenti come azionisti che l’azienda paghi molto l’AD, perché vuol dire che egli raggiunge i risultati e che l’azienda va bene. La risposta a domanda scritta, comunque per noi insoddisfacente (tanto che abbiamo votato contro questo punto all’ordine del giorno), era che “Il pacchetto retributivo viene chiaramente definito in modo da garantire un bilanciamento tra componente fissa e variabile della remunerazione, nonché da favorire il raggiungimento di risultati sostenibili di lungo termine”. Tecnicamente una risposta tautologica, anche se condita da pareri del Comitato per le Nomine e la Remunerazione sulla base di “linee guida per la revisione della remunerazione e del pay-mix ove necessari, in linea con le tendenze di mercato e le analisi interne”. Tuttavia in questo piano di remunerazione si legge che, a partire dal 2018, il Gruppo Generali “ha consolidato un percorso interno di valorizzazione e focus sui temi legati alla sostenibilità, con l’obiettivo ultimo di includere i driver chiave dei fattori “ESG” (Environmental, Social and Governance) nelle balanced scorecard del Top Management di Gruppo. Sono previsti specifici indicatori di sostenibilità, rispettivamente focalizzati sull’aggiornamento della strategia di investimento sostenibile sui temi più rilevanti (ad es. Combustibili, Tabacco) e sull’implementazione di una policy di underwriting sostenibile”. Allora abbiamo chiesto dettagli su questi obiettivi e su come sono pesati all’interno del piano di remunerazione; su cosa si intenda per policy di underwriting sostenibile; su quali tipi di attività sarebbero escluse. Ma la risposta è stata ancora una volta elusiva.

L’anno dopo, nel 2019, siamo tornati su questo punto di trasparenza sugli obiettivi di sostenibilità nelle balanced scorecard del Top Management perché, nonostante le nostre richieste, tali obiettivi non sono stati esplicitati con sufficiente chiarezza nemmeno nel piano di remunerazione 2019, dove non si parla più di “ESG” e ci si limita a fare riferimento a dei “KPI (Key Performance Indicators) di sostenibilità, come ad esempio la percentuale di “green & social products”, di “green investments” o l’indicatore “quality of non financial information & reporting”. Ma anche nel 2019 la risposta è stata: “ sono previsti in tutte le balanced scorecard individuali dei manager due indicatori legati rispettivamente all’implementazione dei progetti strategici di Gruppo e locali – che includono iniziative KPI di sostenibilità (p.es. % green & social products, % green investments, quality of non financial information & reporting) – per il raggiungimento degli obiettivi del Piano”. La tautologia è un’arte, evidentemente; cioè la capacità di ripetere quanto già detto e significato in un’altra espressione o con un altro termine o elemento; in questo caso trasformare i termini della domanda in quelli della risposta senza però aggiungere niente e quindi eludendo la stessa domanda.

Non c’è dunque solo lo “scandalo” di retribuzioni abnormi, distanti dalla vita reale ed eticamente discutibili; ma anche non adeguatamente motivate e legate a parametri di sostenibilità, ESG e tutte queste cose che vanno così di moda oggi, che restano però evanescenti, flatus vocis o voci dal sen fuggite senza riscontro cogente nella realtà… se non la materiale e pesante retribuzione plurimilionaria di una categoria di persone sempre più circoscritta e sempre più ricca che, come gli allenatori di calcio, oggi guidano la Juventus, domani rescindono il contratto con buonuscita milionaria e vanno ad allenare il Liverpool e se la squadra non va bene vengono licenziati (con altra buonuscita milionaria) e vanno ad allenare l’Atletico Madrid.

 

Simone Siliani

 

 

Corso di educazione finanziaria e allo sviluppo di impresa – PROVINCIA DI PISTOIA- aperte le iscrizioni

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Fondazione Finanza Etica è partner del progetto “Savoir Faire”, cofinanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione FAMI 2014-2020 (PROG-2227, OS 2, ON 3, lett. m) – 394.419,04€ – annualità 2018-21, 24 mesi) avente a capofila Anci Toscana.

Nell’ambito del progetto la Fondazione svolge corsi gratuiti di alfabetizzazione finanziaria e attività di accompagnamento allo sviluppo di piani di impresa sociale, della durata di 40 ore ciascuno da realizzare in ogni provincia della Toscana.

È aperto il bando per partecipare alla edizione del corso sul territorio della provincia di Pistoia.

Il bando scade il 15 gennaio 2020.

A chi è rivolto

Cerchiamo cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio toscano, compresi i titolari di protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria che siano interessati all’acquisizione di competenze finanziarie e allo sviluppo di capacità imprenditoriale.

Il corso

Le lezioni, condotte secondo metodologie di apprendimento aperte e finalizzate a coinvolgere in maniera quanto più attiva tutti i partecipanti, permetteranno di:

  • Conoscere concetti fondamentali della finanza (cosa sono i soldi, cosa sono il risparmio e l’indebitamento)
  • Informarsi sui diritti fondamentali dei migranti in condizione di pari opportunità (casa, lavoro, salute, istruzione, libertà di circolazione)
  • Imparare ad elaborare un bilancio personale e familiare
  • Conoscere le modalità di finanziamento per l’ avvio e il funzionamento di un’impresa
  • Sviluppare un’idea imprenditoriale di successo

La partecipazione al corso è completamente gratuita. Le lezioni e il materiale didattico sono in italiano, per cui è richiesto un livello adeguato di conoscenza e padronanza della lingua in forma scritta e orale.

Le lezioni durano mediamente 3 ore e si svolgono ogni venerdì mattina (da confermare tramite colloquio con gli iscritti). Sede del corso sono i comitati territoriali Arci della provincia di Grosseto.

Durata

Il corso ha una durata complessiva di 40 ore. Le lezioni dureranno da dicembre 2019 a gennaio 2020.

Documenti

La versione integrale del bando è disponibile qui

Potete scaricare la scheda di iscrizione qui

Come presentare domanda

Per candidarsi è necessario inviare via mail all’indirizzo formazione.fondazione@bancaetica.org o via fax al +39 055 2691148  la scheda di iscrizione debitamente compilata e copia di valido permesso di soggiorno. Il termine per presentare domanda è fissato alle ore 17:00 del 06/12/2019.

Per informazioni sul bando e sulle modalità di partecipazione scrivere a formazione.fondazione@bancaetica.org

oppure telefonare allo 055 2381064 (lunedì, mercoledì e venerdì dalle 15 alle 17)

Nuovo report sulla trasparenza: ecco come si comportano i marchi della moda

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 Nel 2016, una coalizione di sindacati e organizzazioni della società civile impegnate nella difesa dei diritti umani e dei lavoratori ha dato vita all’Impegno per la Trasparenza (Transparency Pledge), un insieme di requisiti minimi per rendere trasparenti le catene di fornitura dei brand e permettere ad attivisti, lavoratori e consumatori di ricostruire la provenienza dei beni prodotti.

Il rapporto “La prossima tendenza della moda: accelerare la trasparenza di filiera nell’industria dell’abbigliamento e calzature mostra come, da allora, decine di marchi della moda abbiano deciso di aderire a questa iniziativa, divulgando un numero sempre maggiore di informazioni sulle loro filiere.

La trasparenza è ormai largamente riconosciuta come un passo importante per favorire l’identificazione e la gestione degli abusi sui lavoratori nelle catene di approvvigionamento del settore tessile.

Non è una panacea, ma è fondamentale per un’azienda che si definisce etica e sostenibile“, ha affermato Aruna Kashyap, consulente senior per i diritti delle donne di Human Rights Watch. “Tutti i marchi dovrebbero essere trasparenti: per questo sono necessarie leggi che impongano la trasparenza insieme a pratiche che garantiscano il rispetto dei diritti umani

La coalizione ha finora contattato 74 aziendechiedendogli di pubblicare le informazioni richieste dal Transparency Pledge: di queste 22 hanno aderito pienamente231 solo in parte21 quasi per nulla3. Alle 22 virtuose, se ne sono aggiunte altre 17 di loro spontanea iniziativa4.

La trasparenza è importante per costringere le aziende ad assumersi le proprie responsabilità. È la garanzia che il marchio è a conoscenza di tutte le fasi di produzione dei suoi beni, consentendo ai lavoratori e agli attivisti da una parte di allertarlo in caso di violazioni, dall’altro di accedere rapidamente a tutti gli strumenti di rivalsa per gli abusi subiti.

Non possiamo però affidarci solo alla buona volontà delle imprese. Più efficaci sarebbero norme nazionali specifiche per imporre alle aziende la due diligence in tema di diritti umani lungo le loro catene di fornitura, obbligandole innanzitutto alla pubblicazione delle informazioni relative alle fabbriche in cui si riforniscono.

Dalla metà del 2018, la stessa coalizione è impegnata con sette Iniziative per il business responsabile (Responsible Business Initiatives – RBIs), per cercare di indirizzare le loro pratiche di business verso modelli etici e promuovere la trasparenza delle filiere tra i loro membri. Ma non essendoci obbligatorietà nella pubblicazione delle fabbriche fornitrici, i comportamenti degli aderenti a questi gruppi variano molto: per questo la coalizione ha chiesto a queste Iniziative di giocare un ruolo determinante, imponendo a chi volesse diventare loro membro, come condizione vincolante per l’adesione, almeno la pubblicazione delle informazioni richieste dall’Impegno per la trasparenza.

Non è più accettabile che iniziative volte a promuovere un business responsabile e pratiche aziendali più etiche non impongano la trasparenza alle aziende quale requisito minimo di affiliazione” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice delle Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. “L’accesso pubblico alle informazioni minime sulle catene di fornitura previste dall’Impegno per la Trasparenza è vitale per consentire ai lavoratori e agli attivisti di identificare e contrastare gli abusi nelle fabbriche”.

Così ad esempio ha fatto l’iniziativa americana Fair Labor Association. A novembre ha annunciato l’obbligo per tutti i suoi aderenti di pubblicare le informazioni sulle loro catene di fornitura in linea con lo standard del Transparency Pledge e renderle disponibili in un formato aperto e accessibile entro il 31 marzo 2020. L’organizzazione ha stimato che più di 50 marchi e distributori dovranno adeguarsi a questo obbligo e che da aprile 2020 potrebbero essere soggetti a una speciale revisione in caso di inadempienza.

Il Dutch Agreement on Sustainable Garments and Textiles (AGT) non ha reso l’obbligo di trasparenza un requisito di adesione ma ha chiesto ai suoi membri di fornire le informazioni al suo segretariato che a sua volta le pubblicherà attraverso l’Open Apparel Registry, un database facilmente accessibile che fornisce informazioni sull’affiliazione delle fabbriche ai marchi e alle Iniziative per il business responsabile.

La United Kingdom Ethical Trading Initiative e la Fair Wear Foundation hanno adottato misure incrementali per migliorare la trasparenza dei loro membri.  La Sustainable Apparel Coalition, amfori, e la German Partnership on Sustainable Textiles non hanno invece fatto nulla per legare la trasparenza ai requisiti di affiliazione.

I governi possono giocare un ruolo fondamentale emanando la legislazione necessaria ad imporre alle aziende la due diligence in materia di diritti umani lungo le loro catene globali di fornitura e la trasparenza su dove vengono realizzati i loro prodotti“, ha affermato Bob Jeffcott, analista politico presso il Maquila Solidarity Network. “Tali norme sono fondamentali per creare condizioni di parità tra le imprese e per proteggere i diritti dei lavoratori“.

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Per informazioni e interviste 
Dott.ssa Deborah Lucchetti, Presidente di Fair e portavoce della Campagna Abiti Puliti, al numero +393381498490 oppure 010.2091376 o via email all’indirizzo deborah.lucchetti@faircoop.it

Link utili

Per maggiori informazioni sulle 74 aziende contattate dalla coalizione e le altre aziende che hanno aderito al Pledge o si sono impegnata a farlo:
https://airtable.com/shrycG3Ylj9wFY2lH/tbljLFp4O3qk0dmVN/viwqDL8ndd3XgcpyK?blocks=bipTM9f7Xn4HdfnXs

adidas, ASICS, ASOS, Benetton, C&A, Clarks, Cotton On, Esprit, G-Star RAW, H&M, Hanesbrands, Levi Strauss, Lindex, Mountain Equipment Co-op, New Balance, New Look, Next, Nike, Patagonia, Pentland Brands, PVH Corporation, and VF Corporation.

31 imprese si sono impegnate a pubblicare almeno la lista e l’indirizzo dei loro fornitori ma sono ancora lontane dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza. Si tratta di: ALDI North, ALDI South, Amazon, Arcadia Group, Bestseller, Coles, Columbia, Debenhams, Disney, Fast Retailing, Gap, Hudson’s Bay Company, Hugo Boss, John Lewis, Kmart Australia, Lidl, Marks and Spencer, Matalan, Mizuno, Morrisons, Primark, Puma, Rip Curl, Sainsbury, Shop Direct, Target Australia, Target USA, Tchibo, Tesco, Under Armour, Woolworths, e Zalando.

Di queste:

  • 18 aziende non hanno ancora pubblicato alcuna informazione
    American Eagle Outfitters, Armani, Canadian Tire, Carrefour, Carter’s, Decathlon, Dicks’ Sporting Goods, Foot Locker, Forever 21, Inditex, KiK, Mango, Ralph Lauren, River Island, Sports Direct, The Children’s Place, Urban Outfitters, e Walmart.
  • 2 aziende hanno pubblicato solo i nomi delle aziende e i Paesi in cui operano:
    Abercrombie & Fitch e Loblaws
  • 1 azienda si è impegnata a pubblicare i nomi e i Paesi nel 2020:Desigual

4Alchemist, Dare to Be, Eileen Fisher, Fanatics, Fruit of the Loom, HEMA, KappAhl, Kings of Indigo, Kontoor Brands, Kuyichi, Lacoste, Lululemon Athletica, Okimono, Schijvens, Toms, We Fashion e Zeeman. Gildan ha cominciato a pubblicare dei dati ma è ancora lontana dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza

 

Al mercato delle emissioni

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Oggi, giovedì 12 dicembre, alla COP25 di Madrid è la giornata contro il Mercato della CO2, indetta dall’alleanza di oltre 200 gruppi di base e indigeni americani e canadesi “It Takes Roots”.

Questa del Mercato della CO2 è una questione molto tecnica, con notevoli risvolti politici, certamente decisiva e controversa per la lotta al cambiamento climatico. Si tratta delle prima strategia sul tema adottata dalla comunità internazionale sulla base dell’accordo di Kyoto del 1997. Il mercato internazionale dellle emissioni di CO2, in teoria, dava ai paesi aderenti all’accordo degli incentivi per abbattere le emissioni, in quanto ricevevano crediti per i loro sforzi – su progetti di energia rinnovabile, conservazione delle foreste, ecc. – che potevano essere venduti ai paesi in difficoltà a raggiungere i loro obiettivi di abbattimento di emissioni. Questo strumento avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell’accordo, accelerare il raggiungimento complessivo dei limiti di emissioni previsti per mantenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto dei 2°C dei livelli preindustriali. In realtà è diventata un argomento molto controverso e dibattuto circa la sua efficacia ed è al centro del dibattito alla COP25 relativamente all’art.6 del Trattato di Parigi.

Secondo molti il mercato delle emissioni si è rivelato uno strumento non solo scarsamente efficiente, ma addirittura utile per ulteriore business, sfruttamento delle foreste e legittimazione ad inquinare. I contrari a questo strumento statale di controllo delle emissioni sostengono che esso consente alle compagnie petrolifere di investire in vasti progetti di mitigazione dei combustibili fossili in altri paesi invece di ridurre le proprie emissioni.

Infatti, chi sostiene lo strumento del mercato delle emissioni è soprattutto l’industria delle fossili, come l’International Emissions Trading Association, fra i cui membri spiccano BP, Chevron, Shell, che di recente hanno stimato come il mercato delle emissioni possa ridurre i costi per l’implementazione dell’accordo di Parigi di circa 250 miliardi di dollari l’anno fino al 2030.

Di questo mercato hanno fatto largo uso i paesi europei, costituendo il primo e più vasto mercato delle emissioni nel 2005 con l’Emission Trading System. Attraverso di esso questi paesi hanno elargito una quantità enorme di crediti alle loro industrie, ma il risultato è stato che il costo dell’inquinamento è diventato troppo basso per stimolare una reale riduzione delle emissioni di gas serra.

L’altro grande mercato delle emissioni, il Clean Development Mechanism istituito dall’art.12 del Protocollo di Kyoto – che permette ai paesi industrializzati di acquistare i Certificati di Riduzione delle Emissioni (CER) e di investirli in riduzioni di emissioni laddove ciò è meno oneroso nel mondo (i paesi in ritardo di sviluppo) – ha canalizzato oltre 138 miliardi di dollari in circa 8.000 progetti nei paesi terzi. Ma secondo un recente studio commissionato dalla Commissione Europea all’Öko-Institut di Berlino (centro di ricerca di ecologia applicata), l’85% di questi progetti avrebbero avuto luogo anche senza il Clean Development Mechanism, rendendo così il valore di quest’ultimo almeno discutibile. Tanto è vero che l’Emissions Trading System della UE ha cessato di emettere crediti CDM a favore di progetti in Brasile, India e Cina e il mercato delle emissioni californiano non ne accetta in assoluto. Questo ha portato a una svalutazione dei crediti, che nel 2008 valevano 23 dollari a tonnellata, mentre oggi, secondo le stime della Banca Mondiale, sono scesi al 30% di quel valore. Il rapporto della Banca Mondiale inoltre conclude evidenziando come solo il 20% delle emissioni globali di gas serra siano coperte da iniziative del mercato della CO2 e che di queste meno del 5% siano valutate a un prezzo coerente con il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi (stimato fra 40 $/ton.CO2 al 2020 e 50-100 $/ton.CO2 al 2030).

È pur vero che alcuni mercati delle emissioni hanno raggiunto alcuni obiettivi, come quello della California, che ha portato lo stato americano a superare già oggi gli obiettivi su energia rinnovabile previsti al 2020, e anche quello di alcuni stati del nordest degli USA, che hanno ridotto del 47% le emissioni di CO2 da produzione di energia a una velocità del 90% maggiore del resto del paese. Ma restano aperti alcuni problemi fondamentali relativi al conteggio, spesso duplicato, dei crediti per i progetti di riduzione delle emissioni da parte sia del paese emittente che dal paese ricevente (come nel caso del Brasile), problematiche di efficienza del sistema, ma anche di trasparenza e dunque di natura politica, che per l’appunto sono squadernati davanti ai negoziatori della COP25 a Madrid.

Simone Siliani

 

Unicredit: i dividendi non sono tutto

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Unicredit

Vince il profitto nel Paese disuguale”: così titola Massimo Giannini un suo articolo su Repubblica che parla della crisi di Unicredit che, con il suo nuovo piano industriale, taglia 8.000 posti di lavoro eppure, dall’altro lato, realizza 8 miliardi che distribuisce agli azionisti. Articolo interessante, certamente; finanche “radicale” diremmo. Viviamo in un mondo in cui regna la disuguaglianza: i ricchi incassano dividendi da capogiro e i lavoratori, che quei dividendi li producono, conoscono la precarietà e perdono l’unica fonte della propria sussistenza, il lavoro.
Analisi analoghe sono state pubblicate in molta stampa rilevante in Italia, e sembrerebbe una conversione non da poco. A venti anni dall’apparizione del movimento contrario alla disuguaglianza globale (si era a Seattle il 30 novembre 1999 quando il movimento irruppe sulla scena mondiale contestando l’allora simbolo di quella disuguaglianza, cioè il WTO, World Trade Organization) la stampa mainstream, che allora non guardava proprio con favore quel movimento e che considerava invece la globalizzazione come l’apertura di una fase nuova e progressiva della storia del pianeta, oggi scopre che la globalizzazione si è risolta in un acutizzarsi delle disuguaglianze e delle ingiustizie. Quel movimento, pur con tutti i suoi limiti e la sua fragilità, aveva letto e decrittato le contraddizioni del neoliberismo e della globalizzazione già da qualche decennio. L’errore che alcuni commentatori rischiano di fare ora è di non attribuire le criticità sociali di questo modello economico al neoliberismo, bensì ai robot.

A proposito di indipendenza, vi sarebbe poi da riflettere sulla pubblicità, diretta o indiretta, che i giornali e media, che oggi si scandalizzano per gli 8.000 esuberi, hanno avuto da Unicredit in questi anni per capire quanto di quel surplus, prodotto anche dai lavoratori, ha preso quella strada e quanti articoli a dir poco bonari verso Unicredit si sono fatti scrivere. Come la Exxon con il New York Times. Con la differenza che in America ci sta che qualche contraddizione emerga e finisca anche in tribunale, mentre qui in Italia tutto finisce a tarallucci e vino (molto).

D’altra parte, è noto che nelle pieghe delle attività bancarie si annidano tante cose non sempre specchiate: dalle transazioni di armi alla violazione dei diritti umani, dalle attività nocive per l’ambiente fino al sostegno a imprese dei combustibili fossili. Solo che non lo sappiamo o non vogliamo saperlo e quindi maturiamo l’erronea convinzione che le attività bancarie siano neutrali e che la loro efficacia sia misurabile solo in termini di saldo finanziario finale. Mentre, invece, esattamente come per ogni altra impresa, anche le scelte finanziarie delle banche hanno impatti sociali e ambientali importanti su cui azionisti, risparmiatori, clienti e media potrebbero riflettere. La nostra attività di azionariato critico in varie aziende quotate punta proprio a questo: rendere consapevoli gli azionisti degli effetti non economici delle scelte finanziarie e spiegare come i dividendi non sono tutto, né per l’azienda o gli azionisti, né tanto meno per gli stakeholder. Questo vale anche per le banche, come la recente storia di Unicredit sta lì, plasticamente, a dimostrare.

“La BCE deve agire ora sui cambiamenti climatici”. Lettera aperta a Christine Lagarde

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Questa è una traduzione dalla versione originale in inglese, disponibile qui.

 

Gentile Signora Lagarde,

Come nuova Presidente della Banca Centrale Europea si troverà ad affrontare molte sfide nei prossimi anni, ma la più importante è come la BCE combatterà i cambiamenti climatici e si adopererà per accelerare la transizione verso un’economia libera da emissioni di carbonio. Durante la Sua audizione al Parlamento Europeo, si è giustamente impegnata a mettere “la protezione dell’ambiente al centro della missione della BCE”. In qualità di accademici, rappresentanti della società civile e dei sindacati, imprenditori e cittadini profondamente preoccupati dai cambiamenti climatici, riteniamo che l’istituzione finanziaria più potente d’Europa non possa rimanere passiva di fronte alla crescente crisi ambientale.

I cambiamenti climatici non solo mettono in pericolo la nostra sopravvivenza, ma compromettono anche la stabilità finanziaria, l’economia reale e l’occupazione. È stato stimato che, senza un effettivo impegno per mitigarli, i rischi fisici legati ai cambiamenti climatici potrebbero comportare perdite fino a 24 trilioni di dollari del valore degli asset finanziari globali[1]. Per tutte queste ragioni, si rende necessario un massiccio trasferimento di flussi finanziari per ottenere una transizione a basse emissioni di carbonio e socialmente equa, e ciò non può essere fatto senza che le banche centrali spingano attivamente il sistema finanziario nella giusta direzione. Questo non solo renderà la nostra economia più sostenibile, ma faciliterà la creazione di posti di lavoro in settori a minore intensità di carbonio.

Sappiamo che la questione è oggetto di discussione tra molte banche centrali che fanno parte del “Network for Greening the Financial System”, compresa la BCE. Ma i progressi sono troppo lenti e il tempo stringe. Non possiamo aspettare anni per studiare i rischi finanziari a lungo termine; le banche centrali devono utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per prevenire proattivamente tali rischi. A questo proposito, desta profonda preoccupazione constatare che la BCE – in nome della neutralità dei mercati – stia ancora acquistando su larga scala asset da società che operano in settori ad alta intensità di carbonio e legati ai combustibili fossili. Se la BCE è veramente preoccupata dei rischi legati al clima, dovrebbe riconoscere che la sua attuale politica monetaria è parte del problema e sta rafforzando un pericoloso status quo.

Senza ulteriori indugi, la BCE dovrebbe impegnarsi a eliminare gradualmente dal proprio portafoglio asset ad alta intensità di carbonio, iniziando con l’immediato disinvestimento dalle attività connesse ai fossili. Senza attendere la “tassonomia verde” sviluppata dalla Commissione Europea, i criteri di impatto climatico dovrebbero essere utilizzati per controllare tutte le attività attualmente ammissibili per operazioni di politica monetaria.

Come ha dimostrato la risposta all’emergenza dell’ultima crisi finanziaria, le banche centrali non mancano di immaginazione quando la situazione lo richiede. Sotto la Sua guida, la BCE potrebbe impiegare una analoga creatività nell’affrontare le minacce dei cambiamenti climatici, riprogettando o rifinanziando operazioni di “Quantitative Easing” per garantire il sostegno a investimenti che contribuiscano alla transizione verde.

Dovrà inevitabilmente affrontare la resistenza ideologica di coloro che pensano che le banche centrali dovrebbero lasciare ad altri le politiche climatiche e rimanere neutrali rispetto ai mercati. Ma è ora di rivedere questo principio. Se si è d’accordo con Nicholas Stern che “il cambiamento climatico è un risultato del più grande fallimento del mercato che il mondo abbia visto“, l’idea che la politica monetaria dovrebbe semplicemente rispecchiare il mercato equivale ad aggiungere un fallimento normativo a quello di mercato.

D’altro canto, troverà anche un forte sostegno politico a supporto di un’azione risoluta in questa direzione. La lotta ai cambiamenti climatici è uno dei principali obiettivi politici dell’UE e, in quanto tale, rientra nel Suo mandato come definito dall’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come è stato confermato più volte dal Parlamento europeo[2]. Inoltre, la BCE, in quanto istituzione dell’UE, è giuridicamente vincolata dall’Accordo di Parigi sul clima. In caso di dubbi su questo punto in futuro, può avere piena fiducia che il Parlamento europeo – al quale la BCE è tenuta a rispondere – fornisca ulteriori chiarimenti e orientamenti sul ruolo che la BCE dovrebbe svolgere nell’ambito della più ampia strategia climatica dell’UE.

Se Lei è seriamente intenzionata a porre la BCE in prima linea nella lotta contro il cambiamento climatico, può contare sul nostro sostegno per contribuire a questo dibattito in modo costruttivo e democratico.

 

[1] Dietz, Simon, Bowen, Alex, Dixon, Charlie and Gradwell, Philip (2016) ‘Climate value at risk’ of global financial assets. Nature Climate Change, 6. pp. 676-679. ISSN 1758-678X

[2] European Parliament resolution on sustainable finance, April 2018 https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2018-0215_EN.html

 

Firme dalle organizzazioni
  1. Secours Catholique – Caritas France
  2. Potsdam Institute for Climate Impact Research
  3. Finnish Confederation of Professionals (STTK)
  4. Greenpeace Netherlands
  5. Confédération française démocratique du travail
  6. European Federation of Ethical and Alternative Banks & Financiers (FEBEA)
  7. UNI-Europa
  8. Stockholm Resilience Centre
  9. Finance Watch
  10. Institute for Climate economics (I4CE)
  11. WWF European Policy Office
  12. Fondazione Finanza Etica
  13. World Future Council
  14. Finanzwende
  15. ASUFIN
  16. FEPS
  17. IPSO ECB Trade Union
  18. The Club of Rome
  19. Positive Money Europe
  20. Veblen Institute for Economic Reforms
  21. Centre des Jeunes Dirigeants
  22. Greenpeace France
  23. Fondation Nicolas Hulot
  24. Attac Germany
  25. The Shift Project
  26. Rethinking Economics
  27. Institut Louis Bachelier
  28. KEDGE Business School
  29. WEED – World Economy, Ecology & Development
  30. Attac France
  31. AXYLIA
  32. org
  33. Society for International Development (SID)
  34. Fondation Copernic
  35. Urgewald
  36. Sauvons l’Europe
  37. BankTrack
  38. Chaire Positive Business – Université Paris Nanterre
  39. PowerShift e.V.
  40. FISAC/CGIL
  41. Sunrise Project
  42. Green Economy Coalition
  43. SOMO
  44. Greentervention
  45. The Green New Deal for Europe
  46. European Alternatives
  47. Greenpeace International
  48. Réseau Action Climat
  49. Fair Finance Institute
  50. Federazione degli Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (FOCSIV)
  51. Monetative e.V.
  52. Observatorio de la Deuda en la Globalización
  53. Attac Austria
  54. Asociación de las Comunidades Autofinanciadas
  55. Réseau International de recherche sur les Organisations et le Développement Durable (RIODD)
  56. Schutzstation Wattenmeer
  57. SDSN France
  58. Edgeryders
  59. WECF France
  60. FISAC/CGIL
  61. Banca Etica
  62. Alofa Tuvalu

 

Firme dagli esperti individuali
  1. Adam Tooze, Professor, Columbia University, European Institute, USA
  2. Adair Turner, Chairman, Energy Transitions Commission & Former Chairman of the UK Financial Services Authority, UK
  3. Tim Jackson, Professor, University of Surrey, UK
  4. Herman Wijffels, Former CEO at Rabobank, Netherlands
  5. Panicos Demetriades, Professor of Financial Economics, University of Leicester, UK
  6. Jézabel Couppey-Soubeyran, Professeur, Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne, France
  7. Nick Robins, Professor, Grantham Institute on climate change and the Environment, UK
  8. Rens van Tilburg, Director, Sustainable Finance Lab, Netherlands
  9. Francesco Papadia, Senior Fellow, Bruegel, Belgium
  10. Dominique Plihon, Professeur émérite, Université Sorbonne Paris Nord, France
  11. Vincent Aussilloux, Head of the Economics Department, France Stratégie, France
  12. Benjamin Braun, Senior Researcher, Max Planck Institute for the Study of Societies, Germany
  13. Andrew Watt, Macroeconomic Policy Institute (IMK), Germany
  14. Miguel Otero-Iglesias, Professor, IE School of Global and Public Affairs, Spain
  15. Jacob Funk Kirkegaard, Senior Fellow, PIIE, USA
  16. Jeroen van den Bergh, Professor of environmental economics, Universitat Autònoma de Barcelona, ICREA & Vrije Universiteit Amsterdam, Spain & The Netherlands
  17. Jacqueline Cramer, Professor & Former Minister of the Environment, Utrecht University, Netherlands
  18. Rick van der Ploeg, Professor of Economics, University of Oxford, UK
  19. Hans Schenk, Emeritus Professor, Utrecht University, Netherlands
  20. Dirk Schoenmaker, Professor of Banking and Finance, Erasmus University Rotterdam, Netherlands
  21. Irene van Staveren, Professor of pluralist development economics, Erasmus University Rotterdam, Netherlands
  22. Pier Vellinga, chairman of various boards and academic professor, Netherlands
  23. Bert de Vries, Prof. em., Utrecht University / SFL, Netherlands
  24. Lara Lázaro Touza, Lecturer, Universidad Complutense de Madrid, Spain
  25. Alain Grandjean, Fondateur, Carbone4, France
  26. Mark Blyth, Professor, Brown University, USA
  27. Joze Damijan, Professor of Economics, University of Ljubljana, Slovenia
  28. Koen Schoors, Professor Economics, Ghent University, Belgium
  29. Dirk Ehnts, Technical University of Chemnitz, Germany
  30. Eric Lonergan, Economist, UK
  31. Sergio Rossi, Professor of Economics, University of Fribourg, Switzerland
  32. Henk de Vos, Retired associate professor, Netherlands
  33. Hubert Kempf, Professor, Ecole Normale Supérieure Paris Saclay, France
  34. Michaël Malquarti, Promoter of a monetary reform and published author, Switzerland
  35. Hugues Chenet, Honorary Senior Research Associate, University College London, France
  36. Jean Hetzel, Expert Green Finance, France Nature Environnement, France
  37. Nadia Ameli, University College London, UK
  38. Yamina Tadjeddine, Professeure de sciences économiques, Université de Lorraine, France
  39. Sebastian Diessner, Researcher, European University Institute (EUI), Italy
  40. Catherine Karyotis, NEOMA Business School, France
  41. Jean Christophe Carteron, CSR Director, KEDGE BS, France
  42. Laurence Le Poder, Associate Professor, Kedge Business School, France
  43. Nicolas Mottis, Professor, Ecole Polytechnique, France
  44. Tim Foxon, Professor of Sustainability Transitions, SPRU, University of Sussex, UK
  45. Luis Reyes, Professor of Finance, Kedge Business School, France
  46. Jörg Haas, Head of Division International Politics, Heinrich Böll Stiftung, Germany
  47. Frank Van Lerven, Senior researcher, New Economics Foundation
  48. Oliver Picek, Senior Economist, Momentum Institut, Austria
  49. Irene Monasterolo, Assistant Professor, Climate Economics and Finance, Vienna University of Economics and Business (WU), Austria
  50. Denis Dupré, Professor of finance and ethics, Université Grenoble-Alpes, France
  51. Philippe Givry, Professor of finance, Kedge Business School, France
  52. Paul Dermine, Expert in EMU Law, Maastricht University, Belgium
  53. Léo Charles, Maître de conférence, Université Rennes 2, France
  54. Regis Marodon, Conseiller finance durable, Agence Française de Développement, France
  55. Pierre Cours-Salies, Professeur émérite Sociologie, France
  56. Anaïs Henneguelle, Assistant Professor in Economics, Université de Rennes 2, France
  57. Léo Malherbe, PhD student, Université de Bordeaux, France
  58. Ludovic Suttor-Sorel, Research officer, Finance Watch – TEG member, Belgium
  59. Christiane Bernard, CGT, France
  60. Johann Walter, Prof. Dr., Westfälische Hochschule Gelsenkirchen (University of Applied Sciences), Germany
  61. David Bourghelle, Professor, Lille University, France
  62. Enrico Giovannini, Full professor of statistics and economics, University of Rome Tor Vergata, Italy
  63. Olivier Gergaud, Professor, Kedge Business School, France
  64. Nicoletta Dentico, Director, Health Innovation in Practice (HIP), Italy
  65. Lídia Brun Carrasco, Economist, Université Libre de Bruxelles, Spain
  66. Claude Calame, Directeur d’études EHESS, ATTAC, France
  67. Janie Arneguy, Conseillère Municipale Ensemble, Ensemble, France
  68. Carlos Alvarez-Pereira, President, Innaxis Foundation, Spain
  69. Matthias Kroll, Chief Economist, World Future Council, Germany
  70. Marion Cohen, President, MC Conseil, France
  71. Axel Troost, Geschäftsführer, Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik e.V., Germany
  72. Esther Regnier, Doctor, University of Brest, France
  73. Nicholas Dorn, Part-time course lecturer, Financial sociologist, Institute of Advanced Legal Studies, London, UK
  74. Padraic Kenna, Director, Centre for Housing Law Rights and Policy, Ireland
  75. Nicolas Huchet, lecturer, Université de Toulon, France
  76. François Chantran, Attac, France
  77. Frederique Dejean, Professor, Paris Dauphine PSL, France
  78. Marc Lenglet, Associate Professor, NEOMA Business School, France
  79. Aurélien Decamps, Associate Professor, KEDGE Business School / Sulitest.org, France
  80. Nicolas Rose, Chargé de mission innovation & Référent développement durable, Région Nouvelle-Aquitaine, France
  81. Jens van’t Klooster, FWO Postdoctoral Fellow, KU Leuven, Belgium
  82. Stephanie Jalabert, Adjunct professor in Management accounting, International University of Monaco
  83. Pierre Lachaize, Directeur, Innovation Durable Consulting, France
  84. Nicolas Postel, Professor of economics, University of Lille, France
  85. Dimbi Ramonjy, Associate professor, La Rochelle Business School – Excelia group, France
  86. Janina Urban, Research Assistant, Research Institute for Societal Development, Germany
  87. Magalie Marais, Associate Professor/Enseignante-Chercheure, Montpellier Business School, France
  88. Clément Séhier, IMT Lille-Douai, France
  89. Roland Pérez, Professeur (hon.), Université Montpellier, France
  90. Morgane Fritz, Associate Professor in Supply Chain Management, La Rochelle Business School – Excelia Group, France
  91. Michel Capron, Professeur honoraire des universités, Université Paris 8 – Saint Denis, France
  92. Corinne Vercher-Chaptal, Professor, Université Paris 13, France
  93. Dilip Subramanian, Associate Professor, NEOMA Business School, France
  94. Robin Jarvis, Professor, Brunel University, UK
  95. Valentina Carbone, Professor, ESCP Europe, France
  96. Dorothea Schäfer, Research Director in the Macroeconomics Department, DIW Berlin, Germany
  97. Rudolf Hickel, Vorsitzender, Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik e.V., Germany
  98. Thomas Korbun, Scientific Director, Institute for Ecological Economy Research (IOEW), Berlin, Germany
  99. Steffen Lange, Postdoctoral Researcher, Institute for Ecological Economy Research (IOEW), Berlin, Germany
  100. Davide Castro, Digital Communications and Strategy, DiEM25, Belgium
  101. Matthias Schmelzer, Researcher, Konzeptwerk Neue Ökonomie e.V., Germany
  102. Esther Jeffers, economist, Université de Picardie Jules Verne (UPJV), France

 

 

 

“Stop armi italiane in Yemen”. Nessuna risposta del Ministro Di Maio alla richiesta di incontro della società civile.

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filiera esportazione armi

Il mese scorso Amnesty International Italia, Comitato Riconversione RWM, Fondazione Finanza Etica, Movimento dei Focolari, Oxfam Italia, Rete Italiana per il Disarmo, Rete della Pace, Save the Children Italia hanno richiesto un incontro al Ministro degli Esteri On. Luigi Di Maio. Al momento nessun riscontro positivo è giunto in tal senso.

Le Organizzazioni della società civile rilanciano le preoccupazioni per la situazione in Yemen e per il ruolo dell’Italia nel conflitto yemenita, chiedendo al nostro Paese di spendersi con maggiore forza e produttività per la pace in quel martoriato Paese.

 

Nella lettera, inviata il 7 ottobre da numerose organizzazioni della società civile al Ministro degli Esteri Di Maio, sono state inserite richieste chiare sul ruolo positivo dell’Italia in Yemen, dopo la decisione governativa appresa dai media a metà 2019 sulla sospensione dell’invio di bombe d’aereo e missili verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Nella stessa lettera si era fatto richiamo alle posizioni espresse sul tema dallo stesso Ministro e nel programma del nuovo Governo.

Nonostante tale posizione e le nostre sollecitazioni, ad oggi nessun riscontro positivo ad un incontro è ancora arrivato dal ministro Di Maio. Proprio per il significativo impegno che il Ministro di Maio (e il Movimento 5 Stelle tutto) ha profuso in questa battaglia, riteniamo opportuno che sia lo stesso Ministro in prima persona ad incontrare la società civile per illustrare direttamente la posizione del governo sui vari aspetti che coinvolgono la crisi in Yemen.

Le nostre organizzazioni reiterano pertanto la richiesta di un incontro al Ministro degli Esteri per poter discutere con lui di uno dei più gravi scenari di crisi attuali, tornando a chiedere all’Italia di:
> sospendere immediatamente ogni autorizzazione all’esportazione di tutte le tipologie di armi verso le parti in conflitto in Yemen, incluse le autorizzazioni già rilasciate. Non basta, infatti, fermare bombe d’aereo e missili, ma serve bloccare tutte le forniture;
> sospendere immediatamente ogni autorizzazione all’esportazione verso tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Yemen, non solo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti;
> promuovere un’azione di embargo sugli armamenti a livello europeo (ipotesi presente anche nella mozione Parlamentare che aveva determinato la presa di posizione del Governo);
> promuovere iniziative concrete per la risoluzione diplomatica e multilaterale del conflitto in corso in Yemen, attraverso un nuovo ciclo di negoziati di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite;
> incrementare significativamente l’impegno finanziario nel sostenere il Piano di risposta umanitario delle Nazioni Unite;
> sostenere alternative lavorative per il Sulcis-Iglesiente e tutte le aree italiane soggette al “ricatto” occupazionale del settore degli armamenti in particolare rifinanziando il Fondo per la Riconversione previsto dalla legge 185/90 ed attivando piani e programmi occupazionali fondati sullo sviluppo sostenibile (Agenda 2030).

Come si può facilmente constatare dalla lista di temi sottoposti all’attenzione del Ministro, intenzione della nostra lettera era quella di ottenere un incontro non solo per approfondire le questioni “tecniche” dello stop delle vendite ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi – anche se ad oggi non sono stati diffusi tutti i dettagli su come sia stata impostata e implementata la decisione – ma soprattutto per discutere in maniera ampia e costruttiva, con la massima autorità di politica estera del nostro Paese, il ruolo positivo che l’Italia potrebbe avere nella risoluzione della crisi in Yemen.
Va inoltre ricordato, che al di là della legge italiana 185/90 che regola l’export di armamenti, l’Italia ha ratificato anche il Trattato ATT sul commercio internazionale di armi che prevede una valutazione anche dei soli “rischi” di violazione dei diritti umani derivanti da tale commercio, e pertanto ha l’obbligo morale di giocare un ruolo chiave nel controllo dell’export di armamenti.

 

Amnesty International Italia – Comitato Riconversione RWM – Fondazione Finanza Etica, Movimento dei Focolari – Oxfam Italia – Rete Italiana per il Disarmo – Rete della Pace – Save the Children Italia

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per maggiori informazioni: segreteria@disarmo.org – 328 3399267

Corso di educazione finanziaria e allo sviluppo di impresa – aperte le iscrizioni per CECINA E VAL DI CORNIA

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Fondazione Finanza Etica è partner del progetto “Savoir Faire”, cofinanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione FAMI 2014-2020 (PROG-2227, OS 2, ON 3, lett. m) – 394.419,04€ – annualità 2018-21, 24 mesi) e di cui è capofila Anci Toscana.

Nell’ambito del progetto la Fondazione svolge corsi di alfabetizzazione finanziaria e attività di accompagnamento allo sviluppo di piani di impresa sociale, della durata di 40 ore ciascuno da realizzare in ogni provincia della Toscana.

È aperto il bando per partecipare al corso che si terrà a Cecina (LI)

Il bando scade il 6 dicembre 2019.

A chi è rivolto

Cerchiamo cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio della provincia di Firenze, compresi i titolari di protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria che siano interessati all’acquisizione di competenze finanziarie e allo sviluppo di capacità imprenditoriale.

Il corso

Le lezioni, condotte secondo metodologie di apprendimento aperte e finalizzate a coinvolgere in maniera quanto più attiva tutti i partecipanti, permetteranno di:

  • Conoscere concetti fondamentali della finanza (cosa sono i soldi, cosa sono il risparmio e l’indebitamento)
  • Informarsi sui diritti fondamentali dei migranti in condizione di pari opportunità (casa, lavoro, salute, istruzione, libertà di circolazione)
  • Imparare ad elaborare un bilancio personale e familiare
  • Conoscere le modalità di finanziamento per l’ avvio e il funzionamento di un’impresa
  • Sviluppare un’idea imprenditoriale di successo

La partecipazione al corso è completamente gratuita. Le lezioni e il materiale didattico sono in italiano, per cui è richiesto un livello adeguato di conoscenza e padronanza della lingua in forma scritta e orale.

Le lezioni si svolgeranno in orario lavorativo di giornate feriali da individuare con i candidati durante i colloqui conoscitivi. Sede dei corsi sono i comitati territoriali ARCI di Cecina.

Durata

Il corso ha una durata complessiva di 40 ore. Le lezioni dureranno da novembre a dicembre 2019.

Documenti

La versione integrale del bando è disponibile qui.

Potete scaricare la scheda di iscrizione qui.

Come presentare domanda

Per candidarsi è necessario inviare via mail all’indirizzo formazione.fondazione@bancaetica.org o via fax al +39 055 2691148 o consegnare a mano presso l’ufficio della Fondazione in via Calzaiuoli 7, Firenze (soltanto il lunedì, mercoledì e venerdì dalle 15 alle 17) la scheda di iscrizione debitamente compilata e copia di valido permesso di soggiorno. Il termine per presentare domanda è fissato alle ore 17:00 del 6/12/2019.

Per informazioni sul bando e sulle modalità di partecipazione scrivere a formazione.fondazione@bancaetica.org

oppure telefonare allo 055 2381064 (lunedì, mercoledì e venerdì dalle 15 alle 17)

L’azionariato critico. Storie, strumenti, successi.

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L'azionariato critico

Questa ricerca di Fondazione Finanza Etica rappresenta il primo lavoro organico in Italia che descrive la storia dell’azionariato critico dalle sue origini negli Stati Uniti, distingue tra azionariato critico e attivo, analizza l’attività di azionariato critico in Italia (da Legambiente a Fondazione Finanza Etica) e fornisce una nomenclatura e delle “istruzioni” per come diventare azionista critico.

>>SCARICA<< il rapporto

Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti che, in quanto “comproprietari”, acquistano il diritto di partecipare alla vita della società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali che possano avere un impatto negativo sui risultati finanziari dell’impresa. La grande sfida dell’azionariato critico è proprio questa: dimostrare alle imprese che se non si interessano sufficientemente alle conseguenze delle proprie azioni sul clima, sugli ecosistemi o sulle comunità di riferimento, la loro condotta potrebbe mettere in pericolo la stessa capacità di generare profitti per gli azionisti, a causa della sottovalutazione di rischi potenziali, possibili sanzioni, danni alla reputazione, e quindi al marchio che per molte società, in particolare quelle che si rivolgono direttamente ai consumatori, è uno dei beni più preziosi.

A cura di Mauro Meggiolaro.

La pubblicazione è stata realizzata nell’ambito del progetto NewBusiness4Good.